venerdì 21 dicembre 2007

Affari fluidi. Chiang Mai - Thailandia, 21 dicembre 2007

Passeggiando per le strade più vivaci e affollate di Bangkok si osservano ad ogni angolo – e ad ogni ora – negozietti, ristorantini e bancarelle ambulanti. C’è chi si dedica ad attività o alla vendita di prodotti legati a tradizioni più o meno antiche, e chi invece si è buttato su idee più moderne e innovative.


Osservando i marciapiedi della stessa via a tre mesi di distanza è poi improbabile non imbattersi in cambiamenti di scenario più o meno drastici. Il panorama va mutando in un gioco continuo di creatività e imitazione.


Khao San Road, ribattezzata la porta d’oriente per essere diventata negli ultimi anni la base di partenza per i turisti stranieri che si apprestano a visitare l’Asia, è il posto perfetto per osservare il fenomeno.


Qualcuno ha piazzato un banchetto che vende fresche spremute d’arancia e l’idea si è rivelata vincente? Entro poche settimane altre quattro famigliole avranno sistemato i loro spremiagrumi a pochi metri di distanza. A volte persino accanto a quello del pioniere, che si adatta senza protestare alla concorrenza dei copioni.


In Thailandia, come in altri paesi asiatici, le attività imprenditoriali si svolgono in maniera fluida e dinamica, senza costrizioni di leggi e regolamenti rigidi, seguendo procedure che magari prevedono semplicemente il pagamento di una mazzetta alla locale stazione della polizia.


Quel che mi è capitato di osservare alcuni giorni fa a Ratchaburi, una cittadina ad un paio d’ore di autobus da Bangkok, oltrepassa però il limite della normalità di casa, debordando nel territorio della comicità involontaria.


Ero ospite a casa di alcuni stranieri che insegnano in una scuola bilingue in città. Un giovane canadese, mentre mi porge una bottiglia di birra Archa ghiacciata, mi prende per un braccio e mi accompagna al cancello dell’ingresso in cortile. Con un movimento della testa mi fa cenno di dare un’occhiata alla casa di fronte. Siamo in un quartiere residenziale, popolato da sole famiglie thailandesi, con l’eccezione di tre case abitate da insegnanti stranieri, una delle quali è quella in cui mi trovo ora.


Appesi alla ringhiera della casa che sto osservando ci sono due cartelli con una scritta in inglese: “Qui vendiamo birra fresca e sigarette”. Altri due identici sono stati appiccicati al muro, di fianco alla porta di ingresso.


Non si tratta di un negozio, è semplicemente l’abitazione di una signora thailandese, che invece di lamentarsi per il baccano proveniente dalla casa in cui i miei amici si intrattengono spesso fino a tardi per fare due chiacchiere e ascoltare musica, ha colto l’occasione per offrire a prezzi di mercato i prodotti che altrimenti si possono trovare soltanto in un negozietto a qualche centinaio di metri da qui. Basta attraversare la strada, suonare il campanello e ordinare. La signora poi raccoglie i vuoti delle birre, che depositati ad un centro di raccolta le garantiscono un ulteriore piccolo guadagno.


L’insegna è in inglese perché gli insegnanti stranieri sono i suoi unici clienti. O meglio, ha aperto l’attività proprio perché c’era questo gruppetto di potenziali clienti.


Un amico thailandese degli insegnanti, che vive poco lontano da qui, non nasconde il proprio rammarico per il fatto che il gestore del negozietto legittimo perde clienti a causa della comparsa della venditrice abusiva. E gli stranieri sono presi tra due fuochi. Comprano infatti la birra dalla signora non soltanto per motivi di comodità ma anche e soprattutto per mostrarle gratitudine per il fatto che non si lamenta del chiasso notturno.


Probabilmente la situazione si risolverà quando il proprietario del negozio deciderà di denunciare il fatto alla polizia. O si svilupperà con una gara di sfruttamento di conoscenze e di elargizione di piccole mazzette a qualche cinico funzionario. Una versione in scala ridotta di quel che accade a Bangkok nel caso per esempio dei proprietari dei club after hour, che pagano le autorità in cambio del permesso di tenere aperti i locali dopo gli orari di chiusura fissati per legge. E che la polizia magari mette l’uno contro l’altro irrompendo nel locale di chi paga meno e facendolo chiudere, scatenando ad arte una corsa al rialzo.


Sono storie che rimandano ad una famosa vicenda che risale a qualche anno fa. Quando un tale Chuwit, magnate dei centri di massaggio, si vide smantellata dalle autorità una qualche struttura facente parte del suo impero. Impermalosito e forte della imponente rete di relazioni e di affari poco limpidi che aveva nel tempo sviluppato con personaggi di spicco, decise di lanciare una battaglia, in gran parte mediatica, a quelli che ai suoi occhi si erano arricchiti grazie ai suoi affari e che ora improvvisamente, per altre ragioni di tornaconto personale, gli voltavano le spalle. Attirò su di sé l’attenzione della stampa e minacciò di rendere pubblica una lista con i nomi degli ufficiali di polizia a cui aveva elargito denari e favori – compresi quelli delle ragazze che lavoravano nei suoi centri – in cambio di tolleranza e protezione nei riguardi delle sue attività.


Il sistema accusò il colpo. Ufficiali di alto livello delle forze dell’ordine rilasciavano quotidianamente dichiarazioni severe e minacciose all'indirizzo di Chuwit, ma tradivano al contempo una certa inquietudine. La storia assunse anche toni melodrammatici quando Chuwit, dopo essere stato ritrovato in stato confusionale ai bordi di una strada di periferia, dichiarò di essere stato rapito e minacciato da alcuni poliziotti. E con il portavoce delle forze dell’ordine che lo accusava di aver inscenato il tutto. Alla fine, come nei migliori casi del genere, il tutto si risolse con Chuwit che creò un suo partito e partecipò alle elezioni dell’anno successivo.

La Thailandia è anche questo. Tutto l’oriente è pure questo. Un luogo incredibile in cui a volte sembra valere tutto
e altre volte, chissà perchè, invece no.

lunedì 26 novembre 2007

Natale tropicale. Bangkok - Thailandia, 26 novembre 2007

Manca un mese a Natale. C’è una tazza di caffè bollente sul tavolino di fronte a me e in sottofondo vengono diffuse le musichette di rito. Accovacciato nel soffice divanetto del caffè, col grosso libro in mano e i venticinque gradi dell’ambiente, ci potrei restare per ore.

