giovedì 10 maggio 2012

Il silenzio non è una necessità assoluta

Il ristorante (in Thailandia).
Stai cenando in un bel ristorantino, il vapore che sale dalla bottiglia di birra ghiacciata sfiora le tue guance arrossate mescolandosi all'aroma delle spezie che impregnano i frutti di mare sistemati davanti a te. La brezza di un ventilatore in lontananza si affanna a intermittenza per deviare il corso delle gocce di sudore che scivolano sulla tua fronte. Fa un caldo asfissiante, il caldo di una stagione che terminerà in fretta, spazzata via dalla violenza dei monsoni, ma tu hai imparato a respingere queste ondate di calore e a tenerle fuori dal bozzolo pacifico e fresco in cui ti piace rintanarti. Forse è il tuo atavico spirito di adattamento o forse alcune delle capacità nirvaniche dei monaci buddhisti sono state finalmente assorbite da un non identificato elemento spirituale nascosto da qualche parte dentro di te. Potresti addirittura goderti il momento. Perché in effetti dovrebbe essere un momento piacevole. Potresti, come dicevo, se non fosse per le vibrazioni di una chitarra elettrica e le urla feline di un cantante che colpiscono i tuoi timpani da distanza ravvicinata. Capisci che questo posto ti sta davvero cambiando quando scopri che invece di imprecare e insultarli canticchi il ritornello tra un boccone e l'altro, mentre la tua suola destra tiene il tempo sotto il tavolo scacciando al contempo uno scarafaggio o un topo venuto a banchettare tra gli avanzi.

Il cinema (in Cina).
Un trillo. Cerchi di indovinare a quale dei personaggi che appaiono sullo schermo sta suonando un cellulare. Non ci riesci, la curiosità ti rode, ma fra qualche istante il regista svelerà il mistero. Nulla, dopo dieci secondi nessuno nel film ha ancora ricevuto una chiamata. Noti invece che tre file sotto a te un cinese chiacchiera allegramente al cellulare. Stupore. E non si preoccupa di non alzare la voce quando gli sembra opportuno farlo. Doppio stupore. Con l'altra mano fa ruotare nell'aria una sigaretta accesa, da cui ogni tanto, mentre è il suo interlocutore a parlare, tira delle gran boccate di fumo che poi disperde a ventaglio sulle teste degli altri spettatori, con i movimenti invariabili e l'energia costante di un ventilatore. Stupore triplo, anche se questo non conta, perché fumare non fa rumore e si tratta di un problema totalmente diverso. Lo stupore cala invece il poker quando ti rendi conto non solo che nessuno gli dice nulla ma soprattutto che sembri essere l'unico in sala a dare importanza alla faccenda. That's China, mormori ricordando il mantra che ti è stato insegnato quando sei arrivato nel paese. Poi ti rimetti a seguire il film. Non sono stati comunque dei minuti sprecati. Controlla: sei già un po' più cinese di quanto lo fossi quando sei entrato. Beh magari più cinese no, ma un po' meno del posto da cui provieni forse sì, e di conseguenza un po' meno vulnerabile alle insidie della Cina.

Il parco (in Thailandia).
La gente va al parco per fare una passeggiata, leggere un libro, passare un momento romantico con la dolce metà, godersi la sensazione che soltanto una riserva naturale infilzata nel cuore della città sa trasmettere o anche solo appisolarsi su una panchina. Beh, provateci se ne siete capaci. Casse potenti pompano le note di sciocchi brani commerciali o, se siete più fortunati, di qualche pezzo folk. E quando quella playlist è terminata comincia la lezione gratuita di aerobica, musica irritante e urletti acuti dell'istruttore inclusi, ovviamente. L'unica cosa che resta da fare è lasciarsi andare e godersi lo spettacolo delle ciccione e dei vecchi che scimmiottano i movimenti del gay sulla pedana. 

