venerdì 26 settembre 2008

La cultura delle mance - Il Cairo, Egitto

In Egitto con una mancia si ottiene quasi tutto, e per qualsiasi cosa un egiziano se ne può aspettare una. Si dà la mancia non soltanto al cameriere che ci serve al ristorante o al portiere che ci porta la valigia nella hall. Nel formicaio del Cairo a caccia di una tip si lanciano anche gli addetti del museo che ci accompagnano ai servizi, i seccatori che posano col turbante per farsi scattare una foto, i ferrovieri che aiutano il viaggiatore a trovare il posto prenotato o gli inservienti che ci porgono la salvietta in bagno. Ovviamente nessuno ha chiesto loro alcunché: più che offrire, impongono un servizio che non si può poi non retribuire. Fortunatamente si accontentano di molto poco, una sterlina egizia basta spesso per comprarsi anche un loro sorriso e tanti complimenti. Alcuni casi però sono alquanto sorprendenti.

A Ghiza, i turisti che fotografano la piramide di Cheope sono tenuti a debita distanza da un cordone che circonda la struttura. A turno una delle guardie approccia e invita il visitatore ad avvicinarsi alla piramide scavalcando il cordone. Il poliziotto ovviamente si aspetta una mancia, ma altrettanto ovviamente quasi tutti rifiutano, perché il cordone sarà pur lì per qualche motivo, e poi non si capisce che differenza potranno fare pochi metri di distanza su una foto dal basso ad un monumento così grande.

In stazione, presso la biglietteria, un agente si avvicina per aiutarci a comprare il biglietto per Alessandria. Un totale di novantasei sterline egiziane. Tiriamo fuori un pezzo da cento, il poliziotto se ne appropria, lo porge all’addetto che gli consegna i biglietti e il resto. L’agente ci allunga i biglietti e le ricevute, ma quelle dannate banconote devono essere incredibilmente appiccicose e non vogliono saperne di staccarsi dai suoi polpastrelli.
“E quelli?” Indichiamo il magro malloppo.
Lui ci sorride e annuisce. Quattro sterline sono un po’ troppe se confrontate con le mance che vengono normalmente pagate per servizi analoghi.
“Che dice, facciamo a metà?”
Il poliziotto non ci pensa nemmeno, ci guarda di nuovo, ci regala un altro sorrisone di denti marci e continua ad annuire, ringraziando. Noi siamo rimasti ipnotizzati ad osservarlo e non ci siamo accorti che le banconote si sono volatilizzate. Gli rivolgiamo un sorriso obliquo, quello che potremmo fare ad un monello che ha fatto il furbo, e rassegnati ci avviamo.
Dopo aver fatto qualche passo qualcuno urla alle nostre spalle. Ci voltiamo, è lo stesso agente.
“Binario numero cinque!” Facciamo finta di credere che l’abbia fatto perché si è reso conto di aver intascato un po’ troppo.
Shokran!” gli rispondiamo. Grazie mille, furbacchione...

La sera facciamo un salto al più famoso bazar del Cairo, Khan El Khalili. Le guide avvertono che si tratta di un posto in cui i turisti vengono trattati come ricconi da spennare, ma a sorpresa, quando arriviamo, tra i vicoletti del mercato regna una calma sospetta: gli egiziani mangiano e bevono e i turisti si aggirano indisturbati tra un negozio e l’altro. C’era il trucco, ovviamente. Una mezz’ora più tardi, i venditori e gli imbonitori che hanno finito l’Iftar, il rito con cui al tramonto rompono il digiuno durante il Ramadan, sono attivissimi e maleducati. Sparano prezzi inaccettabili per paccottiglia dozzinale, cercano di intimidire le loro “prede” - specialmente le donne -, sbarrano loro la strada, le spingono, le afferrano per un braccio e le strattonano. È uno spettacolo davvero fastidioso. Khan El Khalili, com’era prevedibile, non è un gran bel posto, Il Cairo offre attrazioni molto migliori.

A causa dell’Iftar gran parte delle strade, dalle sei della sera in poi, per qualche ora, sono semi deserte. Svanisce come in un sogno il consueto frastuono, è possibile finalmente fare una passeggiata su un marciapiedi che non è intasato come San Siro ad un concerto di Vasco e si può attraversare una strada senza dover procedere con scatti da velocista tra un passaggio e l’altro di macchine lanciate come schegge. Al Cairo tutto ciò è una piacevole sorpresa.

