lunedì 28 novembre 2005

Unità 731: Cina e Giappone ai ferri corti - Harbin, Cina

Harbin, una notte di treno da Pechino, si trova al centro di quella testa di cane che la Cina è riuscita ad infilare tra Siberia, Mongolia e Corea del Nord.

Alla fine del 19° secolo la Russia zarista ottenne il permesso per la costruzione di una ferrovia che collegasse Vladivostok con Dalian, via Harbin. Arrivò così in città la prima ondata di cittadini russi. Altri ne arrivarono nei primi decenni del ‘900 per sfuggire ai turbolenti eventi che infuriavano nella madrepatria. Non solo gli operai impegnati nella costruzione della ferrovia quindi, ma anche imprenditori, banchieri e ristoratori.

I russi che si incontrano oggi nelle vie del centro sono principalmente turisti o uomini d’affari di passaggio. Ma l’impronta lasciata da quell’esodo sull’architettura e gli usi in città è evidente.

La via principale è costeggiata dai begli edifici in stile che ospitavano le banche, gli alberghi e i ristoranti degli emigranti russi, molti dei quali erano ebrei. Alla fine del viale, a ovest dell’insolito monumento al controllo delle inondazioni, i cittadini possono passeggiare tra gli alberi e le statue del parco Stalin. Ad ogni angolo della città è poi sempre possibile rifocillarsi con numerose e succulente varietà di salsicce, anch’esse un’eredità dell’epoca russa.

Oltre ai palazzi e alle specialità culinarie anche le temperature qui ricordano quelle delle città siberiane. E per celebrare l’inverno la città si veste di ghiaccio. Durante il Festival delle Lanterne gli harbinesi festeggiano innalzando complesse costruzioni di ghiaccio sulla sponda del fiume, giocano a hockey o si esibiscono nelle forme del pattinaggio artistico. Ogni attività ha luogo all’aperto. Persino nella più celebre discoteca della città la pista da ballo è in realtà una pista da pattinaggio sul ghiaccio.

Ghiaccio, ghiaccio e ancora ghiaccio.

Quando se n’è avuto abbastanza, per sfuggire ai morsi del freddo ci si può rifugiare nel Cafe Russia 1914, un locale che compensa l’autenticità perduta con un ambiente caldo e accogliente e deliziose specialità russe.

Uscendo invece dal centro cittadino, per un cambio brutale di atmosfera, la visita alla base giapponese per gli esperimenti di guerra batteriologica (Unità 731) è un’opportunità da non lasciarsi sfuggire.

Dopo l’invasione giapponese della Manciuria, nel 1931 il Maggiore medico Shiro Ishii decise di spostare il laboratorio che dirigeva a Tokyo in una località tranquilla della provincia di Harbin. Ufficialmente l’intento era quello di prevenire disastri batteriologici nella capitale dell’impero, in pratica però era quello di disporre di cavie umane per gli esperimenti del centro.

Per più di dieci anni prigionieri nemici cinesi e stranieri vennero utilizzati in esperimenti effettuati con i germi della peste bubbonica, della tubercolosi, dell’antrace, del colera e molti altri, con cui venivano messi a contatto tramite iniezione, ingerimento o impianto su ferite. La vasta disponibilità di soggetti permise ai ricercatori di effettuare ulteriori test di resistenza al calore, alla disidratazione, all’impiccagione a testa in giù, all’elettroshock, all’amputazione e al congelamento.

Muovendosi tra le esibizioni fotografiche, le descrizioni del museo e i resti degli edifici (fatti saltare dai giapponesi prima della ritirata del ’45) la mente di un occidentale va inesorabilmente a frugare tra gli archivi della memoria dedicati ai campi di sterminio nazisti. Il crudele pragmatismo degli inceneritori per le salme e l’impietosa efficienza degli impianti per l’erogazione di energia o delle camere per l’allevamento delle cavie animali, ricordano le strutture dei campi di Dachau o Aushwitz.

La Base non è soltanto uno strumento per ricordare gli errori del passato ma si collega al tema attualissimo delle manifestazioni studentesche contro l’atteggiamento revisionista del governo giapponese. Nelle sale del museo le didascalie delle foto e le descrizioni contengono spesso delle frecciate velenose all’indirizzo del governo giapponese.

