martedì 28 settembre 2010

Ciò che fa la differenza - Angkor, Cambogia

Angkor Roads, di Un rosarino en Vietnam
60 dollari per un pass di una settimana. Una mazzata, beh almeno per uno che vorrebbe stirare la coperta del suo budget - modesto - su un letto di viaggi lungo due o tre anni. D'altronde non mi andava di visitare Angkor come fa la maggior parte dei turisti che ho incontrato. Uno, due o tre giorni e via. Sveglia all'alba, di corsa da una collina a un tempio, ansimando da una baracca a un monumento, ritorno a ora di cena con i ricordi confusi: dov'erano le radici degli alberi secolari che avviluppavano le mura e le statue? E i bassorilievi? Ma il tempio delle teste a quattro facce come si chiamava: Wat...Wat...Wat qualcosa...
Ecco, io l'esperienza del "Wat qualcosa" la lascio a qualcun altro. Il pass di una settimana mi permette di prendermela comoda - che tra l'altro è uno dei miei hobby preferiti. Di vedere i templi all'alba oggi e al tramonto domani. Concentrarmi soltanto su Angkor Wat un giorno, sul Bayon e il Ta Phrom un altro, sui circuiti dei templi minori in seguito. Tranquillo, rilassato o come dicono qui ...easy. Passando la mattina o il pomeriggio in guest house a leggere, studiare e programmare la prossima visita. O nel centro coloniale di Siem Reap a fare foto, scribacchiare, sbirciare, spiluccare, curiosare, chiacchierare, perdermi, osservare, fantasticare - che guarda caso sono gli altri miei hobby preferiti.
A dire il vero metterò in atto questa tattica soltanto al terzo-quarto giorno. All'inizio il fascino di Angkor si impossesserà di me e, vittima di un'irrefrenabile ingordigia di esperienza e atmosfera, anch'io mi immergerò per ore nella polvere e il caldo che soffocano questo posto. Il primo giorno seguo il procedimento standard: noleggio un motorino con pilota che mi deposita ai templi e mi riprende quando ho terminato. Ho l'impressione di essere un bagaglio con braccia, gambe, cappello e macchina fotografica, carente di cervello e totalmente privo di carattere. Alla fine della giornata mi sento a disagio: ho fatto un'indigestione di nozioni, senza il condimento di esperienza. 
La sera incontro un backpacker giapponese, bardato in maniera classica: occhiali da sole e asciugamano bianco avvolto in testa. Lo chiamerò Akira, in onore di un lungometraggio di animazione che mi affascinò anni or sono. Akira visita i templi in bicicletta. La noleggia in città, percorre di buon mattino il tratto di strada che porta al sito e poi si aggira tra i templi pedalando.
"Ma che differenza fa?"
"Prova e poi mi dici!"
"Allora domattina vengo con te..."
La bicicletta ovviamente costa meno del motorino, buone notizie per i miei risparmi. Sono fuori forma e il mezzo non è certo di quelli che si usano al Tour de France, così sono costretto a procedere piuttosto lentamente. Akira però ha ragione, rispetto al motorino è tutta un'altra cosa. Non me lo sarei aspettato ma ciò che fa la differenza è il sonoro. È come se mi trovassi in un vecchio studio di registrazione e un tecnico avesse abbassato la leva che opera sulla frequenza del motore, alzando le altre. E così ascolto gli uccellini che cinguettano, i bambini che giocano, un signore che sega un pezzo di legno dietro casa, un cane che abbaia alle talpe. Angkor, in pieno stile orientale, è un sito archeologico attorno al quale la gente continua a vivere, con abitazioni, piccoli negozi, scuole. È un'atmosfera magica che senza l'aiuto dei suoni mi sarei completamente perso. Ci metto molto per raggiungere ogni tempio, ma il tragitto è tutt'altro che noioso. Ho il tempo per osservare la vegetazione, la fauna, la vita, i colori, le sfumature. A volte sprofondo in questa nuova Angkor, in questa sua atmosfera ipnotica, a tal punto da non fare in tempo a riemergere prima di raggiungere un tempio, e proseguo quindi per quello successivo. 
Ritorno a Siem Reap in serata. Mi guardo allo specchio: è come se avessi attraversato il Sahara a piedi. Sono imbrattato alla stregua di un ridicolo spazzacamino delle fiabe. Invece di fuliggine la coltre che ho addosso è fatta di polvere di sterrato cementata dal sudore. La maglietta, che normalmente metterei in lavatrice, è irrecuperabile: me la tolgo e la getto direttamente nell'immondizia. La doccia dura quasi mezzora e devo grattare energicamente per rimuovere la crosta che mi avvolge.
Da domani niente più spedizioni di un giorno intero. Mi godrò i templi due o tre ore per volta. Ma la bicicletta, quella trovata semplice e geniale che devo ad Akira, non me la toglie più nessuno.