Ma qualche ora più tardi, verso le nove o le dieci, quando si scende dall’hotel per mangiare un tardo boccone, appena fuori dall’uscio si viene calamitati da un vortice di gente e mezzi, rumore, luci, odori e caldo a cui ci si abitua (a stento) soltanto dopo qualche minuto di stupore da bocca aperta e occhi strabuzzati. Fino a notte fonda i negozi sono aperti e la gente si accalca davanti alle vetrine alla ricerca di scarpe, abbigliamento e dolciumi. Molteplici flussi umani si snodano sul marciapiedi scorrendo gli uni sugli altri, incrociandosi, attorcigliandosi, scontrandosi e tagliandosi la strada come bisce d’acqua, che fuggono all’infinito di diametro in diametro all’interno di una bacinella in un mercato vietnamita. Chi ha un po’ di fretta e mosso dall’impazienza ha già picchiato con frequenza la punta delle scarpe sui tacchi del passante che lo precede, decide di tagliare lateralmente e condividere le polverose corsie stradali con gli interminabili cordoni di veicoli ammaccati, leggermente più ordinati di quelli sui marciapiedi ma, manco a dirlo, molto più pericolosi. Agli incroci maggiori i flussi si intersecano e, come in un vecchio videogioco con schermo a maglie, attraversano a scatti con sequenza alternata: uomo-auto-donna-furgone-ragazzini a manina-motocicletta-vecchietto-madre con bimbo in braccio-taxi-autobus, e così via all’infinito. Alle due passate torniamo in albergo e l’attività di questo alveare non si è ancora calmata. Quando mezzora dopo ci stiamo per addormentare, attraverso le fessurine tra le ante delle finestre filtrano ancora, tra i vapori speziati degli spiedi di shawarma, gli acuti dei clacson, gli strilli degli ambulanti e il rombo baritonale delle voci e dei suoni di fondo.
Città energica Il Cairo, che, come dice il tassista che ci accompagna all’aeroporto, never sleeb, terminando con la classica storpiatura araba della P, come in byramids o nell’indignato it’s...un-accebtable. Sono fantasticamente arabi questi egiziani.

Un’ultima nota curiosa. Mentre tutto il mondo fa i calcoli utilizzando i simboli numerici noti col nome di arabi, in Egitto gli arabi locali espongono i prezzi utilizzando delle cifre diverse, che seguono lo stesso sistema ma sono di derivazione indiana. Eccole:


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È come se in un mondo come il nostro, dominato dalla scrittura con i caratteri romani, gli italiani, proprio loro, leggessero il Corriere della Sera in cirillico. In una realtà parallela, forse lì sì.



lunedì 22 settembre 2008

Lungo la sponda del Nilo - Il Cairo, Egitto

Sono davvero tanti i pezzi esposti al Museo Egizio del Cairo. Dopo aver trascorso quasi un’ora ad ammirare le sequenze buffe e misteriose dei geroglifici e la perfezione dei graniti e degli alabastri levigati, ci si rende conto che si è arrivati soltanto a metà del primo tratto, del primo lato, del primo piano, di questo massiccio e spazioso edificio. Per fortuna la sorpresa iniziale è passata e si può ora scorrere più velocemente tra la fila delle bare ordinate come soldati sull’attenti lungo le pareti e i grandi sarcofaghi sistemati ai loro piedi. E poi, dopo aver girato l’angolo, chinarsi a dare un’occhiata alle teche su cui stanno esposti monili, decorazioni e gioielli; zigzagare tra le statue, le urne, le stoffe, i sandali e un numero incredibile di altri oggetti la funzione dei quali non è sempre chiara.

La bellezza, la raffinatezza e l’ottimo stato di conservazione della gran parte dei reperti contrasta però bruscamente con la scarsa qualità della struttura che ospita il museo. Pavimenti grezzi e rovinati, pareti scalcinate, finestroni opachi catturano di tanto in tanto l’attenzione dell’occhio che vi si va a poggiare per qualche istante prima di tornare ad ammirare la splendida collezione delle antichità, senza però aver mancato di macchiare, anche se soltanto in maniera quasi impercettibile, alcune delle immagini che si andranno ad inserire nella sequenza del ricordo di questa notevole esposizione.