Nelle piazze di Pechino migliaia di cinesi si sono recentemente uniti per protestare – anche violentemente – contro la decisione del Ministero dell’Istruzione giapponese di emendare i capitoli dei libri scolastici dedicati agli orrori dell’occupazione del continente asiatico. Tra i bersagli delle dimostrazioni vi erano anche le frequenti visite ufficiali di membri del governo giapponese alle tombe di noti criminali di guerra.

Di cinesi che si esprimono senza alcuna remora dichiarando di non avere alcuna simpatia per il Giappone e per le sue istituzioni se ne incontrano ovunque. Ma cosa pensano a questo proposito i numerosi giapponesi che vivono, lavorano o studiano in Cina? Tatsuya, un trentenne incontrato a Shanghai, parla di una situazione molto imbarazzante. La comunità giapponese in città è formata da decine di migliaia di individui che nella maggior parte dei casi non gradiscono prese di posizione o azioni del governo di Tokyo che possano mettere a rischio la loro incolumità o anche soltanto il loro quieto vivere in Cina.

Al di là delle motivazioni ufficiali per le recenti manifestazioni, il sospetto è che il traballante presente delle relazioni tra i due paesi si poggi sulle sabbie mobili dei risentimenti cinesi e della voglia dei giapponesi di lavarsi la coscienza da un lato, e della rivalità per il predominio continentale dall’altro. Non molto tempo fa infatti Cina e Giappone si erano già dati battaglia per accaparrarsi i diritti a godere delle forniture di petrolio provenienti dalla Russia.

Il movimento studentesco del 2005 ha poco a che fare con quello di Tiananmen ’89. Il governo cinese formato dagli “ingegneri” del nuovo millennio sembra aver deciso di adottare una pratica che in Cina risale ai tempi di Mao e della rivoluzione culturale, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70: quella della manipolazione delle Università e dei movimenti studenteschi. I libretti con le citazioni di Mao esposti oggigiorno nelle librerie e nelle bancarelle che affollano i marciapiedi di ogni città del paese rimandano a un’epoca che gran parte dei cinesi vuole dimenticare. Tempi in cui quei libretti rossi venivano sventolati da giovani con le braccia fasciate da nastri dello stesso colore, anni segnati da repressione e violenza, profanazioni di templi ed espropri, pratiche crudeli di rieducazione e torture.

Al giorno d’oggi i due paesi per sopravvivere e prosperare hanno bisogno uno dell’altro. La speranza è che entrambi i popoli e i rispettivi governi abbiano imparato qualcosa dagli errori commessi da chi li ha preceduti.

mercoledì 23 novembre 2005

798: Pechino d'arte. Pechino - Cina, 23 novembre 2005

Il visitatore che fa affidamento sulle guide pubblicate dalle più importanti case editrici internazionali è indotto a credere che le migliori esposizioni d’arte di Pechino vengano organizzate presso la China Art Gallery, una moderna struttura nel pieno centro cittadino. La galleria però ospita attualmente soltanto una serie infinita – e un po’ noiosa – di esposizioni di calligrafia cinese contemporanea.

Per andare alla scoperta delle nuove correnti artistiche e delle migliori esibizioni di pittura, scultura e fotografia della capitale, seguiamo invece il consiglio di E., un poeta africano che vive a Pechino. Secondo lui il posto giusto è 798, dove si concentrano alcune tra le migliori gallerie del paese.

798 è un complesso di fabbriche e vecchi magazzini, scomodamente sistemato in un’area remota e piuttosto squallida della periferia pechinese. Gli edifici sono stati ristrutturati e convertiti in gallerie d’arte gestite sia da cinesi che da stranieri. Le sale sono degli spaziosi monovolumi in cui scalette in acciaio si arrampicano lungo le pareti verso soppalchi anch’essi in metallo. Locali che assomigliano a dei loft, in cui vengono esposti quadri, sculture, composizioni e gallerie fotografiche dei migliori artisti cinesi degli ultimi anni.

Vengono dalla Cina, ma anche dalle numerose Chinatowns sparse per il mondo. Espongono opere di ogni tipo.

Quadri di gusto discutibile come una rivisitazione in chiave lesbica della scena della crocifissione. Foto ad effetto come quella di una schiena tatuata con un’enorme mappa della Cina. O l’immagine di un corpo femminile su cui, per mezzo dei frammenti rossi della corazza di un crostaceo, l’artista ha riprodotto un finto squartamento.

Galleria Continua, una filiale della omonima galleria di San Gimignano, ospita una esibizione restrospettiva di Chen Zhen.