Eppure in questa circostanza le note di White Christmas e Silent night sembrano quasi la colonna sonora di un film comico, se non demenziale. Non perché si tratta di cover jazz o gospel dei pezzi classici, ma semplicemente perché il locale è una riproduzione di un caffè viennese piazzata nel centro di Bangkok. E l’atmosfera dell’ambiente è controllata per mezzo di un efficiente sistema di condizionatori. Non certo dal caminetto finto, illuminato dal rosso dei tizzoni elettrici.

La prima volta che ho trascorso un Natale “fuori stagione” è stata una decina di anni fa. In Argentina, un paese in cui a volte può fare molto freddo. Ma in luglio magari, non certo a dicembre.

Buenos Aires è una città in cui la gente, tornando con la pelle scottata da una giornata di sole in piscina o al parco, passa di fianco a poveracci sottoposti a saune forzate all’interno di pesanti costumi da Babbo Natale e barbe in fibre sintetiche. Costretti a suonare campanacci all’entrata di negozi dalle vetrine decorate con neve spray e disegni di alberelli, renne, candele e comete.

A distanza di dieci anni il Natale ai tropici non mi stupisce più, ma il suo effetto comico non è svanito.
E mi scappa ancora da ridere quando in un ristorante di Kuala Lumpur, ad un tiro di schioppo dall’equatore, osservo una decina di pacchetti finti ai piedi di un alberello in plastica con le decorazioni e le lucine. Mi trattengo fino a quando un gruppetto di turisti svedesi (svedesi!) posa per le foto accanto all’angolino alpino mentre all’esterno, dietro alla vetrina alle loro spalle, una ragazza con la pelle scura, in minigonna e top attillato, accavalla le belle gambe scoperte, mentre si gode lo sbuffo del vapore fresco che il ventilatore le soffia addosso.
Fingo di tossire mentre mi copro la bocca per nascondere la risata.

Passate un buon Natale. E se siete da queste parti...scopritevi bene.

domenica 18 novembre 2007

Mak Nyahs, orgoglio e voce grossa. Kuala Lumpur - Malesia, 18 novembre 2007

Attraversano la strada, schizzando da un marciapiedi all’altro. Dal minimarket all’entrata dell’hotel. Dall’ingresso del vicolo alla curva della strada. Sempre un po’ affrettati, con la schiena dritta e il mento alto. Come le dirigenti delle multinazionali, che di mattina, poco prima delle nove, coprono di gran lena la distanza tra la fermata della monorail e gli ascensori dell’azienda.

Ma è quasi mezzanotte e loro non sono né dirigenti né donne, nel senso stretto del termine. Sono i mak nyahs, i transessuali malesi, che non si impegnano molto per apparire ciò che non sono. Quest’area di Kuala Lumpur – Bukit Bintang – non è il Golden triangle, dove i transgender thailandesi o filippini ronzano attorno al Beach club, confondendosi tra le prostitute. Qui nessun occidentale scambierebbe mai, nemmeno dopo una serata di whisky e canne, un travestito per una ragazza alta e bella.
Voce grossa, spalle larghe, niente forme. E tanto orgoglio, tanta voglia di apparire perfettamente inseriti e dignitosi. I mak nyahs ce l’hanno scritto sulla faccia e sulle falcate: I belong here. Un desiderio sfrenato di accettazione e rispetto. Sembra un triste segnale: maggiore la smania, più forte la frustrazione.
Ci sarà chi, credendo di poter spiegare qualsiasi fenomeno sociale puntando il dito sugli “altri” o sulla “collettività”, dirà che il loro comportamento è una reazione al contesto, ad una società che se da un lato diventa più ricca, dall’altro si fa superficiale e borghesotta. Forse. Molto probabilmente questo c’entra qualcosa.
Altri per anni hanno fatto circolare una leggenda, smentita da alcune recenti ricerche, secondo la quale i transessuali sarebbero vittime di famiglie musulmane che dopo una lunga serie di figli maschi educano l’ultimo genito come se fosse una bambina.

Ma tutto ciò non conta molto, forse niente. Perché questa non è soltanto la percezione dei mak nyahs, o un sistema di relazioni sociali che si può cambiare con un po’ di buona volontà e tolleranza. Questa per loro è la realtà, per niente virtuale. Un marchio, un dato di fatto. Sono loro stessi il dato di fatto.

E quella disinvoltura affettata, quella posa teoricamente dignitosa, invece di mimetizzarli li mette ancor più in evidenza. E’ un po’ come osservare degli esquimesi nel deserto. Di certo più fuori contesto dei loro colleghi (in quanto a prostituzione) stranieri del beach club. I quali magari ti si avvicinano e ti ammiccano, ti tirano un bacio o un pizzicotto, ti mettono in imbarazzo e a volte ti infastidiscono. Ma mai ti fanno pensare che stiano cercando una dignità diversa da quella che si auto riconoscono nell’ambiente che frequentano.

Questo può piacere o no. Non credo sia importante. Alla fine è l’effetto che conta. In fondo è la loro realtà, non la nostra.

domenica 11 novembre 2007

Golden triangle, quartiere metamorfico. Kuala Lumpur - Malesia, 11 novembre 2007

Dal ventiquattresimo piano a terra l’ascensore sembra precipitare, piuttosto che scendere. Col cambio repentino di altitudine si sono persino tappate le orecchie.
Da qualche mese questi siluri sostituiscono quelli che, durante le ore di punta, costringevano centinaia di persone ad attendere al piano per vari minuti, prima di poter finalmente andare a pranzare o tornarsene a casa.
Ma il rinnovo del parco ascensori non è stato di certo l’unica opera di rinnovamento effettuata nei dintorni, e nemmeno la più rilevante.