Pure la cura con cui vengono conservate alcune opere stupisce negativamente molti dei visitatori. Una buona parte dei pezzi non sono protetti in alcun modo, altri sono conservati in delle specie di credenze scrostate e sbilenche che poche donne in Italia oserebbero esporre nelle loro cucine. Il risultato è che troppi turisti toccano gli oggetti esposti, a volte distrattamente ma spesso anche volontariamente per seguire con un dito un profilo interessante; altri addirittura ci poggiano sopra una spalla quando è l’ora di riposare la schiena e le gambe. E chi gestisce il museo non ha certo molte ragioni per lamentarsi. Le guide turistiche sono infatti le prime a dare il cattivo esempio, cominciando spesso le spiegazioni su un sarcofago con un sonoro schiaffo sul lato dell’oggetto; o quelle su una statua con una strofinatina dei polpastrelli tra i solchetti delle iscrizioni o sulle curve dei bassorilievi.
I segnali che invitano il pubblico a non entrare in contatto con i pezzi esposti sono pochissimi, piccoli e spesso sistemati in punti non molto strategici, magari in un angolo vicino ad una rampa di scale o mezzo nascosti dal profilo di una teca.

Onestamente l’atmosfera creata con il design e le decorazioni nei musei europei è tutta un’altra cosa, così come quella che regna nel sofisticato e avanzatissimo museo di Shanghai, una combinazione molto interessante tra antichità e ritrovati hi-tech. Qui è proprio il balletto sincronizzato tra i profili classici delle porcellane o delle giade e le linee avanzate dell’architettura del complesso a stuzzicare i sensi dei visitatori, oppure gli accostamenti dei colori di oggetti esposti ed elementi delle sale, o ancora i giochi di luce sulle teche e sulle tinte degli schermi divisori.

Al museo del Cairo nella maggior parte degli spazi dedicati alle esposizioni mancano i controlli delle condizioni ambientali, come temperatura, luce e umidità. Ma non è certo perché - o meglio, non solo perché - le sale della tomba di Tutankamon e delle mummie sono le uniche ad essere dotate di aria condizionata che chi vi entra ci resta per un bel po’. È qui infatti che il museo offre il meglio di sé. La tomba di Tutankamon deve essere sembrata a chi l’ha scoperta un incrocio tra una miniera d’oro sudafricana e la sede centrale di Tiffany, nella via più in del cuore di Manhattan. I monili, i copricapi, le gemme e soprattutto i sarcofaghi sono un miscuglio di sfarzo e bellezza sopraffina che lascia chiunque col fiato sospeso. E pensare che quella di questo re è l’unica tomba trovata intatta durante gli scavi ufficiali, ignorata dalle varie spedizioni di saccheggiatori a causa probabilmente della sua “scarsa” rilevanza a confronto di quelle dei faraoni più importanti (Ramses II regnò per quasi sette decenni, mentre Tutankamon morì a diciannove anni, dopo solo dieci sul trono).

Col fiato sospeso ci resta pure chi, dopo aver pagato un biglietto supplementare, entra nella stanza delle mummie e si ritrova a tu per tu con il primo corpicino striminzito, uno scheletrino ricoperto di pelle scura, con i denti a castoro e i capelli di un giallo- arancio talmente fasullo da fare invidia persino ad un punk quattordicenne. Chi si aspettava di vedere una serie di sagome ricoperte di garze sfila sbalordito accanto alla fila delle salme di reali, sacerdoti e balie, facendo il giro della sala anche due o tre volte, fermandosi ad ammirare le forme delle spalle e dei gomiti, addolcite dal sottile strato gommoso della pelle annerita, o la perfezione di un’unghia che sembra fresca di manicure e il vuoto lasciato da due dita mancanti su un piede. Forse per il fatto che sono rattrappiti questi corpi a prima vista sembrano molto piccoli, si scopre poi che spesso la loro statura è di un metro e settanta o più e che il più alto raggiunge addirittura il metro e ottantatré.

Per una passeggiata serale gli addetti della reception dell’hotel consigliano il parco sul lungofiume del Nilo. Ad accogliere ed intrattenere i numerosi vascaroli che convergono al parchetto ci sono degli artisti francesi divisi in due gruppi. Un quartetto di jazzisti fa la staffetta con una compagnia di uomini e donne che pilotano con dei pali metallici le braccia di marionette giganti, che indossano come se fossero dei costumi-zaino.