Alcune delle sue “installazioni” mettono in relazione l’uomo e i suoi oggetti con gli elementi della natura. Negli scaffali di una libreria sono stati inseriti dei quotidiani carbonizzati. Alcuni oggetti di modernariato sono stati invece immersi in vaschette piene d’aqua. Infine, una stanza con tutti i suoi mobili e suppellettili è stata interamente ricoperta di fango. E’ il circolo vizioso innescato dall’uomo che destabilizza l’equilibrio della natura con il suo irrefrenabile impulso al materialismo, subendone poi gli inevitabili effetti negativi.

La Long March Space esibisce la riproduzione in acciaio inox di un asteroide ritrovato lungo il percorso della lunga marcia comunista. L’artista Zhan Wang spiega ironicamente la sua intenzione di caricarlo in un razzo che lo porti nello spazio, a completamento del circolo “Spazio-lunga marcia-spazio”, nel quadro di un glorioso piano per una “Nuova Lunga marcia”.

Altre opere giocano invece con tradizioni e antiche credenze. Chen Zhen lo fa mettendole in relazione con alcuni tratti della cultura occidentale cercando di trovare un punto di incontro tra gli organi della nostra anatomia e l’idea del Qi alla base della medicina cinese. Guo Fengy ci mostra invece un corpo umano attraversato dai percorsi complicatissimi delle linee dell’energia, i principi fondamentali della medicina tradizionale e delle tecniche di massaggio.

Ci sono poi alcuni lavori a sfondo storico. Un mosaico di bellissime foto in bianco e nero della rivoluzione è racchiuso dalla sagoma del busto di Mao. Nella stessa sala alcune statuette rappresentano donne rivoluzionare con lo sguardo fiero e il fucile in mano, che si librano in eleganti figure di danza classica.

Si passa quindi ad una provocatoria galleria fotografica in cui vengono esposte le foto di via Qianmen. Una strada che prima della rivoluzione comunista era un’elegante area commerciale, dove i pechinesi potevano trovare i negozi più lussuosi o rilassarsi in eleganti cortili. Le foto mostrano invece le misere condizioni degli abitanti di oggi, che si trascinano o si sdraiano tra il degrado di quest’area dimenticata che, come spiega l’artista, “se ne sta come un’isola solitaria nel mare della città moderna”.

Per terminare la visita a 798 è possibile passeggiare tra le aule di una scuola d’arte in cui giovani studenti si esercitano utilizzando modelli cinesi o copie di opere dell’epoca classica occidentale. Li potete osservare mentre si impegnano sui loro esercizi, in freddi uffici di epoca maoista illuminati dalla luce ghiacciata del neon, con le pareti tappezzate dai loro lavori, in angoli impolverati dove si ammassano cavalletti, radioline, sgabelli, e qualche bottiglia di whisky. Scorci di un contrasto affascinante tra squallore e creatività.

E., il poeta africano, spiega che ogni tanto a 798 può capitare di imbattersi in qualche opera che critica il regime, sempre però in modo molto sottile.

Ma qual’è l’atteggiamento del cittadino ordinario nei confronti della politica? Nelle classi in cui insegna l’inglese E. prova spesso ad affrontare temi delicati come quello di Tiananmen ’89. Gli studenti ricordano bene quei drammatici momenti ma attribuiscono al movimento studentesco l’intenzione esplicita di rovesciare il governo. E. li corregge, spiega loro che quegli studenti disarmati volevano soltanto esprimere la loro insoddisfazione. Chiedevano più libertà, riforme che potessero dare vita ad una svolta democratica. Non si trattava di un colpo di stato.

I suoi interlocutori scrollano le spalle e si esaltano invece ricordando le manifestazioni di carattere nazionalista che altri studenti hanno inscenato quest’anno contro l’atteggiamento revisionista del governo giapponese, reo di voler cancellare dai libri scolastici le pagine infamanti sull’occupazione della Manciuria. E. scuote la testa. “Non c’è paragone, quelle manifestazioni non erano spontanee, come a Tiananmen, bensì pilotate dal governo stesso”.

Ma noi ci fermiamo qui. Le tensioni tra Cina e Giappone fanno parte di un’altra storia, per la quale vi rimandiamo alla prossima puntata.

giovedì 17 novembre 2005

Pechino notturna. Pechino - Cina, 17 novembre 2005

Pechino non è soltanto l’austera capitale da dove il governo pianifica e controlla il portentoso sviluppo del paese. Oltre ai simboli architettonici del potere politico e del suo passato glorioso, Pechino, come ogni altra grande città sviluppata, possiede anche un suo lato frivolo.