Esco dall’edificio e al posto di un salotto-bar per amanti del sigaro, un’impresa fallimentare durata poco, mi ritrovo davanti un nuovo ristorante indiano. Viro a destra ed ecco lì uno dei punti di riferimento fissi della zona, il palazzo bianco dell’Ascott. No, un attimo. L’Ascott sta dietro queste due enormi costruzioni, probabilmente non ancora inaugurate, che sono spuntate lì dove soltanto quattro anni fa prosperava un altro ristorantino, sostituito da un parcheggio dal ciclo di vita di una zanzara e infine dal Rum Jungle.
Il Rum Jungle, l’hanno chiuso quindi. Saranno contenti quelli che non sopportavano le iperboli vocali di quel dj buffone dall’accento marcato che, dato che il locale era all’aperto, rimbombavano in tutto il quartiere.
Macché. Svolto all’angolo e il Rum Jungle me lo ritrovo qui. Lo hanno semplicemente spostato all’altro lato della strada. Spostato e rinnovato, ovviamente. Piscina per squaletti dalle pinne nere (veri), ampia zona per divanetti, lungo bancone del bar e vasta pista da ballo. Nonché le note gracchiate dal dj buffone che continuano a rimbalzare tra le torri, nuove e nuovissime, ficcate nel circondario come bombe inesplose in un campo di battaglia.
Vediamo. Nel raggio di mezzo chilometro ci sono: alla mia sinistra i due enormi palazzi per le nuove Service residence che nascondono l’Ascott. Un altro grattacielo in costruzione dietro al Rum Jungle. Oltre l’Ascott un paio di nuovi hotel, ovviamente altissimi. Alle mie spalle, appena prima delle Torri Petronas (già datate, avranno almeno dieci anni...), ci sono altri due grandi edifici in costruzione. Poi le appendici al KLCC aperte da poco, hotel di lusso e affini. E così via.
In una smania di edificare, demolire e ricostruire, rinnovare, ridipingere, sostituire, azzardare, chiudere, rilevare, cambiare, in cui questa e altre zone della città faticano a trovare il loro equilibrio, a fissare i loro tratti distintivi.
Come un viso nemmeno tanto vecchio, sottoposto mese dopo mese a lifting, stiramenti, colorazioni, getti di vapore, trattamenti tonificanti, massaggi, applicazioni di cere, creme, lozioni, essenze, esposizione a raggi, immersioni in atmosfere a temperatura e umidità controllate, cambiamenti, restyling e quant’altro. Ma chi lo riconosce quel tizio, quando torna dopo un periodo di assenza?

Passato il Rum Jungle mi aspettano un ventina di metri di calma prima di arrivare all’Aloha, l’ultimo entrato nella lista dei pub a tema esotico, un posto abbastanza nuovo a cui mi sono quasi abituato. Ma quale calma? Tra i due pub l’amministrazione comunale ha fatto costruire una specie di chiringuito adibito a bagno pubblico.
Subito dopo l’Aloha, apparentemente inalterato, è la volta di Modesto, il ristorante italiano. Sempre lì, da anni ormai, a rappresentare la tradizione nostrana che, almeno quella, non cede il passo ad altre mode passeggere. Sì, ma con delle riserve. Anche Modesto ha infatti visto i suoi periodi blu, rosa, rosetta e azzurrino. Quattro anni fa due sale ristorante: una all’aperto con grande schermo per F1 e calcio e una interna con aria condizionata per pranzi d’affari o cene d’atmosfera. Nel sotterraneo invece una discoteca in cui ragazze musulmane arrivavano vestite da scolarette, con dei vestiti da lap dance nascosti negli zainetti. Un salto in bagno e via a dimenarsi su una piattaforma trasparente sospesa sopra al bancone del bar, da dove sfoggiare la biancheria intima firmata che sbircia a tratti da sotto le minigonne.
Più recente invece l’apertura di un’appendice chiamata Uno, un bar con musica dal vivo. Quindi lo spostamento della sala ristorante interna in un ambiente ricavato tra le due strutture. E la sala così evacuata, obsoleta dopo ben due o tre anni di servizio senza alcuna alterazione architettonica, in fase di ristrutturazione per diventare più colorata e solare.
Non ho ancora capito se la catacomba del peccato sia stata chiusa o no. Ma che importa, questo è un posto in cui bisogna perdere in fretta il vizio di catalogare i locali pubblici e le attività commerciali in un personale stradario mentale della città. Le edizioni, le revisioni e le ristampe si rincorrerebbero ad una velocità insostenibile.

Dopo Modesto ecco Maredo, il ristorante di carne argentina che resiste alle rivoluzioni urbanistiche da ben due anni! Fu sistemato in una piccola struttura fatta edificare per ospitare un ristorante di salsicce tedesche, che qualche creativo aveva deciso di piazzare proprio di fianco ad un caffè americano, su un angolo del cortile del Crown Regency, un altro blocco di Service apartment. Palazzo storico quest’ultimo. Praticamente un’istituzione. Credo rischi di essere addirittura più vecchio delle Torri Petronas. Un po’ come il Beach club, il disco-pub ad alta concentrazione di prostitute filippine e turisti stranieri, che con le note festanti di questo sodalizio multiculturale apre in allegria via Jalan P. Ramlee. Questi sono diventati ormai dei reperti storici, sviluppatisi in un’era precedente – la seconda metà degli anni novanta – sulle macerie del vecchio ippodromo. Demolito per far spazio al Golden triangle, il business district di Kuala Lumpur, la punta di diamante della Malesia che cresce. Così come il nuovo aeroporto e il corridoio multimediale, che interseca Putrajaya e Cyberjaya, le nuove cittadelle – amministrativa e tecnologica rispettivamente – dai nomi in bilico tra passato e futuro.

Per un benvenuto a questo quartiere metamorfico si potrebbe parafrasare lo slogan dipinto sui pannelli di legno che coprono i lavori in corso per i nuovi ristoranti del centro commerciale alle torri Petronas: “C’è sempre qualcosa di nuovo a KLCC...”.

Già, c’è sempre qualcosa di nuovo al Golden triangle. Purtroppo non c’è rimasto più nulla di vecchio.
Ma chissà se di ciò se ne rammarica ancora qualcuno.

