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giovedì 31 gennaio 2013

Dopo vari birboni, ecco un paio di signori - Mandalay, Birmania

Il treno per Hsipaw
Basandoci sui miei ricordi di dieci anni fa abbiamo deciso di viaggiare in treno da Mandalay a Thibaw (Hsipaw). Il tragitto è scomodissimo, lento e movimentato, su un convoglio di antichi vagoni dotati di panchine in legno che scorrono rimbalzando su binari a scartamento ridotto. Abbiamo già prenotato due moto-taxi che per una cifra irrisoria ci porteranno alla stazione alle tre e mezzo di notte. Mentre cerco delle guest house in internet mi imbatto in una pagina di informazioni sul viaggio. E mi rendo conto di aver sbagliato tutto. Quel che in realtà vogliamo fare è raggiungere su strada Maymyo (Pin oo Lwin), una tappa intermedia, visitare la cittadina e cominciare il viaggio in treno da lì. Il tratto che ci interessa, quello che comprende il viadotto Gokteik, si trova oltre quella località e così facendo ci risparmiamo varie ore di montagne russe. 

lunedì 16 luglio 2012

Il lungomare abbandonato - Pattaya, Thailandia

Sarebbe anche bello il lungomare di Pattaya. Il suo marciapiedi largo dove poter camminare, correre o sedersi a osservare la baia, le sue file di palme, la colorata baraonda multietnica alle spalle. Persino la scarsa profondità della spiaggia, lunga soltanto pochi metri, da questo punto di vista diventa un elemento azzeccato nella composizione della foto: chi guarda il mare si gode l'ingannevole impressione di un piano orizzontale mono-fase che, seppur venato e striato da increspature e sfumature, nel quadro dei macroelementi (acqua, cielo, promontori, colline) appare comunque omogeneo, con tinte che a seconda dell'ora e delle condizioni meteorologiche vanno dal nevischio sporco alla corazza di rinoceronte, passando per le varie tonalità standard di vetro di fiasca e cielo estivo alpino.
Sarebbe anche bello, appunto. Invece è una delle zone più decadenti (se non degradate) di Pattaya, che dal canto suo è una delle città più decadenti del sud-est asiatico. Chissà perché le autorità hanno deciso di allentare a tal punto la presa, di sbattersene quasi completamente, quando esistono già altre zone a luci rosse, dedicate a vizi di vario tipo, e quest'area potrebbe essere l'habitat naturale della fetta più innocente del turismo in città.

venerdì 4 aprile 2008

Un velo di coloniale e d'antico. Penang - Malesia, 4 aprile 2008

All’improvviso mi rendo conto che da lungo tempo la mia mente stava svolazzando, quasi in un sogno. Di una cosa sono sicuro però, non stavo dormendo. E come potrei? Con questo continuo ronzio nelle orecchie.

La ragazza cinese che siede davanti a me da due ore almeno non smette di parlare al telefono. E non intendo dire: non smette di telefonare; quello che voglio dire è proprio: non smette di parlare al telefono.

Non so chi ci sia all’altro capo della linea ma posso affermare con certezza che si tratta di un interlocutore passivo, estremamente passivo.

Forse è muto e le scriverà in seguito le risposte via email.

Oppure la ragazza sta lasciando un messaggio in segreteria, sperando per lei e per chi deve ascoltarlo che all’altro apparecchio ci sia uno schiavo, pronto a cambiare la cassetta al momento giusto, o meglio ancora che utilizzino un capiente hard disk per le registrazioni.

O sarà invece un depresso suicida che minaccia di saltare giù dal davanzale non appena la nostra amica smette di parlare?

Allora no, non ti fermare! Vai, parla, parla! Della tua infanzia, di quello che scorre fuori del finestrino, dei passeggeri dell’autobus, di quel che hai mangiato a pranzo.

E su quest’ultimo argomento di cose da dire ne deve avere parecchie.