Lo si può scoprire durante il giorno, lungo l’area pedonale di Wangfujing Dajie o nei quartieri di Sanlitun e, poco più a sud, di Jianguomenwai.

Sono queste le aree in cui i pechinesi hanno imparato a viziarsi con gli sfizi, i gingilli e le marche di medio e alto livello arrivati dall’occidente e dal Giappone assieme al vento fresco del capitalismo.

Un edificio dal design molto moderno ospita un salone della Mercedes e gli showrooms di carissime firme di design e prodotti per l’arredamento. A pochi metri di distanza è possibile rilassarsi sui divanetti di Starbucks, davanti ad un Frappuccino Tall e ad un portatile in collegamento internet wi-fi. Un salto alla farmacia-supermercato della catena Watson’s, un gelato italiano, un po’ di window-shopping ai carissimi atelier di Gucci, Luis Vuitton e Armani, ed è finalmente arrivata l’ora di rifocillarsi presso Pizza Hut, KFC e McDonald’s o, per chi se lo può permettere, nei numerosi ristoranti europei di lusso.

Ma il modo migliore per spiare una città che si distrae è come sempre quello di perdersi tra i colori e suoni della sua vita notturna.

Cominciamo dai ristoranti e i bar sistemati lungo le sponde dei laghi Houhai e Qianhai, ad ovest della Torre del Tamburo. In questa zona i locali sono talmente numerosi da non riempirsi nemmeno durante il fine settimana. Dopo aver scartato le promoters dei bar più popolari attrezzate con strumenti di marketing non proprio innovativi – minigonne cortissime e top scollati –, e che in occasione della notte di Halloween (sì anche in Cina) indossano delle mascherine da carnevale veneziano, potete scegliere un ristorante in cui vi serviranno delle care e minuscole porzioni di specialità cinesi, vietnamite o thailandesi.

All’uscita del ristorante la scia di un olezzo insopportabile vi conduce ad un banchetto in cui potete "osare" con uno spuntino di "chou doufu", una varietà molto odorosa di tofu per cui i cinesi vanno pazzi. A pochi metri un bar con l’arredamento di un saloon offre una dozzina di bicchierini di assenzio per l’equivalente di dieci euro. Dopo averne mandati giù quattro a testa è chiaro a tutti che si tratta semplicemente di un blando liquore all’anice, qualcosa che nessuno avrebbe mai pensato di mettere fuori legge per tanto tempo in Europa.

In via Sanlitun, a poca distanza dalle ambasciate e dai negozi griffati, una fila di bar piuttosto trendy si rivolge alla comunità degli expats, gli stranieri che lavorano nelle ambasciate, nelle multinazionali o nelle scuole come insegnanti di inglese. Per chi è interessato alle abitudini notturne dei cinesi questi sono soltanto posti da una birra e via.

Più intrigante è invece il complesso dello “Stadio dei Lavoratori”, ad un paio di isolati da Sanlitun. Un nome decisamente azzeccato per una struttura i cui quattro cancelli principali non chiudono mai, che si guadagna l’esistenza non soltanto in occasione degli eventi sportivi del fine settimana ma anche ospitando un hotel, un ostello della gioventù, bar, ristoranti e due tra le discoteche più famose della città, il Vics e il Mix, sistemate l’una di fronte all’altra nei pressi del cancello all’entrata nord.

Davanti al Vics un robusto buttafuori armato di auricolare e in completo nero mette ordine tra i gruppi di giovani che arrivano in auto di lusso o in taxi. Il biglietto di ingresso costa cinque euro senza la consumazione e per una bottiglietta di birra locale bisogna pagare tre euro. Tenendo presente che in Cina una bottiglia di birra grande costa normalmente venti centesimi, questi prezzi la dicono lunga sul tipo di clientela di questa discoteca.

Il locale in sé è decisamente modesto ma è evidente che i ragazzi che lo frequentano sono i figli della Pechino bene, quella fetta della popolazione che si gode i privilegi della crescita astronomica del prodotto interno lordo. Qualche dettaglio – uno stivaletto o qualche pettinatura sparata – ricorda però vagamente la Budapest o la Berlino Est degli anni a cavallo tra gli ’80 e i ’90.