venerdì 9 novembre 2007

H., la donna araba. Kuala Lumpur - Malesia, 08 novembre 2007

E’ giorno di festa in Malesia. Il Deepavali è una delle occorrenze più importanti nel calendario della comunità hindu. In Malesia, tralasciando quella ebraica, un po’ tutte le religioni sono rappresentate e rispettate. Scuole, aziende e uffici statali si fermano così per celebrare il Ramadan, il Deepavali e ovviamente anche il Natale.
Tutti i miei studenti sono stranieri, a nessuno interessa fare festa oggi e perdere poi un sabato per recuperare la lezione. Siamo regolarmente in classe, oltre a noi però non c’è nessuno. Nemmeno chi di solito ci porta il pranzo, incluso nel prezzo di iscrizione al corso.
Alle dodici e mezzo interrompo la lezione e porto tutti alle Torri Petronas. Scegliamo un bel caffè coi tavoli all’aperto, investiti da soffici sbuffi d’acqua. Un bel posto da cui ci si può godere una vista privilegiata della nuova skyline del Kuala Lumpur convention centre, oltre ai giochi d’acqua delle fontane del complesso. Dietro agli zampilli si scorgono le cupole della moschea, costruita anch’essa con i materiali hi-tech e quelle linee un po’ moderne e un po’ islamiche delle torri.
I camerieri accostano tre tavoli per farci accomodare e noi ci sediamo. Non tutti però, manca Huda. Sarà andata al bagno.
Dietro a noi c’è un tavolino. Ci sta seduta una persona da sola, con il vestaglione nero delle donne arabe e un velo sulla testa da cui spunta un viso paffuto e simpatico, anch’esso scurissimo. Inconfondibile: è Huda. Viene dall’Oman, ma probabilmente ha origini africane.
Mentre noi ci scambiavamo cortesie per scegliere il posto, lei quatta quatta, attenta a non farsi notare, è scivolata verso un tavolino dalla vista occultata, proprio quello che faceva al caso suo. Di fronte a lei, all’altro capo del tavolo, silenziosa e compunta, si alza una massiccia colonna dal profilo di metallo opaco.
Io faccio finta di niente e maschero un leggero imbarazzo dietro al menu. Faccio finta di niente; e non faccio niente, perché conviene non fare niente. Tutto attorno a me si agitano mani. Quelle minuscole e ansiose di Carmen, che si affanna per invitare Huda ad unirsi a noi. Il palmo di Huda che si allunga in avanti, come per creare una distanza o semplicemente per dire di girarci e di scordarci che esiste. Le mani forti di Alexander, lo studente di Zagabria, che stringono i braccioli della sedia mentre la sua testa si volta nervosa verso la compagna auto-emarginata, per poi tornare a fissare il coperto, strizzando le labbra e gonfiando le gote. Facciamo qualcosa? E’ la domanda che sembra ronzargli in testa. Ma cosa?
Le dita degli uomini arabi scorrono lungo le liste dei piatti di pasta, di insalate e dell’ampia offerta di sandwich e gourmet pie. Sereni, imperturbabili. Huda si è seduta da sola? Embè? Direbbero alcuni di loro. Huda...Huda chi? Chiederebbero gli altri.
Non c’è molto di cui stupirsi. Io mi ero anzi sorpreso quando l’avevo vista seguirci verso l’ascensore. Ma come, tutto ad un tratto decide di mangiare con noi?
Ogni giorno infatti, mentre pranzo assieme ad Alexander il croato e Jerry l’indiano, con gli uomini arabi seduti tra loro, Huda, quando non mangia assieme a Carmen, se ne sta da sola. Fin dal primo giorno del corso ha individuato il suo posto presso l’unico tavolino appoggiato alla parete. Forse sistemato a quel modo su sua specifica richiesta. Non vedo infatti altri motivi perché debba esserci un tavolo in quella posizione. Non mi era mai capitato di notarlo, quando ero venuto qui ad insegnare in passato.
E quindi, quando non è impegnata ad osservare il piatto o il cibo che si porta alla bocca e alza la testa, Huda non può far altro che fissare il muro.
Credo che tutto ciò sia dovuto a una regola che proibisce alle donne arabe di pranzare assieme agli uomini. La maggior parte dei musulmani in estremo oriente questa regola non la osserva. Gli arabi apparentemente sì.
Basta vedere la disinvoltura con cui i miei studenti sauditi affrontano senza imbarazzo la scena che ci si presenta davanti. Come alla fine si alzano per recarsi alla moschea senza degnare Huda di uno sguardo.
Quando gli uomini sono già lontani lei si alza, e mi sembra di vederla chinare leggermente il capo come per accomiatarsi dall’altro commensale, che sarebbe la colonna. Ci saluta e si avvia lentamente per unirsi ai suoi fratelli in preghiera.
Huda silenziosa. Huda solitaria, seduta davanti al muro. Huda del Sultanato dell’Oman, la donna araba.