Angkor, Cambogia, marzo 2002

martedì 21 settembre 2010

Una nuova stirpe di samurai - Mae Hong Son, Thailandia

Ponte giapponese, Pai, di Fabio
È il settembre del 2001. Sono crollate da poco le Torri Gemelle e da poco è crollata anche la mia prospettiva di una carriera solida, un posto fisso, le promozioni, lo stipendio assicurato, la pensione alla fine, gli annessi e i connessi. Crollata nel senso che l'ho abbattuta io, non che se ne sia venuta giù da sola o che qualcun altro mi abbia dato una mano a demolirla. 
Ma non divaghiamo. È il settembre del 2001, dicevamo. Sono sbarcato in Asia da poco, deciso a visitarne la fetta più grande possibile prima di terminare i risparmi. La strada che collega Chiang Mai e Pai è lo stesso tracciato tortuoso e sottile segnato tra i monti e le valli della provincia di Mae Hong Son dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Pai sta cominciando a svilupparsi: ci sono varie guest house, qualche agenzia che organizza trekking e noleggia biciclette, dei ristorantini e un paio di bar con dei cowboy siamesi che suonano country e folk dal vivo. Le ondate di turisti thai cominceranno a inondare il paesino fra qualche anno, per ora arrivano soltanto poche decine di giovanotti stranieri al giorno. E lo fanno a bordo di uno sgangheratissimo micro-autobus costruito su misura per nani bambini, sgargiante di vernice colorata e ruggine, rumoroso, rovente e pieno come un budello costipato. I minivan ad aria condizionata non percorrono ancora la tratta, men che meno i piccoli aerei che atterrano lì vicino oggigiorno. Se non hai un'auto o una moto l'autobus dei Playmobil è l'unica alternativa che ti resta. I passeggeri stranieri si mescolano con un numero sproporzionato di thai, che poi thai nel senso stretto del termine non sono visto che appartengono quasi tutti alle minoranze etniche che popolano la zona: Shan, Karen, Akha, Lisu, Lahu. Li dividono - o li uniscono - sacchi di riso, cibo, scatoloni di elettrodomestici e utensili, pollame, prodotti ittici e altri oggetti misteriosi. I sedili da un posto e un quarto ospitano di media tre o quattro passeggeri, che nel caso siano occidentali di dimensioni standard devono trovare il modo di gestire la scomoda presenza delle loro ginocchia. Altri stanno accovacciati su un panchinone incandescente che copre gli elementi meccanici del mezzo, a lato del conducente. I restanti si accalcano nel corridoio.
Cedo il posto a una signora oberata da una pesante cesta che porta in spalla come fosse la cartella di uno studente. Sorrisi e complimenti mi inondano. È popolarità a basso costo, un lusso che ti puoi permettere soltanto in situazioni del genere. Poco dopo il mezzo comincia a scoppiettare, rallenta, poi riprende, grugnisce ancora, tossisce, sussulta e a metà di un pendio piuttosto inclinato si spegne. L'autista ci dà dentro con l'accensione, il congegno di avviamento lo asseconda lanciando urla strazianti nel tentativo di svegliare il motore ma non c'è niente da fare, costui è sordo. Bisogna scendere e considerati i problemi di temperatura, spazio e olfatto nessuno degli stranieri