Un ambiente molto più sofisticato ed elegante è quello del Maggie’s Bar, recentemente trasferitosi dallo stadio dei lavoratori all’entrata sud del parco Rintan, un’area che pullula di ristoranti e clubs russi. Il lungo bancone, gli specchi e i giochi di luce creano un’atmosfera molto affascinante. L’unico dettaglio che può far storcere il naso è il fatto che molte delle ragazze all’interno del locale sono evidentemente delle squillo. Ti si avvicinano con una scusa banale, parlano un buon inglese e sono vestite molto bene.

Alcune di esse sono cinesi ma nella maggior parte dei casi vengono dalla Mongolia o dal Khazakistan. Dopo un paio di minuti di conversazione vengono al sodo e ti chiedono se puoi offrire loro da bere. La loro occupazione principale infatti, almeno per quanto riguarda il loro rapporto con il bar, consiste nel far consumare ai clienti il maggior numero di drinks possibile.

B., un greco che ha un’esperienza internazionale di locali di questo tipo, dall’Europa alla Thailandia, descrive il Maggie’s come il miglior locale in cui abbia mai messo piede. Se lo dice lui...

Pechino sarà anche la capitale del paese con l’economia più in forma del mondo ma per quanto riguarda la vita notturna non ha ancora raggiunto i livelli di Singapore, Kuala Lumpur e Bangkok, le altre capitali asiatiche con forte influenza cinese. I pechinesi sembrano infatti più inclini a trascorrere le loro serate in casa, con amici e familiari, sorseggiando te o sfidandosi ad interminabili partite di "Mah Jong".

Durerà fino a che le lore usanze non verranno stravolte dalle leggi del business e di quel settore della globalizzazione che si occupa di divertimenti e tempo libero.

venerdì 11 novembre 2005

Hutong, strutture urbane in via di estinzione. Pechino - Cina, 11 novembre 2005

I cinesi sono un popolo che ha sempre amato, a volte fino all’ossessione, tutto ciò che è grande, o meglio grandioso. Pechino è un città in cui le prove di questa passione nazionale affondano le radici nel passato delle varie dinastie imperiali.

I lunghi biscioni dei tratti di muraglia che strisciano sulle colline macchiate dai colori caldi dell’inizio autunno ne sono soltanto l’esempio più noto.

Non da meno è infatti la maestosità Ming e Qing della città imperiale. Al suo interno vi è una scalinata di marmo il cui blocco centrale fu ricavato integralmente da un’unica roccia. Talmente grande da dover essere trasportato in città facendolo ingegnosamente scivolare per svariati chilometri su una pista di acqua ghiacciata.

Nel tempio dei Lama si annida una statua di Buddha – un record da Guinness dei primati – i cui 18 metri di altezza sono stati intagliati su un unico ceppo di legno di sandalo. Tra la serie infinita delle sue torri e dei palazzi antichi la città conserva inoltre un portico in legno lungo un chilometro, interamente decorato con centinaia di dipinti, una campana da 63 tonnellate, e poi clessidre e percussioni giganti utilizzate per scandire il ritmo delle ore, dei giorni e delle stagioni che con magnanimità l’imperatore concedeva ai suoi sudditi.

In tempi più recenti contributi importanti al gigantismo pechinese sono stati forniti dallo stesso Mao, grande leader ma mediocre urbanista, con quella maglia di strade larghissime che si sviluppano sulle direttrici nord-sud e ovest-est attorno a Tiananmen, la piazza più vasta del mondo.

“La monumentalità non è tanto una questione di dimensioni quanto una di proporzioni” spiegava l’artista colombiano Botero a proposito di alcune sue sculture esposte “all’aperto” nel centro di Singapore. E’ esattamente l’effetto che percepisce chi da Tiananmen osserva il ritratto del grande leader appeso alla Porta della Pace Celeste. O chi, arrivando alla Stazione ferroviaria occidentale, si ritrova sbalordito ad ammirarne la facciata, una via di mezzo tra un arco di trionfo e una porta muraria di epoca imperiale.

Ma Pechino non è soltanto un insieme di elementi giganti in continua espansione. Distraendosi un attimo, scordandosi la mappa in albergo, svoltando un angolo a caso, avventurandosi lungo quello che potrebbe sembrare a prima vista un vicolo cieco, si scoprono delle sacche intoccate della città di un tempo.