venerdì 31 agosto 2007

La lucciola timida. Vang Vieng - Laos, 31 agosto 2007

Vang Vieng, come molte altre località del Laos, si è sviluppata molto dall’ultima volta che ci sono stato, nel 2001. Il numero delle guest house, dei ristoranti, delle agenzie di viaggio e dei punti internet è aumentato notevolmente.
Il tubing, ovvero la discesa lungo il fiume a cavalcioni di grandi camere d’aria, una delle attrazioni del posto, è diventato un grande business. La riva destra è tappezzata da una schiera di bar i cui gestori con i loro "arpioni" cercano di accaparrarsi il maggior numero di turisti che si vogliono bere qualche birra o tuffare dalla cima di un albero aggrappati ad una fune con maniglia. Alcuni bar mettono a disposizione dei loro clienti persino campi da pallavolo, da basket o piste per il gioco delle bocce, tutto a pochi metri da una giungla impenetrabile.
Vang Vieng è cambiata, ma la campagna che la circonda è rimasta la stessa. Le belle colline oltre la distesa smeraldo delle risaie, il groviglio in ebollizione delle piante tropicali e delle palme da cocco, i torrenti con l’acqua turchese e le grotte che custodiscono le statue buddiste: tutto è rimasto uguale. I bambini giocano ancora seminudi o si fanno il bagno nel fiume, e i polli continuano indisturbati a razzolare in mezzo alla strada.
Mentre aspettiamo l’orario di apertura di una delle grotte, facciamo la conoscenza di un gruppo di ragazzi del posto.
Sono impegnati in una partita di carte. Uno dei maschi parla l’inglese, e una ragazza sorride timidamente. Ogni volta che le rivolgiamo la parola arrossisce e abbassa lo sguardo fissando le carte da gioco. I ragazzi giocano e ogni tanto alzano la testa per farci qualche domanda. Li salutiamo quando arriva il bigliettaio.
La sera, mentre stiamo bevendo un paio di birre all’unico bar del paese, la cameriera passa per i tavoli informando la clientela che il locale chiuderà fra cinque minuti. Sono le undici e mezza. Viziati dalle opportunità della vita notturna thailandese ci prende un momento di sconforto. Poi un ragazzotto anglofono, con la faccia rossa e paffuta, ci dice che conosce un locale aperto fino a tardi, possiamo seguirlo e ce lo indicherà.
Il locale non è altro che un bungalow resort, il cui bar continua a servire alcolici anche dopo la chiusura del cancello.
Mentre il gruppo di turisti anglosassoni si raduna presso un gazebo, noi ci sediamo agli sgabelli del bar, e ordiniamo due bottiglie di Beerlao.
Al banco ci sono il proprietario – un inglese scheletrico che fuma a catena – e due ragazze laotiane. Dopo un paio di minuti mi accorgo che il volto di una delle ragazze mi è familiare. La fisso per un po’ cercando di farmi venire in mente dove l’ho già vista, e ho come l’impressione che lei faccia lo stesso. Quasi contemporaneamente ci riconosciamo. E’ la ragazza che giocava a carte all’ingresso della grotta. Parliamo un po’ in thailandese. Poi due australiani si staccano dal gruppo del gazebo e si vengono a sedere accanto a noi. Ci rivolgono un paio di parole con il chiaro intento di attirare l’attenzione della ragazza. Inizialmente lei non sembra molto interessata, mi dà perfino l'impressione di essere un po' seccata. Gli australiani dicono qualcosa all’inglese, che uno di loro già conosce, quindi la conversazione si fa più confusa quando vengono coinvolte l’altra barista e la ragazza che parlava con noi. Da quel momento lei verrà gradualmente assorbita nel loro circolo, uscendo di conseguenza dal nostro. Peccato, aveva un bel sorriso.
Noi beviamo e chiacchieriamo, ma al contempo continuiamo distrattamente ad ascoltare la conversazione del gruppo che si è formato accanto a noi.
Ad un certo punto ho l’impressione che gli australiani ci stiano sfacciatamente “provando”, e mi sorprendo a notare che lei non li ignora più. Sorride ad alcuni dei loro commenti, li ascolta attentamente e a tratti sembra persino attendere un po' ansiosamente il loro prossimo intervento. Come se sperasse che da un momento all'altro la conversazione prenda un altro corso. Per lei più interessante.
Dopo un po’, mentre i miei pensieri svolazzano su chissà quale fantasia, mi ritrovo a fissare l’attenzione su una parola pronunciata da uno degli australiani. Guardo C con gli occhi sbarrati e la mia sorpresa si specchia sul suo volto. Non possiamo esserci sbagliati entrambi: la parola che abbiamo sentito è condom: preservativo.
Tendiamo le orecchie e nei minuti seguenti i nostri sospetti vengono confermati. Si tratta di una contrattazione per un rapporto sessuale. Siamo sbigottiti. In questi anni in Asia mi è capitato centinaia di volte di assistere ad incontri tra prostitute e clienti, anche qui in Laos, nella capitale. Questo genere di cose non mi turba affatto. A stare da queste parti mi è venuta presto la corazza dura e per sorprendermi proprio ce ne vuole. Eppure qui a Vang Vieng, in questo locale, da questa ragazza, non me l’aspettavo. Ormai non ci sono più dubbi, ma noi facciamo ancora fatica a crederci e ascoltiamo attentamente la loro conversazione.
L’inglese interviene per agevolare la transazione e cinque minuti più tardi consegna alla ragazza la chiave di un bungalow, assieme alla bustina di un Durex.
La ragazza si è accorta che noi stiamo osservando la scena. Ci guarda, arrossisce, sorride imbarazzata e abbassa lo sguardo. Quindi si alza e sperando di non farsi notare fa un giro molto largo nel cortile prima di entrare nel bungalow. Un paio di minuti più tardi viene raggiunta dall’australiano che, non essendosi accorto dell’imbarazzo della ragazza, bussa energicamente e cerca di spalancare la porta. Lei invece lo fa entrare aprendo di quel tanto che basta a farlo passare. Scorgo nuovamente il suo viso prima che scompaia. Indossa ancora quel sorriso imbarazzato e lo sguardo colpevole. Ci sbircia di sfuggita e chiude in fretta la porta.
Una ventina di minuti più tardi l’australiano ritorna al bar, gonfiando il petto e lasciandosi andare a qualche commento infantile: sembra un ragazzino delle medie che ha appena strappato un bacio alla più bella della classe.
La ragazza si trattiene nel bungalow per un po’. Dopo essere uscita non alzerà più la testa fino a quando ce ne saremo andati. E dietro la tendina di capelli che le nasconde il viso è ancora possibile scorgere quel suo sorriso di vergogna.
Forse non è una professionista. Ma una principiante non si sarebbe comportata in maniera così disinvolta durante la trattativa.
Mi chiedo se quella malizia sfacciata le prostitute la acquistino con l’esperienza o se un po’ bisogna avercela nel patrimonio genetico. Questa ragazza si scrollerà mai di dosso il suo imbarazzo? Riuscirà un giorno ad agganciare un cliente senza vergognarsi di fronte a due stranieri che la osservano stupiti?
Chissà se quel sorriso da bambina birichina smetterà mai di spuntare tra i bei ciuffi di capelli dietro i quali si nasconde.