la prende male. I locali, come spesso accade in Asia, subiscono gli eventi senza particolari cambi di espressione facciale. Dopo una mezzora però il sollievo della sosta lascia spazio a qualche sbuffo, che in pochi minuti si trasforma in irrequietezza dichiarata. Poi accade qualcosa. Passa un pick-up giapponese, l'unico turista thai presente (col senno di poi lo definirei una sorta di pioniere) lo ferma, chiede un passaggio e poi fa un cenno verso il resto della truppa. Una decina di stranieri trova posto a bordo del mezzo che pochi secondi dopo è già sparito dietro un tornante. Chi è rimasto a terra ha capito il trucco e si organizza per fermare la prossima auto. Io sono stordito da caldo e crampi e non ho ancora deciso se restare o accodarmi. Come al solito rimando e aspetto che qualcosa o qualcuno arrivi a darmi un suggerimento. L'oracolo si presenta sotto le sembianze di Makoto, un ragazzo giapponese tutto sorrisi, energia e idee chiare. Dieci secondi in sua compagnia funzionano meglio di un bottiglione di Redbull.
"Io resto, guarda come si stanno dando da fare per riparare il mezzo e portarci a Pai. Non li posso abbandonare così..."
Per un attimo non reagisco, poi la forza della frase e del proposito mi colpisce come un pugno di Mike Tyson. Penso che sarebbe bello mettersi a piangere di fronte a certe manifestazioni di umanità, ma non mi sembra la situazione più appropriata e opto quindi per un sorriso.
"Ma sì, resto anch'io! E poi che fretta c'è, mica mi stanno aspettando..."
Non ci mettono molto a riparare il guasto e nel giro di un paio d'ore siamo a Pai.
Di solito quando pensiamo agli stereotipi ci vengono subito in mente immagini negative. Italiani-furbacchioni, tedeschi-antipatici, francesi-snob, giapponesi-creduloni che fanno foto. Ecco, Makoto è l'esemplificazione di uno stereotipo del Giappone che a me invece fa impazzire. L'aderenza a un'idea, a un principio, non necessariamente politico o nazionalista ma come in questo caso di solidarietà umana, di buone maniere, di riconoscenza, di comprensione e compassione. La resistenza alla tentazione, il rifiuto della via semplice, il non campare scuse, nemmeno con se stessi. Forse è un retaggio della cultura samurai, o almeno a me piace vederla così. E il tutto condito da sorriso e positività. Ecco perché dopo i cinque secondi di sbigottimento la commozione ha provato a farmi venire gli occhi lucidi.
Il grande Makoto. Proseguiremo il viaggio assieme per qualche giorno. Sarà lui a organizzare una mini-festa per il mio compleanno in un ristorantino, coinvolgendo anche le cameriere che contribuiranno con un succulento e coreografico piatto di frutta in omaggio. E sarà lui a farmi ridere di nuovo quando tornando da una corsa al bagno di una stazione degli autobus, trafelato, ansimante, con la fronte imperlata di sudore e reggendosi la pancia mentre contorce la bocca in smorfie di sofferenza, per scusarsi del ritardo se ne uscirà con: "Sorry Fabio...it waaas an e-me-ru-gen-cyyy!"
Il Grande Makoto, stereotipo d'eccezione. Rappresentante per il sud est asiatico di una nuova stirpe di samurai.