Un’occhiata alla riva opposta ricorda vagamente - ed è la seconda volta oggi - Shanghai. Per la precisione la camminata del Bund, con la skyline di Pudong dalla parte opposta del fiume. La scena è dominata ovviamente dalle torri dei più importanti hotel di lusso, lo Sherathon, l’Intercontinental, l’Hilton, il Sofitel, ma da pochi edifici di rappresentanza delle grandi multinazionali. Dopo uno sguardo veloce se ne individuano soltanto due. La prima, la Mobil, non è certo una sorpresa, nella capitale di uno stato nordafricano, incastonato tra aree che flottano su bolle di petrolio o gas naturale. La seconda invece fa esclamare un “Ahhh” che può voler dire molte cose. L’insegna luminosa in cima all’edificio proietta un campo rosso su cui in sequenza si accendono le lettere H-A-I-E-R, che brillano per qualche secondo per poi spegnersi e ricominciare da capo.
La sigla non vi dice nulla? Forse non ancora, ma chissà fra qualche anno. Haier è il nome di una multinazionale cinese del settore degli elettrodomestici. L’Electrolux o la Whirlpool di casa loro. Fa parte di quell’avanguardia di marchi che sono riusciti ad emergere da quel magma caotico in cui sguazzano migliaia di imprese cinesi che producono manufatti per le multinazionali straniere o aggeggi di scarsa qualità per i mercatini rionali, e che sono riusciti a ritagliarsi uno spazio nel mercato che conta. O addirittura ad assorbire dei colossi stranieri, come ha fatto l’ex-sconosciuta Lenovo acquisendo la divisione Computers della IBM.

La Cina che avanza è anche questo lento ma costante terremoto delle tradizioni. Un’insegna con un nome che a molti non dice nulla, che lungo il corso del Nilo - e magari anche del Tamigi o del Hudson - si fa largo a spallate tra quelli dei colossi occidentali che da decenni suonano familiari a noi, ai nostri padri e perfino ai nostri nonni.


lunedì 15 settembre 2008

In mezzo al maremoto. Bangkok - Thailandia, 15 settembre 2008

È buio, da un pezzo ormai; me ne rendo conto soltanto adesso, perché laggiù in fondo delle lucine bianche hanno cominciato a brillare ad intermittenza. Vibrazioni metalliche scivolano su traiettorie a parabola, ricordando vagamente quel tipo di suoni piombati che rimbombano da lontano in un cantiere edile. Rombi di sbarre flesse e travi ondeggianti mi ruotano attorno come effetti sonori che scorrono da una cassa all’altra nel sistema Dolby di un multisala.

Ero in un sogno, ma dopo aver aperto gli occhi non sono ancora sicuro di essermi svegliato. Guardo in alto e vedo uno scorcio del cielo lombardo, la sua versione estiva, tersa e frizzante. Ma è come se lo vedessi attraverso un oblò. Sto seduto su uno di quei vecchi sedili in finta pelle color nocciolina, in un vagone riciclato delle Ferrovie dello Stato, i tempi di Trenitalia sono ancora lontani. Il cielo dovrei riuscire a vederlo girando la testa verso il finestrino, invece sta giusto sopra di me, incorniciato dal bordo frastagliato di un enorme squarcio sul tetto.

È il tardo pomeriggio di una domenica di inizio giugno, nel 1991; manca poco al tramonto e la nuvola che mi passa sopra, spruzzata come panna montata su un gelato gusto puffo, scorre su un mondo che non conosce ancora internet e cellulari, voli low-cost e globalizzazione. Le bande di ultrà invece esistono già, e hanno già iniziato a trascorrere le loro liete domeniche dedicandosi alla devastazione di treni in compagnia.

Stiamo tornando dalla trasferta di Cremonese-Padova, partita destinata ad essere decisiva per la promozione in Serie A, divenuta famosa invece per altri motivi. A giudicare da come si impegnano per demolire questo vagone si direbbe che qualcuno li paghi con tariffe orarie, con gli straordinari per il fine settimana, o meglio ancora per chilo di materiale, che divelgono dalla carrozzeria della vettura e gettano poi nei fossi, nei campi o nelle banchine delle stazioni che ci scorrono a lato. Mi ero addormentato alla partenza da Cremona, ma era come dormire su una strada coi lavori in corso, tra un martello pneumatico ed uno schiacciasassi.

La cosa più sorprendente è che all’interno del treno quasi tutti si sono messi all’opera. Sembra essere un impegno a cui non ci si può sottrarre, un istinto contagioso, come quello che spinge a unirsi ai soccorritori che scavano tra le macerie di un terremoto. In pochissimi, come me, si limitano sbalorditi ad osservare. È bastato l’esempio impunito di un gruppetto di professionisti, assieme alla sicurezza infusa dalla notizia che gli agenti della polizia sono stati sequestrati e rinchiusi nel vagone di testa, e il secchione magrolino che mi ansima davanti, con tanto di occhialetti, zazzera e brufoli, si sta spezzando la schiena e scorticando i polpastrelli per cercare di rimuovere la parete dello scompartimento. Si ferma, ha il fiatone, si guarda le mani solcate di viola, manda a quel paese la parete, strappa un poggiatesta imbottito e lo getta dal finestrino come se fosse una bomba ad orologeria, che a momenti rischiava di scoppiargli tra le dita.