domenica 8 luglio 2007

Kuala Lumpur - Malesia, 08 luglio 2007

Ancora sulle donne malesiane. E ancora sul mio studente iraniano-americano.
A ogni tanto sfodera dei numeri di alta scuola, che poi rovina con dei gesti dettati da quell’arroganza tipica dell’ambiente che frequenta.
Pranziamo al centro commerciale ai piedi delle Torri. Poi, prima di tornare in classe, facciamo quattro passi. Quando siamo sulle scale mobili noto una bella ragazza. Anche lei scende le scale, poco dietro a noi. La osservo sapendo bene che - come sempre - mi limiterò soltanto ad osservarla. La mia timidezza, un freno a mano tirato spesso sulle mie manovre sociali, non mi permetterà di tentare alcuna mossa d’approccio. Di certo non in queste circostanze. Se fossimo in un bar, forse. Qui di sicuro no. Me ne rendo conto e ci speculo soltando ora. Sul momento non ci faccio nemmeno caso. E’ una cosa che do per scontata.
A invece si ferma ai piedi delle scale mobili e attende. Quando la ragazza ci raggiunge lui le sorride e le chiede una stupidaggine qualsiasi, del tipo: “ Sapresti indicarmi l’uscita più vicina?”.
La ragazza si ferma, sorride, pensa, gira un paio di volte attorno ad un asse fisso. Prima in un verso, poi nell’altro. Sembra un po’ confusa. Poi indica qualcosa, in maniera non molto convinta. Muove due passi insicuri. A sorride, prima la segue e poi, continuando a camminare con passo deciso e distraendola dicendo qualcosa, la convince ad incamminarsi assieme a noi.
“Ma davvero non sai trovare l’uscita? Ma sei sicura di essere di qui? Di Kuala Lumpur?”. E ride. La ragazza sorride imbarazzata e si difende. Certo che è di qui.
Arrivati nei pressi di un’uscita la ragazza si ferma e la indica con sollievo, certa di essere finalmente riuscita a liberarsi di noi. Cioè di A, io sinceramente non l’ho disturbata affatto.
Invece A non molla. Ovviamente non molla. Mica era interessato a trovare l’uscita. Solo uno come me si arrenderebbe proprio ora, sempre che fossi riuscito ad arrivare fino a questo punto.
Inizia cercando di metterla a proprio agio.
“Ma lavori qui per caso? Cioè qui a KLCC?”.
La ragazza non si aspettava questo approccio insistito. E’ decisamente sotto shock. Non riesce nemmeno a trovare le parole per una risposta così semplice. Credo di ricordare che abbia persino cominciato a balbettare.
“Non è che ti andrebbe di bere qualcosa con me stasera? O qualche altra volta?”.
A utilizza un tono molto rilassato e suadente. Non lascia mai andare la presa su quel suo sorriso ruffiano. Parla lentamente, ma senza pause troppo lunghe. Spinge le vocali in avanti e verso l’alto, lungo una traiettoria iperbolica. Una tecnica rassicurante. In avanti e verso l’alto è una direzione che tende sempre a rassicurare. Io almeno sarei rassicurato.
Ma la ragazza no. E’ imbarazzata al punto dell’imbambolamento.
“Se vuoi puoi darmi il tuo numero di telefono”. E il cellulare sta già tra le sue dita, pronto per l’inserimento delle cifre.
La ragazza non risponde nemmeno più alle sue domande. Respira a fondo. Il suo petto si muove vistosamente dal basso verso l’alto. Guarda dappertutto, pur di evitare lo sguardo di A. La sua testa si muove a scatti, a destra e a sinistra, come quella di un gufo. Ci manca solo che la palpebra a tendina si abbassi su uno di quei suoi begli occhietti neri.
A la incalza. Ma sempre con un certo tatto. Devo ammettere che ci sa proprio fare. Non riuscirei nemmeno ad immaginare un modo di fare o delle frasi migliori di quelle che sta utilizzando lui.
Lei mi guarda. E mi rivolge un sorriso che è più che altro una supplica. Come se io fossi un amico o un familiare che può aiutarla in questo impiccio. Io le faccio capire che non deve guardare me, e che può rispondere come meglio crede alle proposte di A.
A ora gioca a carte scoperte.
“Io in realtà sapevo benissimo dov’era l’uscita. Volevo solo provare a parlare con te perché mi sembri una ragazza molto carina”.
Alla fine la ragazza gli detta il numero di telefono. La mossa più azzeccata per levarselo di torno. E A crede di avercela fatta. Non ha capito nulla. Ci saranno anche i grattacieli e le metropolitane su monorotaia, ma questo è l'oriente, non New York.
Una volta tornati al nostro edificio, A le invierà vari messaggi a cui lei risponderà con la solita cortesia. Ma ovviamente non riuscirà mai ad incontrarla.
Ne fa come al suo solito una questione d’orgoglio. E finirà per mandarle un paio di messaggi finali, dal tono definitivo. Molto aggressivi e permalosi. Come se fosse stata lei ad importunarlo.
Forse siamo tutti un po’ come A, o almeno forse lo sono io. Ma non tutti per proteggere il nostro orgoglio adottiamo le stesse tattiche. Io non riuscirei mai a ricevere un rifiuto continuando a credere di aver azzeccato tutte le mosse. Comincerei a trovare degli errori nel mio comportamento. Incolperei anche e soprattutto me stesso, non soltanto la ragazza.
Per questo mi metto al riparo lasciando quel freno a mano tirato per la maggior parte del tragitto.