Provincia di Mae Hong Son, Thailandia, settembre 2001

venerdì 17 settembre 2010

Turista cronista, Corriere della Sera - Viaggi

Little India, Kuala Lumpur, di Fabio
Questo post è diverso dai soliti, mi scuso subito per il cambio di stile e per il sordido intento auto-pubblicitario.
Ho partecipato a un'iniziativa del Corriere della Sera Viaggi dal titolo "Turista cronista", inviando un diario. Ci sono foto e brani tratti perlopiù da questo blog. È impaginato un po' male ma si legge lo stesso. Se vi va dateci un'occhiata e se vi piace cliccate sulle stelline in alto, sopra le foto, grazie. Lo trovate qui.

martedì 14 settembre 2010

Impantanato - Muang Ngoi, Laos

Bombe americane inesplose, di Fabio
Poggi un piede e controlli i muscoli per mantenere il corpo in equilibrio nel caso scivolassi. Ma hai fatto male i conti. Quella delle vie di Muang Ngoi è un'argilla particolare: dopo settimane di piogge monsoniche si trasforma in colla. Una miscela che qualche laboratorio chimico, se non l'hanno già fatto, dovrebbe analizzare. 
Il problema non si presenta al momento del contatto tra suola e terra, quando la poltiglia si avvinghia alla gomma della tua calzatura come il cemento quasi asciutto di un nuovo marciapiedi. L'equilibrio in quel momento è assicurato, il piede non scivola di un solo millimetro. La situazione cambia quando effettui il secondo passo e sposti il baricentro del corpo per avanzare. Avanza la testa, avanza il petto, il bacino li segue, pure la coscia e il ginocchio si muovono a rimorchio. Ma a livello della caviglia qualcosa va storto. Il primo piede è ancorato, incagliato, saldato, termofuso. Tu non ti rendi ancora conto della forza di quel legame e dai un piccolo strattone convinto di farcela, come ce l'hai fatta un po' ovunque fino ad ora, monsone o non monsone. L'unica cosa che sembra cedere è però la struttura della calzatura. È evidente che il corpo della scarpa ha più probabilità di separarsi dalla suola di quante questa ne abbia di scollarsi dalla strada. Temi il peggio. Sai che la mossa di violenza ti lascerà scalzo, quindi mantieni i nervi saldi mentre metti in atto una manovra di aggiramento, qualcosa che hai imparato tempo fa su una poltroncina da dentista: una serie di dolci movimenti circolari, nella speranza di allentare la presa prima di procedere con l'estrazione. 
La sensazione di cadere nel ridicolo te la sei già scrollata di dosso quando ti sei dato un'occhiata attorno. Di laotiani incagliati non ne vedi: o se ne stanno tutti a casa o hanno scoperto il metodo per pattinare sul mastice. Ma la strada è piena di stranieri nella tua stessa situazione. La scena ti fa pensare alla sala di un museo in cui una qualche Fata Turchina con degli abili tocchi di bacchetta ha portato in vita le statue, giocando loro però un brutto scherzo: uno dei piedi è rimasto pietrificato, saldato al piedistallo. E tutte si dimenano, impazzite per la gioia di poter finalmente muovere le membra dopo tanti secoli ma al contempo nel panico per quell'ultimo vincolo che le inchioda sul posto. 
Alla fine ce la fai, la suola si scolla, il piede si alza e finalmente muovi un passo. Ma sai che non andrai lontano, che prima o poi le cinghie del sandalo cederanno. La tua intuizione è confermata dal cimitero delle calzature che hai davanti: suole di altri sandali, ciabatte, scarpe da tennis e persino da trekking spuntano qua e là, piantate su tumuli fatti di un materiale che sembra gelato al cioccolato artigianale, ma con una consistenza e un potere adesivo mille volte più forti.
A Muang Ngoi c'ero già stato anni fa, durante la bella stagione: tutta un'altra storia. È un villaggio che si sviluppa attorno a poche strade sterrate, senza traffico, dove si arriva soltanto in barca da Nong Khiaw, un paesino poco lontano. Un piccolo paradiso, forse un po' rovinato dal turismo, che mantiene comunque la sua atmosfera. Ora è invivibile. Complesso aggirarsi tra le case costruite con le ogive delle bombe americane, impensabile andare a visitare le grotte e le colline nei dintorni. Domani ci si imbarca e si torna a Luang Prabang. 
Sfruttando dei sentieri erbosi e procedendo spesso a piedi scalzi arrivo a un tempietto: dei pulcini razzolano nel cortile e in un angolo c'è una campana-gong costruita con i resti di un ordigno. Incontro dei simpatici bolognesi che dopo un paio di chiacchiere mi convincono a restare un altro giorno. Ma sì, pensandoci bene in buona compagnia questo posto non è così male.
La mattina dopo mi sveglio e vado a cercarli per fare colazione. Hanno già fatto il check-out. Mi guardo attorno e vedo solo nuvole plumbee, foglie grondanti di pioggia e una distesa infinita di fango a presa rapida. Mi sforzo ma non riesco proprio a ricordare quale fosse il lato positivo che riuscivo a vederci ieri sera. 
La prossima barca parte domattina, mi toccherà restare qui un altro giorno, impantanato in tutti i sensi, in compagnia di un libro e una brocca di caffè, mentre i bolognesi che mi hanno convinto a restare se la spassano tra i comfort e l'atmosfera franco-coloniale di Luang Prabang.  
Qui invece di francese mi resta soltanto un detto vagamente beffardo: c'est la vie!