Le stazioni lungo il percorso sono state avvertite, le porte di ingresso ai binari sono sbarrate e nelle città più grosse al di là delle vetrate si ammucchiano gli hooligans delle squadre locali. Si dimenano e ruggiscono come belve in un film muto. Sembrano un branco di cani randagi, prigionieri in una grande gabbia di plexiglas, mentre un carro attraversa il loro territorio esponendo un carico di bastardi accalappiati altrove. Il macchinista non si ferma mai e se qualche ferroviere a terra esce allo scoperto viene ricacciato nel proprio bunker con un bombardamento di sedili, bottiglie ed estintori. Il treno fa soltanto qualche sosta forzata quando qualche membro dell’operosa manovalanza decide di prendersi una pausa, tira il freno d’emergenza ed esce a sgranchirsi la schiena e le braccia, lanciando delle pietre contro qualche bersaglio.

Il freno viene azionato per l’ultima volta a Campo Marte, a poche centinaia di metri dalla stazione di Padova. L’istinto e l’esperienza ha suggerito a questi corsari che è meglio defilarsi lungo percorsi alternativi, aggirando in tal modo il grosso contingente di agenti della celere che attendono stanchi, impazienti e probabilmente incazzati l’arrivo del treno alla stazione centrale. Io resto a bordo e osservando la scena dal finestrino mi chiedo se non scappare sia stata una buona idea, fino a quando scorgo i bagliori blu delle gazzelle che battono la zona, sgommando come le Alfa Giulia nei film poliziotteschi degli anni ‘70.

Alla fine siamo in pochi ad arrivare in stazione e all’uscita dal treno passiamo in fila indiana tra due cordoni di celerini che ci fissano in cagnesco. Vorrei guardarli in faccia e dire che non c’entro nulla; in questi momenti però è meglio pressare le labbra, fissare con un interesse vagamente ebete la punta delle proprie scarpe e seguire con passo goffo il culo di quello che ci sta davanti.

Parecchi anni fa mi piaceva andare allo stadio. I rumori, i colori, la bolgia nel catino delle gradinate, il tutto mescolato con le emozioni dell’evento sportivo, mi mettevano addosso un’eccitazione particolare. Qualcosa che altrimenti ho provato soltanto a qualche concerto.

Arrivando a piedi la domenica pomeriggio, le strade in città erano deserte, l’atmosfera lenta di ozio e pennichelle, il silenzio vivo che colava dai balconi aperti, su cui qualcuno aveva esposto una bandiera, era rotto dall’eco dei boati dei cori, che ti arrivano da davanti, da dietro e dai fianchi, ma persino dall’alto, dal basso e da dentro. Il frastuono era invece attutito alle biglietterie nel sotto-gradinata, dove quasi sempre si aggirava qualcuno per sgraffignare trofei di sciarpe e bandiere. I cancelli erano sorvegliati da un solo bigliettaio, a cui soltanto qualche anno più tardi si aggiunse un poliziotto che sequestrava fibbie e accendini. Infine, dopo l’ultima rampa di scale, oltre la porta su quel mondo blu e smeraldo, disegnato qua e là con un gessetto da lavagna, l’immersione in un’atmosfera da arena romana, elettrizzata per i combattimenti tra gladiatori e belve. Visto da lì il pubblico era una massa unica, compatta e gelatinosa, che trasmetteva le vibrazioni di un impulso ricevuto in curva nord, lungo tutto il cuneo della tribuna dei distinti, mandandolo ad infrangersi sulla cancellata della sud.

E poi gli striscioni, le bandiere e le sciarpe, le maglie biancorosse e la fila di tamburi, su cui qualche bullo a torso nudo picchiava ritmi tribali di una semplicità ipnotica. Ad un tratto nella curva calava il silenzio, compatto e potente, di voci trattenute da centinaia di gole, che i suoni degli altri settori non riuscivano a scalfire. Un altoparlante giocattolo diffondeva una frase gracchiata. Le parole erano come le note di un un grammofono antico che arrivano soffuse da una stanza lontana. Il comando finale si impennava stonato e poi, precedute da una pausa di un’ottava, esplodevano come fucilate le sillabe di un coro poderoso, audace e idiota, gridato dalla curva intera come un urlo di battaglia.