lunedì 2 luglio 2007

Kuala Lumpur - Malesia, 02 luglio 2007

Come sembrano lontani i giorni di Kunming, trascorsi tra caffè e tempo da buttare, speculazioni su temi qualunque e passegiate notturne.
Sono venuto in Malesia per insegnare uno dei miei vecchi corsi. Anzi due. Uno diurno e uno serale. Quest’ultimo mi tiene impegnato fuori orario per due o tre sere alla settimana, nonché il sabato. Per fortuna mi pagano con due contratti separati.
Inevitabile, a consuntivo di due settimane trascorse a Kuala Lumpur, mettere a confronto le donne cinesi e quelle malesiane. Per farlo mi servirò degli occhi, e dei commenti, di qualcun altro.
Uno dei miei studenti è un iraniano di 44 anni, che da più di venti vive a New York.
Ha deciso di diventare un consulente, per questo segue il corso. Il lavoro nel campo degli investimenti finanziari lo ha stancato. Un tran tran stressante. Svegliarsi nel cuore della notte per vedere che succede alla borsa di Londra. Poi tornare a letto, ma soltanto per qualche ora, fino che non apre quella di Singapore.
Sostiene di aver quasi perso la vista a causa delle ore trascorse a fissare i numerini che scorrono pedantemente sullo schermo di un computer. Cosa crederà di fare quando sarà diventato un consulente informatico?
A è uno che in campo sociale ci sa fare, come si suol dire. Una persona determinata, pronta a trovare soluzioni in fretta e a non fermarsi davanti alle prime difficoltà per raggiungere gli obiettivi che si prefigge.
Qualcuno gli ha spiegato che i consulenti senior impegnati in progetti internazionali guadagnano svariate centinaia di euro al giorno, che depositati nei loro conti Lussemburghesi dopo aver fatto un giro a Cipro, sono pure esentasse. E in più spese pagate, lusso, tempo libero. Vaglielo a spiegare che probabilmente sta parlando di qualche caso isolato.
Ricevuta l’illuminazione ha deciso di certificarsi e di proporsi immediatamente come consulente esperto. Ha un amico agente che gli fornisce i contatti e qualcun altro che provvede a munirlo di referenze, lettere di presentazione e interi paragrafi di curriculum. Ovviamente tutto falso.
Come dicevo è uno che ci sa fare. Uno, per dire, che non si ferma davanti alla prima barriera costituita da una segretaria, un portiere o un buttafuori che gli dicono di tornare più tardi. Uno che racconta storie, che ha sempre la risposta pronta. Un tipo anche generoso e simpatico, tutto sommato.
E che sicuramente, a differenza di me, non sa nemmeno che significato abbia la parola “timidezza”.
Pausa pranzo. In ascensore osservo due ragazze cinesi. Malesiane-cinesi. Carine, sexy, vestite bene. Del tipo che normalmente, causa timidezza, mi limito soltanto a osservare.
Arrivati al piano terra attraversiamo la lobby chiacchierando e usciamo dall’edificio per entrare nel forno umido del mezzogiorno equatoriale. “Scusami un attimo”, mi interrompe A. Con due passi rapidi raggiunge le due ragazze che stanno camminando proprio davanti a noi.
“Lavorate qui?”. Le ragazze rispondono ma sono evidentemente imbarazzate e assumono istintivamente un atteggiamento difensivo. Notate bene, “istintivamente”. Io mi farei probabilmente da parte, sempre che avessi trovato prima il coraggio di avvicinarle. A non si scompone e continua.
“Dove andate a mangiare? Noi siamo arrivati da poco e non conosciamo la città”. Col secondo tentativo ottiene la reazione più ovvia (cioè quella che soltanto ragionando a mente fredda mi sembra la più ovvia). Le ragazze sorridono, e cominciamo a chiacchierare. Pranziamo assieme. Torniamo all’edificio e ci salutiamo. Nessuno scambio di numeri di telefono. A è convinto che si tratti di una tattica vincente, che non mancherà di suscitare la loro curiosità. Io sono perplesso, non so se la sua scarsa dimestichezza con la società orientale giochi a suo vantaggio o meno. Se sono io quello che si comporta in base a un pregiudizio o se lui è un ingenuo un po’ presuntuoso che crede che tutto il mondo sia paese, cioè New York. Purtroppo finisco per dovermi dare ragione. E credetemi, in questi casi non ci tengo proprio.
A, dopo aver saltato brillantemente l’ostacolo della telefonista dell’azienda in cui lavorano le ragazze, è riuscito a lasciare un messaggio col suo numero di telefono. La più carina delle due, quella che lui aveva puntato, nonché la destinataria della sua nota, lo richiama. E per un paio di giorni A si illude che le sue sbandierate doti di psicologo abbiano fatto centro una volta ancora. E’ costretto a cambiare idea dopo tre o quattro scambi di sms.
La ragazza si dimostra sempre molto educata e a modo, ma non asseconda nemmeno una delle avance del mio studente. Il quale nel frattempo ha tentato qualsiasi cambio di modulo strategico, dal quattro-tre-tre, alla bi-zona, passando per il più moderno albero di natale. Le ha provate tutte quelle tecniche di cui si professa esperto. Una risposta breve, un po’ permalosa e avvelenata seguita da una ritirata apologetica. Poi un invito velatamente romantico e l’immediata battuta innocente a bilanciare.
Niente da fare. La ragazza ha una cena con i colleghi. “Facciamo un’altra volta?”. A la punzecchia e lei sparisce per un giorno. Lui ritorna docile come un agnello, ma la ragazza ha un impegno con alcuni familiari.
Io incontro per caso le ragazze un paio di volte, in un ristorante in cui vado spesso a pranzare. Mi invitano a sedermi con loro. I primi minuti trascorrono tra tra un paio di battute da mestierante e qualche silenzio imbarazzato (più che altro da parte mia). Poi loro cominciano a parlare in cinese e io mi sorprendo a intervalli regolari a contemplare sovrappensiero la skyline di Kuala Lumpur, o le fontane coi giochi d’acqua delle Torri Petronas. Alla fine attendo soltanto che loro si alzino per tornare al lavoro, così potrò estrarre dalla borsa il mio romanzo, ordinare un flat white con due biscottini, e godermi l’unico pomeriggio all’aria aperta della mia settimana malesiana. Meglio stare in compagnia silenziosa di se stessi a un tavolo da uno, che sentirsi soli e osservati, seduti a una tavolata di estranei. Suonerà come (e sarà pure) la consolazione di un “loser”, ma è esattamente così che mi sento in circostanze come queste.
Passiamo al secondo tentativo. Come dicevo il mio studente è una persona coriacea. Una sera A ed io siamo andati a mangiare un panino e bere un paio di birre dopo la fine della lezione. Nel disco-bar una banda di Tanzanesi suonava qualche famoso motivo in inglese e spagnolo. Era lunedì ma il locale era comunque pieno di gente giovane. A ha incontrato una ragazza di qui. Hanno ballato. Lui ci ha provato, lei gli ha dato corda, ma fino a un certo punto. Poi ha deciso di tornare a casa. A, memore del fallimento della tecnica utilizzata in precedenza, le ha chiesto il numero di telefono. Lei gli ha allungato un biglietto da visita, come avrebbe potuto fare un rappresentante di mobili da ufficio. A ha intascato il biglietto. Io avevo appena estratto dalla tasca dei pantaloni il pacchetto delle mie mentine preferite. Forti, verdi, piccole e piatte. La scatola è un rettangolino bianco, della dimensione di una carta di credito, soltanto un po’ più spessa. La ragazza mi porge le mani a conca, dove io faccio cadere un paio di mentine, e mi consegna con cortesia un suo biglietto da visita. Rimane un po’ sorpresa, con le mentine in mano, poi se le mette in bocca e mi sorride. Credeva che il bianco contenitore di plastica fosse il mio biglietto da visita.