Quando l’autobus si ferma per una pausa alla stazione di servizio, la osservo mentre passeggia. Indossa dei jeans a zampa d’elefante: non per via della scampanatura, ma per la dimensione di quei quarti, da pachiderma africano appunto, o forse addirittura da mammuth.

Ha le cosce talmente grosse che quasi non se ne nota il movimento durante la falcata. È come se sotto ai suoi piedi ci fosse un congegno atto a creare un potente campo magnetico, che le permette di scorrere senza attrito, come su un cuscinetto d’aria. Cammina un po’ come quei Barbapapà, i personaggi dei fumetti francesi degli anni ‘70. Pure il suo corpo ne ricorda un po’ la forma. Sembra un ellissoide, o un uovo, che scorre senza ruotare, con l’asse maggiore in verticale. O forse, visto il colore della “magliettina” - che un'altra ragazza potrebbe indossare come un camice - si può dire che assomiglia ad un’oliva. Un’oliva gigante.

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Certo che la Malesia vista in campagna sembra proprio un’immensa piantagione di palme da olio.

Pigliate un autobus che vada da qualsiasi centro urbano ad un altro e provate il seguente giochino. Chiudete gli occhi e assopitevi per qualche minuto, la comodità di queste poltrone da ufficio dovrebbe agevolarvi il compito. Oppure fissate il libro davanti a voi, o fate qualsiasi altra cosa, purché non guardiate fuori dal finestrino.

Poi, dopo alcuni minuti voltatevi e osservate il paesaggio.

Ripetete il trucco una decina di volte. Sette o otto volte vi troverete davanti i filari di queste piante. È facile imparare a riconoscerle, un po’ per la frequenza con cui le si trova e un po’ perché in effetti sono inconfondibili. Possono essere a tronco esile e lungo, o basso e tozzo. Ma il “ciuffo” è sempre simile, a “testa di capelli cotonati”. Una specie di calotta formata da una serie di lunghi rami arcuati, che partono verso ogni direzione dal centro del nodo. Alcuni a centottanta gradi verso l’alto, poi altri ad angoli via via minori, fino a quelli inferiori che spiovono verso il basso.

Da ognuna di queste “sciabole” si dipana di traverso, in due versi opposti, una serie di foglie non molto grandi, di un verde piuttosto scuro.

L’olio, esportato in tutto il mondo, si ottiene da semi incastonati in grandi “pigne”, che sbocciano dal centro del bulbo.

Da quando il lattice naturale non è più l’elemento principale per l’ottenimento della gomma, queste palme hanno sostituito come coltivazione nazionale le piante di caucciù. Qua e là spuntano ancora alcune chiazze coltivate con questi alberi, simili a betulle, alla base dei quali sono spesso inchiodati dei gusci di cocco, in cui viene fatta colare la resina che esce dalla corteccia.

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Il centro di Georgetown, nel cuore di Penang, non me lo ricordavo così grande. La stessa area ospita una rumorosa Little India e un’operosa Chinatown. Minareti alti e decorati, statue dalle tinte sgargianti e vagamente psichedeliche aggrappate alle colonne e ai tetti dei templi hindu, pagode cinesi avvolte in bianche nuvole di incenso e case delle corporazioni con massicci portoni in legno e facciate dai tenui toni pastello. E poi ristoranti, alloggi, botteghe di artigiani e magazzini di commercianti. Il tutto avvolto da un pallido ma onnipresente velo di coloniale e d'antico.

Ho fatto appena in tempo a mettere giù i bagagli che sono già in strada a passeggiare, ad annusare, ad assaggiare e ad osservare per cercare, a volte inutilmente, di afferrare e conservare, se non proprio di ricordare.