Sono gli hutong, analoghi cinesi ai vicoli dei nostri centri storici. Stradine strette, fiancheggiate da siheyuan – case con cortile di un piano soltanto. Serpenti che, come in un vecchio videogioco, si snodano ad angoli retti, intersecandosi, allargandosi in pance piene di negozietti e bancarelle, e restringendosi improvvisamente a imbuto per poi magari sorprenderti sbucando in un trafficato viale a sei corsie, o terminando addosso ad un muro di cemento.

Lungo gli hutong i pechinesi si abbandonano a quelle abitudini ataviche che nei grandi spazi di concezione imperiale, maoista o postmoderna non trovano più il loro habitat. Nel giro di poche decine di metri ci si imbatte in tavolini sistemati all’aperto attorno ai quali la gente gioca agli scacchi cinesi, a carte, a domino. Oppure si ammassa nascondendo una gara misteriosa su cui si scommette ferocemente. Angoli a misura d’uomo in cui giovani e vecchi stanno seduti da soli o in compagnia a fumare, leggere, “succhiare” rumorosamente un piatto di tagliolini, o a chiaccherare.

Questo labirinto delle tradizioni sembra persino essere rimasto l’ultimo santuario per chi utilizza quello che credevamo essere il mezzo preferito dai cinesi, quasi scomparso dalle strade della capitale: la bicicletta.

Di hutong ce ne sono per tutti i gusti. Chi non soffre di claustrofobia, si annoia a vedere cinesi che giocano a scacchi e preferisce le vibrazioni di un’area più commerciale, dove si può acquistare un’orologio o una giacca con quattro soldi, può provare a tuffarsi nel fiume umano che scorre lungo le viuzze a sud di porta Qianmen.

Ma questi reperti di un museo a cielo aperto di storia e costume, a tuttoggi così vitali, rischiano purtroppo di diventare una specie urbanistica in via di estinzione.

L’urbanizzazione pesante, la crescita vertiginosa dell’economia, la necessità di infrastrutture efficienti e moderne stanno facendo a brandelli queste antiche aree del centro.

Le case basse e i cortili vengono impietosamente abbattuti e sostituiti da complessi residenziali che vantano tutto ciò che manca alle siheyuang – i bagni, il riscaldamento, l’acqua calda, i parcheggi – tranne, ovviamente, il loro fascino.

Il governo, sotto le pressioni di organizzazioni locali e internazionali, è corso ai ripari dichiarando gli hutong del centro aree architettoniche protette. Purtroppo però, i nuovi piani di sviluppo sono delle miniere d’oro e c’è chi non è disposto a lasciarsi sfuggire l’occasione troppo facilmente.

Gli unici hutong che avranno un futuro saranno probabilmente quelli che riusciranno a garantirselo a colpi di profitti elevati. E’ proprio per questo che molte di queste casette si stanno dando una ripulita e si apprestano ad ospitare ristoranti, bar e negozi, rivolgendosi così al turismo per guadagnarsi il diritto di continuare ad esistere.

E’ una soluzione al problema che a molti di noi può far storcere il naso. Ma una lancia a favore del turismo e della sofisticazione che immancabilmente lo accompagna bisogna pur spezzarla. Non bisogna dimenticare infatti che senza di esso oggi la grande muraglia, il grande vanto del paese, sarebbe con ogni probabilità soltanto un cumulo di pietre e terriccio – irriconoscibile non soltanto dagli oblò delle navicelle spaziali, ma persino da pochi metri di distanza.

sabato 5 novembre 2005

Cina costiera: la "S" più affollata del mondo. Shanghai - Cina, 5 novembre 2005

Pur essendo lo stato più popoloso del mondo la Cina figura soltanto al trentunesimo posto nella graduatoria dei paesi più densamente popolati. La precedono, tra gli altri, la “ribelle” Taiwan e persino l’Italia.

Se il miliardo e trecento milioni di abitanti fossero uniformemente distribuiti sull’intero, enorme, territorio nazionale, la Cina sarebbe probabilmente un paese molto più vivibile. Purtroppo non è così.

L’altopiano del Tibet e le distese desertiche dello Xinjiang a ovest, le steppe della Mongolia Interna e le aree sub-artiche dello Heilongjiang a nord sono scarsamente o quasi per niente abitate. La maggior parte dei cinesi si ammassa in una striscia a forma di “S” non molto spessa, a ridosso della costa ad est e a sud.