Muang Ngoi, Laos, agosto 2007

venerdì 10 settembre 2010

La linea di demarcazione - Bangkok, Thailandia

Traffico di Bangkok-Pahonyothin Rd. in una notte di pioggia, di Fabio
Sono in autobus, in piedi, con una mano stretta attorno a un palo. Sono l'unico straniero a bordo, come sempre su questa linea. Le prime volte provavo un vago senso di imbarazzo. Ero conscio degli sguardi dei thailandesi puntati su di me, potevo quasi sentire i loro pensieri: "Ma che ci fa quel farang su questo mezzo? Perché non prende un taxi, o guida, o abita in centro?" È vero che spesso questo è ciò che qui pensano degli stranieri, ma di sicuro una leggera brezza di paranoia soffiava sui miei pensieri facendomi sentire più sguardi addosso di quelli che effettivamente mi venivano dedicati: la maggior parte dei passeggeri continuava infatti a sonnecchiare dopo una lunga giornata di lavoro, o a leggere, chiacchierare, ascoltare musica. Ora comunque i miei sensori hanno sviluppato un filtro per questo genere di sensazioni e non ci faccio quasi più caso.
Il semaforo è rosso, siamo in coda, in terza corsia. La mia fermata sta poco dopo l'incrocio ma io mi conosco bene e so che ora comincerò a fantasticare, a farmi trasportare e distrarre da una catena di pensieri, numerosi, arrugginiti e ammaccati come i suoi anelli, dimenticandomi di scendere. Mi avvicino alla porta e premo il pulsante in anticipo. La bigliettaia mi osserva e così fa anche qualcun altro, e questa volta non me lo sto immaginando. Vuoi vedere che...ma no, non può essere...poi l'autista preme un tasto e la porta si apre. Un diabolico, inaspettato esempio del principio di causa-effetto: io ho premuto il pulsante e lui ha aperto la porta. Proprio così, apposta per me. Era quello che temevo, anche se la mia mente non ha fatto in tempo a sviluppare un'immagine precisa. Normalmente uno suona il campanello per prenotare la fermata successiva, non per farsi aprire le porte seduta stante. Tra l'altro c'è scritto dappertutto che gli autobus possono raccogliere e depositare i passeggeri soltanto alle apposite fermate. Questo è un incrocio, trafficato e pericoloso. Ma io ho premuto il pulsante e il conducente ha aperto quella maledetta porta. Aspetto un secondo, magari qualcuno scende e mi cancella dalla scena come un omino in un fumetto in lavorazione. Com'era prevedibile nessuno si muove. Ora che faccio? Io scendo. Meglio che restare a bordo, abbozzare un sorriso scemo per far capire che non miravo a tanto e fare quindi la figura del babbeo. Un saltello, op-là, attenzione ai motorini e sono già sul marciapiedi, camuffato con un discreto velo di proposito e determinazione. Come a dire: "è esattamente quel che volevo fare!" 
Ora i thailandesi staranno pensando: "Ma guarda questo farang, come si destreggia bene, ha imparato a muoversi con disinvoltura tra le varie sfumature dei costumi locali." Così o con parole loro lasciamoglielo pensare. Non possono nemmeno sospettare quale sia il laido retroscena.
Vedi però, chi l'avrebbe mai detto, la linea di demarcazione tra una figuraccia da sfigato e un figurone da figo a volte può essere molto sottile!

martedì 7 settembre 2010

Bagarini d'alta quota - Medan, Indonesia

Crossing the morning sky, di Docbudie (CC)
Sumatra l'abbiamo visitata, segniamo il tick sulla lista e passiamo alla prossima tappa: Giava. Torniamo a Medan alla ricerca di un volo. Alla prima agenzia un impiegato annoiato ci fa sapere che i voli per Giacarta - e per qualsiasi altra destinazione - sono tutti pieni, per vari giorni.
"Ma...proprio tutti?"
"Tutti!"
Questo non ha voglia di lavorare, pensiamo all'unisono mentre cerchiamo un'altra agenzia. Forse i lavoratori del settore turistico a Medan sono davvero pigri e annoiati, ma ciò non ha nulla a che fare con la disponibilità dei voli. È periodo di festa e gli indonesiani, soprattutto gli studenti, viaggiano, migrano, volano. Per tornare a casa, per andare in ferie, per visitare qualche amico, non si sa dove vadano, ma di sicuro hanno intasato il traffico aereo del paese.
Noi però apparteniamo a un'antica stirpe di tosti viaggiatori e non ci daremo per vinti così facilmente. Ci imbarchiamo in un taxi sgangherato e raggiungiamo l'aeroporto. L'area delle partenze nazionali è una bolgia di gente che si accampa ovunque, in attesa che si liberi un posto in qualche lista d'attesa. Facciamo un tentativo agli sportelli di qualche compagnia ma le loro risposte non ci sorprendono più: è tutto pieno. Una bagarina che ha fiutato la truffa ai danni di tre polli dal viso pallido ci si avvicina e ci offre tre carte di imbarco ad una cifra spropositata.