Oltrepasso una moschea davanti alla quale un gruppo di signori con vestaglie ampie e copricapi ricamati stanno seduti a chiacchierare su un semicerchio di sedie disposte attorno all’entrata. Vengo attratto dalle note della musica proveniente dall’interno di una food court, uno spiazzo delimitato che ospita numerosi ristoranti, in prevalenza cinesi, varie tavolate e un complesso musicale al centro. Rallento il passo. Come un ragno che si avventa su una mosca caduta sulla tela, mi viene incontro un signore piccolino con la pelle scura e dei baffetti neri e sottili.

“Solo un’occhiata...solo un’occhiata...Indonesia...”

“Come?”

Fa un cenno in direzione dell’orchestra e riprende il ritornello.

“Entra...un’occhiata...non piace...andare via...”

Il suo inglese non è buono, ma si vede che il numero è stato provato e riprovato.

“Eh, magari più tardi.”

“No...adesso...dai!”

Ha un sorriso delizioso, che mi attrae come se fossi un cobra davanti al piffero in cui soffia il suo incantatore. Lo seguo all’interno.

Riconosco la canzone, quante volte l’ho ascoltata a Kunming.

“Ma è cinese!”

“No! Indonesia...Indonesia...” insiste lui.

In effetti il cantante, che assomiglia alla mia “guida”, potrebbe essere indonesiano.

“Sì, ma sta cantando in cinese...”

“Indonesia...anche Cina, Malesia...lingua inglese...”

Ma di che sta parlando? Ci saranno altri complessi?

Poi mi accorgo di un disallineamento tra i nostri sguardi. Mentre il mio fino ad ora stava fisso sul cantante, il suo copre ad intervalli regolari lo spazio che separa me e un gruppo di spettatori, seduto attorno a tre tavolini in metallo. Si tratta anzi di spettatrici. La mia confusione dura soltanto altri due secondi. Poi faccio le somme tra i vari fattori. Indonesia, Cina, lingua inglese, occhiata, se non piace vai via: è un magnaccia!
“Ahhh, no grazie. Non mi serve. Arrivederci...”


giovedì 14 febbraio 2008

L'ora migliore. Phuket - Thailandia, 14 febbraio 2008

Le 5. Finalmente le 5. L’inizio dell’ora migliore a Patong, la spiaggia maggiore dell’isola di Phuket. Soprattutto ora, in alta stagione, quando gli alberghi sono pieni e i prezzi triplicati.

In spiaggia ci vengo raramente durante il giorno. Un po’ per il caldo soffocante, un po’ perché dell’abbronzatura non me ne importa niente. Ma è soprattutto per l’affollamento che la giornata in spiaggia non fa per me. Me la sento quasi addosso la pressione di quei chili pelosi di pance sudate, la puzza delle creme solari e quegli sguardi luridi.

Alle 5 è come se un fremito scorresse sulla pelle sabbiosa di Patong. I grassoni se ne vanno con le loro mistress. Le famigliole rientrano in hotel per la doccia. I gruppetti di schizzinose turiste giapponesi e cinesi sono stregate dal richiamo dello shopping.
La maggior parte dei bagnanti, dopo aver sofferto il caldo, i venditori ambulanti, le grida dei bambini e gli sbuffi di sabbia, se ne va. Proprio ora. Alle 5, giusto quando si sta alzando il sipario su uno dei tramonti più pittoreschi del mar delle Andamane.

Decine di ragazzotti thailandesi, dalla pelle scura e le membra tatuate, cominciano a chiudere gli ombrelloni e a impilare i lettini. Altri guidano delle motorette o delle jeep con le quali rimuovono le moto d’acqua, le banana boat e i paracaduti del parasailing. C’è chi fa l’ultimo bagno, chi ormeggia il motoscafo e chi si fa la corsetta serale sulla battigia.

Una ventina di ragazzi sistemano due porte e cominciano a tirare calci a una palla e a tanti stinchi.
Un altro gruppo, decisamente diverso dal primo, organizza una partita di pallavolo. Corpi snelli, muscoli plastici, in testa sculture laccate in perfetto stile Shibuya. Fanno parte del lato omosessuale del mondo della prostituzione thailandese. Sono i colleghi gay delle ragazze che lavorano nei bar di Bangla road e dintorni. Alcuni di loro sono venuti in spiaggia coi clienti della notte precedente.