Non fu difficile intuire per quale motivo il virus della SARS si propagò con tanta facilità nelle provincie di Pechino e dello Guandong, popolate da decine di milioni di abitanti la cui attenzione per l’igiene si rispecchia nella loro irresistibile propensione allo sputo. Il “doppio sca” – che non è un nuovo passo di danza bensì l’accoppiata scatarrata-scaracchio – è un’abitudine alla quale pochi cinesi riescono a rinunciare. Il visitatore straniero familiarizza in fretta con la melodia di una ruvida grattata gutturale seguita da un secco pop e, dopo un momento di suspense, dal tonfo sordo di una granata viscosa che cade spesso a poca distanza dai suoi piedi.

Muoversi in questa regione può essere un’esperienza esilarante e frustrante al tempo stesso: i cinesi sono in grado di formare code di decine di metri e di aspettare per un’ora che venga loro servito un vassoio di polistirolo con una dozzina di ravioli (forse pure quelli di polistirolo). Ma non avrete realmente sperimentato la sovrappopolazione della Cina orientale fino a che non avrete provato a viaggiare come fanno i suoi abitanti, possibilmente durante un fine settimana.

Una semplice gita in treno da Shanghai a Suzhou, alla scoperta dei suoi rinomati giardini di epoca classica, può trasformarsi in un’avventura per molti versi indimenticabile. Si comincia con il complesso sistema che dalle gomitate davanti alla biglietteria porta al binario: mettersi in coda all’entrata, far scorrere i bagagli sul nastro dei raggi X e individuare il numero della sala d’aspetto per l’imbarco del treno. Mostrare il biglietto e cercare sul tabellone il codice identificativo del convoglio per sapere a quale cancello fare il check-in. Solo dopo che il tagliando sarà stato controllato per la seconda volta sarà possibile scoprire a quale binario bisogna dirigersi.

Una volta all’interno del vagone può capitare di scoprire che il posto indicato tra gli ideogrammi del biglietto è già occupato, e che decine di passeggeri stanno accalcati lungo il corridoio. Una situazione misteriosa, dal momento che il viaggio è a prenotazione obbligatoria dei posti. Il tragitto è breve, come andare da Milano a Pavia: la cosa migliore da fare è mettersi il cuore in pace e poggiare la spalla sullo stipite della porta.

I pochi cinesi che osano rivolgersi in inglese agli stranieri amano informarli che “La Cina è un paese molto popoloso”. Un’ovvietà che trova un’ulteriore conferma nelle statistiche della guida: Suzhou, la Pavia di Shanghai, il presunto borgo fuoriporta, vanta una popolazione di quasi sei milioni di abitanti.

Dopo che il sole è calato sui cipressi, i padiglioni, le rocce e gli elementi d’acqua dei giardini, è possibile imbarcarsi in uno dei numerosi treni per Shanghai che non offrono il servizio di prenotazione dei posti. Chi primo arriva meglio alloggia, e i cinesi ce la mettono tutta. Saltano le panchine e scavalcano le ringhiere per velocizzare le operazioni di imbarco. Quando le porte del vagone vengono aperte si scatena una mischia furiosa per l’ingresso. Qualche persona anziana perde l’equilibrio ma chi sta dietro non se ne cura, e continua a spingere. Altri passeggeri dal fondo della coda lanciano i bagagli sopra le teste di chi sta loro davanti.

Usciti dalla stazione centrale di Shanghai ed imboccato il tunnel della metropolitana ci si imbatte quasi sempre nella stessa scena: tutte le biglietterie automatiche sono fuori uso e ad uno degli sportelli, l’unico aperto, una signora stremata si scortica i polpastrelli su banconote e biglietti, davanti ad una bolla ondulante di cinesi vocianti.

Al margine del mucchio un signore americano avanti nell’età, piegato su un bastone, esplode la sua frustrazione: “Fantastico! Sono qui da sette anni. Sette anni! E ancora non smetto di sorprendermi davanti alla stupidità con cui il governo gestisce tutto ciò!”

Non resta altro da fare che scrollarsi di dosso lo sconcerto, girare i tacchi e ripiegare su un taxi. Sempre che ce ne sia uno libero. Non bisogna dimenticare che è sabato sera, e che questa è Shanghai, il cuore pulsante della Cina orientale.

Siamo al centro della regione più affollata del mondo.

Pubblicato da Faraeditore nella sezione Faranews:
http://www.faraeditore.it/faranews/87.shtml