domenica 5 settembre 2010

La risposta

iber
Heart of Satan, di Stuck in Customs (CC)
A volte la nube plumbea dei dubbi riappare nel cielo della mente e comincia a far scrosciare una fitta pioggia di domande. Domande a cui hai già dato una risposta in passato, così tante volte, non solo con parole o pensieri ma anche con frustrazione, sofferenza e lievi stati di depressione.
Per un momento, tuttavia, sei in stallo e non riesci a ricordare quale fosse la risposta. Stabilità, lavori, salario fisso, professioni, piani pensionistici, copertura sanitaria. Perché rinunciare a tutto ciò? Per che cosa? Potresti rispondere a parole, ma sarebbe come l'esibizione di un merlo indiano, una filastrocca senza senso. La risposta non la puoi formulare, la devi sentire.
Poi vagabondi in città, in quei vicoli e angoli in cui l'irrequietezza incontra la notte, bevi una birra di troppo, osservi l'inverosimile che si dipana davanti a te. Ti svegli troppo presto o troppo tardi e non te ne devi preoccupare. Leggi un libro e potrebbe anche essere solo un paragrafo, un dialogo, una frase, un pensiero azzeccato. E tutto a un tratto ti ritorna in mente. Adesso lo sai perfettamente qual è la risposta.

giovedì 2 settembre 2010

Intrappolato - Malesia

Segnale in una corriera thai, di Fabio
Avevo captato il primo segnale quando gironzolavo nel terminal. Il sussulto di un muscolo, un'ondina, nulla più. L'avevo ignorato come si fa con la pulsazione improvvisa di una vena sulla tempia, un nervo del braccio che scatta di suo. O come uno di quei pensieri che si lasciano dietro una sensazione ma non un ricordo preciso. Probabilmente l'ho portato a galla dal fondo del Mar della Coscienza soltanto a posteriori, per associazione di idee, collegando gli eventi. Gli eventi, appunto, andiamo a seguire il loro sviluppo.
Un'ora dopo, quando già sono intrappolato tra i sedili di una corriera sottozero, quel primo movimento ha cominciato a riprodursi: onde e sussulti si susseguono come bolle nell'acqua in una pentola. Sfortunatamente però, la pentola è il mio ventre e l'acqua bollente è un lancinante attacco di diarrea. All'inizio cerchi di tenere la situazione sotto controllo, rilasciando con discrezione un filino di pressione, respirando a fondo, contraendo e distendendo a ciclo continuo. Ma hai voglia a controllare la situazione quando attraversi la Malesia per lungo. Nel giro di poco hai esaurito i gradi di libertà. 
Percorro il corridoio e mi avvicino al conducente, gli chiedo di fermarsi ma questo non mi sente. Ripeto, nulla, lo imploro ma lui sembra una sfinge baffuta appollaiata sul volante. Ha sentito benissimo ma se ne frega: vuole arrivare alla sua stazione di servizio di fiducia dove percepisce una commissione per ogni passeggero depositato.
Vorrei imitare il protagonista di una leggenda dei backpackers d'India. In una situazione simile questo viaggiatore mitologico ha richiesto la fermata, l'indiano ha sorriso e l'ha accontentato. Poi un secondo attacco e un'altra richiesta di sosta. Questa volta l'autista ha sbuffato ma si è comunque fermato. Alla terza supplica però non l'ha più ascoltato. Lo straniero mestamente si è sfilato la maglietta, l'ha stesa sul sedile e ci ha scaricato sopra tre buoni minuti di crampi, tra il caldo, le mosche e gli sguardi schifati dei vicini. Poi l'ha raccolta, come un fagotto da picnic, ha dato un'occhiata fuori e l'ha gettata dal finestrino.
Ma io non ho la stoffa dell'eroe leggendario e questa non è l'India, dove l'inverosimile accade. Mi tocca guadare le fitte, contando le contrazioni. Lo faccio all'entrata, di fianco al mio torturatore, che almeno il senso di colpa gli eroda l'arroganza. Quando arriviamo alla stazione mi faccio spazio a spallate, corro in bagno e poi starò bene. Dopo lo sbandamento iniziale i miei anticorpi si sono riorganizzati: memori dei mesi asiatici di duro allenamento si sono ricompattati in fretta per respingere l'assalto. 
Ma di sicuro per un po' me la sono vista brutta.

Malesia, settembre 2003

P.S. Come chi mi legge regolarmente avrà notato, per qualche insondabile ragione ultimamente mi tornano alla mente vari aneddoti con un argomento in comune. Involontariamente sto redigendo una sorta di Saga della sciolta. Gli altri episodi li potete trovare qui.