Non hanno nessuna intenzione di mascherare la loro omosessualità. Atteggiamenti, movenze e sguardi sono degni di quel che da noi sarebbe considerato il più ridicolo degli stereotipi. Sembrano dei personaggi da parodia televisiva. Camminano sculettando, con un tanga carnevalesco e la manina che pende moscia dal polso piegato e tenuto alto. Ti schioccano un bacio mentre passi lì a fianco. E’ evidente che vogliono provocare la tua risata. E quando la ottengono ci si uniscono allegramente e ti chiedono se vuoi far parte di una delle due squadre.
Hanno “adottato” un bimbo svedese. Gli insegnano le tecniche del bagher e del palleggio. Le schiacciate no, è ancora troppo piccolo. Giocano bene e con eleganza. Sono bravi, allegri e simpatici, niente da dire.

Che strano. Da noi gli omosessuali scelgono spesso di mantenere un profilo basso, mentre alle coppie etero è permesso persino di limonare nel piazzale della cattedrale.
Qui invece l’omosessualità ostentata non sorprende nessuno. Niente di più normale che trovare un travestito in camice bianco alla cassa di una farmacia. Ma le coppiette di ragazzi e ragazze thailandesi non si fanno mai sorprendere a baciarsi o a stringersi la mano. Spesso in pubblico non si toccano affatto. “Sta male”, ti spiegano con pazienza.
Ad ognuno i propri tabù.

Sono le 5:10. Sembra tornata la bassa stagione. Cara, dolce bassa stagione. Finalmente ho a mia disposizione una spiaggia larga più di cinque metri. Mi siedo, apro il libro e mi lascio andare. Qualche minuto più tardi finisco un capitolo, punto il segnalibro e alzo gli occhi. Just in time. Il sole fa splash sulla schiuma lattea delle nuvole che imbottiscono le colline della baia. Lunghe fiamme tagliano il cielo di traverso, giocando in parallelo con l’orizzonte sfumato. Con la ritirata dell’orda d’alta stagione sono riapparse nella foto le palme e le altre piante dalle foglie lunghe, arcuate e fluorescenti. Da sotto i lettini e i teli mare è rispuntata la sabbia bianca. Una nuvola di polvere d’oro ci avvolge gradualmente: è tornata l’atmosfera. Quella per cui venire fino a qui ha ancora un senso, anche se con un breve tragitto in moto si può arrivare a Jesolo o a Riccione.

La magia è interrotta da un tonfo e alcune grida. Alcuni metri più in là un thailandese alla guida di un rudimentale sidecar, un motorino collegato ad un carretto con cui trasporta alcune taniche, ha investito due ragazze occidentali che camminavano coi piedi nell’acqua. Le ragazze si alzano. Sono scioccate ma stanno bene, hanno riportato soltanto qualche graffio e un paio di botte. Il thai capisce di averla fatta grossa. Forse si era distratto, o forse si era lanciato in una manovra azzardata. Si avvicina alle ragazze, si scusa, si assicura che stiano bene, mentre altra gente offre salviette e asciugamani imbevuti d’acqua. Sono pericolose queste moto. Spesso i guidatori sono soltanto dei bambini e si esibiscono incoscientemente in pericolose evoluzioni.

Poi succede qualcosa di tipico. Il colpevole è punito alla “thailandese”. Niente polizia, niente vigili. Né vecchi saggi che ammoniscono o consigliano. E’ un metodo più sbrigativo e rudimentale. A suo modo semplice. Questo è un paese in cui la boxe, non il calcio o il basket, è lo sport nazionale. Un giovane dai capelli lunghi si avvicina. Forse è un amico delle ragazze, magari lavora nello stabilimento balneare in cui affittano l’ombrellone. O più semplicemente è un estraneo che sente di dover risolvere un problema di “faccia”, ovvero di orgoglio, di dignità nazionale e personale, qualcosa che da queste parti occupa una posizione molto elevata nella scala dei valori.