Il Karaoke rudimentale (onnipresente nelle aree rurali del sud est asiatico).
Questo locale è allestito nel garage o addirittura nel giardino di una famigliola che per guadagnare qualche soldo ha investito una somma modesta in una specie di stereo con vari microfoni e una serie di dischi con canzoni sottotitolate e video inguardabili. Completano la scena un frigo colmo di birre e bibite gassate da mescolare con dei superalcolici. I clienti non sono mai più di una dozzina, spesso tutti i componenti di un'altra famiglia del paese o un gruppetto di colleghi o amici. Dopo un paio d'ore sono ridotti a degli stracci impregnati di alcol e fumo e sfogano tutta la loro allegria o la loro tristezza repressa sui microfoni, violentando dei brani che per fortuna se lo meritano, producendo suoni che si combinano in sequenze moleste e che per giunta vengono distorti da casse di dubbia qualità. Misteriosamente dalle finestre degli edifici adiacenti non vengono versate brocche di urina ed escrementi.

Il caffè (in gran parte dell'Asia).
Persino i caffè, proprio così, quei posti la cui colonna sonora dovrebbe essere quella dei cucchiaini che tintinnano sui piattini e sulle tazzine, delle dita che sfogliano le pagine delle riviste patinate, del lieve chiacchiericcio dei clienti seduti su un divano. Niente da fare. A volte è jazz, e quello lo puoi anche sopportare, ma più spesso si tratta di banale pop locale e dei pistolotti di un dj che ha trascorso troppo tempo a modulare il tono della propria voce e troppo poco a pensare a qualcosa di interessante di cui parlare.

L'autobus notturno (in Laos).
Il sole è tramontato da un pezzo. La sosta per la cena è già alle spalle. Sei quasi arrivato alla fine di un capitolo chiave del libro che ti inchioda a quel sedile da un bel po' di ore. L'autista spegne le luci principali. Tu armeggi con il comando della lampadina sopra il sedile ma, come succede sempre, è stato disattivato. In pochi secondi il getto dell'aria condizionata sistemato proprio lì a fianco ti ha congelato il polso in una posizione da Kung Fu. Non fa niente, leggerai domani, almeno si sono create le condizioni per godersi qualche ora di insperato sonno. Hai detto sonno? Ma come hai fatto a crederci seriamente, anche solo per alcuni istanti? Sei davvero un boccalone. Quel maledetto bastardo, invidioso dei passeggeri che potrebbero appisolarsi mentre lui deve guidare per tutta la notte, preme un bottone, gira una rotella e fa partire a tutto volume una sequenza di orridi brani da balera. Per un momento arrivi ad augurargli di trascorrere gli ultimi anni di vita sordo come un artigliere napoleonico. Poi tutti i tuoi vicini cominciano a cantare e all'improvviso orizzonti socio-antropologici finora sconosciuti si aprono davanti a te. Ti arrendi all'evidenza: il silenzio non è una necessità assoluta, un bisogno comune a tutti gli esseri umani. E mentre quel pensiero si assesta nella tua mente tu sprofondi con consistenza di invertebrato nel sedile in finta pelle.

Il rifugio (ovunque).
Fortunatamente c'è una soluzione a tutto questo casino. Si chiama farmacia. Ovviamente nemmeno quello è un luogo silenzioso, ma rovistando tra i suoi scaffali dovreste riuscire a trovarvi un buon paio di tappi per le orecchie. Da non dimenticare mai di mettere nello zainetto. Assieme al maglioncino, ovviamente.

Foto di Jenny Leigh (CC)

2 commenti:

dario ha detto...

Caspita! Anche in Messico la situazione non è molto diversa da quella che descrivi.

Qui i messicani non si fanno nessun problema ad ascoltare musica a tutto volume mentre si lavano la macchina o si rilassano in salotto.

Ieri notte qualcuno a chiamato una banda di mariaci per fare una serenata a sua madre. La serenata a base di tamburi, trombe e cori ha avuto inizio alle. 00.15.

Capisco ascoltare musica, ma perché musica a tutto volume? Dove sta la goduria?

Pensavo che gli asiatici amassero i suoni più dolci come il canto degli uccellini, più consono a popoli spirituali... mi sbagliavo.

Complimenti per il tuo Zen!

Fabio ha detto...

Grazie!
Piu' che suoni di uccellini queste sono urla da pterodattilo.
Comunque tra gli avventori dei karaoke rudimentali e i mariachi non c'e' confronto, dai!
Sto leggendo The crossing (oltre il confine) di Cormac McCarthy...ogni volta che ho tra le mani un suo libro mi viene voglia di andare in Messico.