A pochi minuti dall’inizio della partita lo speaker ufficiale leggeva le formazioni. Il pubblico intonava un “olè” per chiunque, campioni e scarponi, a patto che vestissero la maglia giusta. Tra lo sventolio delle bandiere e il rito della “sciarpata”, sul campo cadeva una pioggia di coriandoli, seguita spesso dalla nebbia dei fumogeni. Le squadre si disponevano lentamente in formazione ed il portiere che si avvicinava alla curva poteva ricevere una manna di ovazioni o, se era l’avversario, una grandinata di insulti. Dopo aver controllato le reti con tecniche da pescatore, arbitro e guardalinee si scambiavano cenni misteriosi. Il fischio d’inizio interrompeva l’apnea del pubblico e il suono smorzato dei primi calci sul pallone, assieme al vento che soffiava in cima alla gradinata, marcavano nei sensi il confine tra stadio e salotto, divenuto ormai soltanto un blando surrogato.

Un’emozione unica perché primordiale, istintiva, non coltivata, impossibile da provare negli altri segmenti della vita civilizzata. Io mi ci tuffavo dentro senza timore, perché sapevo che mi avrebbe portato ad un limite che non sarei mai stato in grado di valicare, ma che in nessun altro modo avrei mai avvicinato; un mare in cui sarei rimasto immerso fino ad un attimo prima che mi scoppiassero i polmoni, da cui sarei uscito paonazzo ed emozionato, come un cane a cui è sfuggito un gatto, che ansima esausto ma è felice lo stesso.

Purtroppo non tutti la pensavano come me. Li vedevo confabulare come un plotone di sabotatori, organizzarsi in formazioni e partire di scatto, seguendo in maniera sincronizzata sequenze che mi lasciavano di stucco, per scomparire poi giù per la scalinata, verso una missione avvolta nel mistero. Io li stavo ad osservare sbalordito e per un attimo credevo ancora di giocare al mio gioco. Ma era un inganno, lo scoprivo quasi subito, mi mettevo le mani in tasca e uscivo dallo stadio.

Fino ad un giorno in cui li seguii, armato di curiosità per soffocare la paura. Mi ritrovai in uno spiazzo adiacente la curva degli ospiti (ospiti!), l’orda selvaggia distribuita omogeneamente, dalla curva sud ad una collinetta nei paraggi. Portavano armi bianche e fazzoletti sul viso. Era in corso una battaglia ma non vedevo il nemico, i movimenti di ognuno tradivano rabbia frustrata, il nervosismo di colui a cui è stato teso un tranello. Poi ci fu un fremito e la massa si spostò in blocco, come biglie metalliche in un campo magnetico. Nel garbuglio di grida non capivo una parola, fino a quando un tizio vestito da pirata mi passò vicino, mi diede una pacca sulla spalla e con circospezione mi sussurrò: “gli sbirri, dai, carichiamo!”. Dopo aver percorso dieci metri ed essersi accorto di essere da solo, si voltò senza fermare la marcia e gli si dipinse sul viso un’espressione confusa. Io non ci feci caso, stavo pensando a tutt’altro: avevo appena scoperto chi era il loro nemico.

E allora, per ricollegarmi al tema di questo diario, credo che in vita mia mai mi sia sentito così alieno, così fuori posto come in quello spiazzo polveroso. Ed è curioso pensare che sia successo proprio lì, nel centro della città in cui sono nato. Non invece quand’ero in viaggio solitario, tra città e campagne nel sud dell’India, dove per giorni non incontrai uno straniero, né nei ristoranti dei paesini cinesi, dove non ti capiscono neanche se ordini a gesti. E nemmeno nel cortile del municipio di Phuket, adibito a unità di crisi per le vittime dello tsunami, dove centinaia di disperati cercavano i familiari, gli amici, la maniera di tornare a casa o anche un semplice rifugio.

Muovendomi emozionato tra i banchetti delle ambasciate, gli ospedali da campo, i centri informazione e i chioschi per la distribuzione di cibo e vestiario, mi trovavo sempre dalla stessa parte della barricata, eravamo tutti uniti per aiutare chi era stato colpito dal dramma.

Vent’anni fa, impalato e sbigottito, nel treno o in quello spiazzo a ridosso dello stadio, ero invece da solo.

In mezzo al maremoto.