E’ nervoso, si scalda, si agita, non riesce più a trattenersi. Si lancia sul conducente della moto e gli assesta tre colpi sul muso. Pochi secondi dopo sono avvinghiati nel carretto del sidecar. Qualcuno li separa, quindi il pirata della spiaggia, a sua volta preoccupato di salvare la sua “faccia”, comincia a urlare insulti. Il giustiziere riparte, prima a mani nude e poi all’arma bianca, con una bottiglia di birra in mano. Un amico lo afferra e lo trascina lontano.

Arriva qualcun altro, un uomo alto e grasso che apparentemente gode di una certa autorità. I litiganti si calmano, gli amici si scusano e si spiegano. Si fa largo un’atmosfera di prostrazione, e sul gruppo cala una coltre di timore reverenziale, fitta di sguardi che si abbassano e spallucce che si stringono. Tutto finito, tutti soddisfatti: nessun vincitore, nessun vinto. Ogni “faccia” ben salda al proprio posto. Alla Thailandese, appunto.

Sulla via del ritorno il fato piazza l’ultima appendice in coda ad una serata da riportare nel diario. Svolto l’angolo e imbocco la stradina del mio alberghetto. A fianco a me un pick up compie la stessa manovra. Sul cassone sta in piedi un elefantino. Non è molto grande. E’ della specie asiatica, non un pachiderma africano, ma qualche centinaio di chili lo scarica di sicuro sulle sospensioni del Toyota.


Da queste parti l’incontro con un elefante non è un evento straordinario. C’è un campo di addestramento in una collina a pochi chilometri da qui e spesso un cucciolotto viene portato in città, per la gioia dei turisti che pagano qualche baht per potergli infilare in bocca dei pezzetti di canna da zucchero. A questo qui però il piano non devono averlo spiegato bene. Tutta questa gente, le luci colorate e le note della musica dal vivo lo spaventano, o magari lo incuriosiscono. Fatto sta che proprio quando il mezzo mi passa a fianco si convince che lo spazio del cassone è troppo angusto e decide di avviarsi per una capatina nei dintorni. Piazza le zampe anteriori sul tetto della cabina, che cede con rumore di lamiera divelta e si abbassa di una ventina di centimetri. Gli occupanti se ne accorgono e il passeggero esce dall’auto.

L’elefante cala sul tetto anche una delle zampe posteriori, i finestrini esplodono e il parabrezza si crepa uscendo dalla sede. L’animale scivola con mezzo corpo verso l’esterno ma una zampa, o un’unghia, si e’ impigliata tra una coppia di tubi in metallo. Atterra con una capriola e, quando la proboscide svolazza frustando un paio di vasi di fiori e tutta la schiena e’ ormai a terra, anche l’ultima zampa si divincola. E’ libero e comincia a correre lungo la viuzza. Alcuni turisti, che si erano fermati a scattare foto e girare video della scena, si spaventano e scappano all’interno di un ristorante. Devono avere davanti ai loro occhi le immagini di uno di quei documentari in cui un branco di elefanti africani in preda al panico corre all’impazzata, travolgendo tutto ciò che si trova sul percorso della sua fuga.

L’elefantino invece mi trotterella davanti e sembra abbastanza tranquillo, tanto che uno degli uomini del pick up riesce a raggiungerlo e lo controlla afferrandolo per un orecchio. Ora ridono tutti, tranne il pilota del Toyota, che controlla i danni e scuote la testa.

Mi avvio verso la stanza e la doccia. Le 6 sono
ormai passate da un pezzo . L’ora migliore, a Patong, è terminata davvero.