Da queste parti hanno digerito a loro modo la ricetta occidentale del progresso. Persino un incontro in discoteca segue i dettami e i formalismi di un “meeting d’affari”.
A ha cercato inutilmente di contattare anche questa ragazza.
“Con questa vedrai che ci divertiremo. Assicurato, credimi”. Con l’uso della prima persona plurale probabilmente intendeva “io e lei”, non “io e te”.
La donna per un paio di volte ha fatto rispondere la segretaria o una collega dell’azienda in cui lavora. Ma abbiamo già detto che davanti a ostacoli del genere A non si arrende mai. Quando è riuscito finalmente a parlare con lei è cominciato il solito gioco del lavoro ai fianchi. Non i fianchi di lei, quelli di A. Mai una frase di troppo, mai un rifiuto netto. Giri di parole, appuntamenti annullati o rimandati, e tante tante scuse.
Ma non è finita qui. Entro la fine della prima settimana del corso, al centro commerciale delle Torri Petronas, A ci riprova. Avvicina una donna molto elegante. Camicetta bianca, scarpe di marca con tacchi alti, minuscola borsa del portatile, luccicanti monili e gioielli costosi. Pelle curata e liscia del color del Sahara, e capelli ondulati. A l’aggancia con la solita scusa dei pivelli appena sbarcati in città con la diligenza arrivata in mattinata. Alla ricerca di un saloon accogliente dove mangiare una bistecca alta tre dita e il miglior piatto di fagioli “in town”. Ma chi glielo fa fare a continuare così?
Pur di scrollarselo di dosso la donna fa di tutto per apparire cordiale e disposta a risentirlo.
E a tal proposito che cosa decide di fare? Ma ovvio: gli consegna un elegante biglietto da visita, di quelli con i caratteri luccicanti stampati in rilievo su un sottile cartoncino patinato. Firmato Cisco, project manager.
Per non essere fraintesa, rischiando invece di essere fraintesa due volte, ne consegna uno pure a me. Purtroppo in serata deve tornare a Singapore, bisognerà quindi rimandare l’immaginario seguito della storia a dopo il fine settimana. Ma è come se A l’avesse azzannata alla caviglia, e non la lascia andare facilmente. Si volta verso di me e mi rivolge un sorriso che sotto la maschera della sorpresa cerca soltanto di rosicchiare secondi. Nella mia mente lo immagino che mi dice: “Hai capito Fabi? Ma pensa te...”. Poi lo sento completare dal vivo la frase con uno squillante: “...Cisco!”. E mi continua a fissare mentre annuisce lentamente e in maniera studiata, con quel suo sorrisetto furbo e gli occhi strizzati a tre quarti. Io mi accorgo della tensione innaturale sulla pelle attorno alle mie labbra, mi specchio istintivamente tra me e me, e vedo chiaramente la mia faccetta da babbeo. Non solo non sono versato negli approcci di questo tipo, al centro commerciale. Ma non me la cavo nemmeno a posare come spalla per chi ci sa fare. Mi affretto a cancellare quel sorriso ebete dal mio volto, cambiando espressione. E in silenzio cerco di comunicare ad A che è meglio se si arrangia da sé.
Quando è convinto di aver lasciato un segno indelebile sulla memoria della donna, che con più di metà del corpo ormai già da un pezzo si è preparata a incamminarsi, si decide a lasciarla andare.
Dal lunedì seguente comincia la solita sequenza di tentativi che si susseguono con un grado sempre crescente di disperazione. E di delusioni scottanti. Dal progressivo deteriorarsi del tono usato negli sms, fino allo strappo finale. Mi riferisco ovviamente allo strappo del biglietto da visita, finito in pezzettini finissimi nell’elegante cestino delle immondizie che posa discreto in un angolo dell’appartamento executive in cui alloggia A, all’Ascot di Kuala Lumpur.
A questo punto A sbotta. All’inizio se la prende con i formalismi inutili. “Che sono ‘ste cazzate professionali? I biglietti da visita, le segretarie che rispondono al telefono, le maniere da bon-ton. Io vivo in America, so cosa significha comportarsi in maniera professionale. Tutte queste stronzate non hanno alcun senso se poi il fine ultimo è quello di evitare ipocritamente chi cerca di mettersi in contatto con te”. Infine si spinge anche oltre.
Si trova in un locale esclusivo all’interno di un lussuoso hotel. La sua mano entra accidentalmente in contatto con quella di una ragazza mentre entrambi stanno ballando. Questa si ritrae seccata e gli rivolge un’occhiataccia. “Ma che cazzo vuole questa? Siamo in una pista da ballo o no? Mica l’ho fatto apposta. E poi chi lo dice se sono stato io a urtarla o lei a urtare me?”. Ha ormai completamente perso l’ottimismo che accompagnava i suoi tentativi di socializzare con le ragazze malesiane durante la sua prima settimana a Kuala Lumpur.
In un certo senso lo capisco. Ho provato anch’io spesso lo stesso fastidio quando ad esempio una ragazza, soltanto perché il tuo sguardo ha incrociato il suo e vi si è soffermato per più dell’occasionale attimo, si è ritratta come se le si fosse parato davanti un grizzly arrapato. Rivolgendoti poi lo sguardo schifato di chi ha appena stretto la mano a un tizio che l’aveva prima immersa in un bidone di catarro. Ci si arrabbia, e spesso si resta pure senza parole, increduli e incapaci di pretendere almeno un civico rispetto.
La Malesia, se osservata attraverso il filtro della sua popolazione femminile, appare soltanto come una versione più sofisticata e falsamente progredita della Cina. Bisogna capire che, sia qui che lì, per comunicare un rifiuto non si dice mai chiaramente di no. Soltanto i metodi sono in apparenza diversi.
In Cina la rubrica telefonica si riempie ogni mese di decine di numeri. In Malesia è invece il portafoglio a gonfiarsi sotto la pressione di variopinti biglietti da visita. Gli uni e gli altri non porteranno nella maggior parte dei casi a stabilire alcuna relazione duratura. Sono soltanto una versione un po’ ipocrita di un messaggio d’addio.
Alla fine, quando si cercano di comprendere le dinamiche sociali di un posto alieno basta soltanto imparare a interpretare dei segnali. Purtroppo però, in questo compito apparentemente semplice, né dizionari né frasari vi saranno d’aiuto alcuno.

giovedì 14 giugno 2007

Kunming - Cina, 14 giugno 2007

Percorro nel silenzio il marciapiedi di Wen Lin Jie, mentre strada, cielo, e osteria ambulante, passano attraverso diverse gradazioni di grigio, sempre più chiare. Il marciapiedi è sporco, ci sono tutti i rifiuti, gli sputi e gli altri fluidi di un giorno e di una notte cinesi. Gli spazzini non sono ancora passati a pulirlo. E’ presto ancora, le sei e qualcosa, di mattina. Non sono uscito per una corsetta prima della colazione. Sto rientrando a casa. La mia giornata finisce qui, mentre comincia quella di chi si siede sugli sgabellini del ristorante ambulante per mangiare focacce e frittate cinesi.
Faccio spesso mattina, quando non ho nulla da fare il giorno dopo. Non che la notte la trascorra sempre facendo qualcosa di molto interessante. E’ più che altro una questione di atmosfera.
C’è però qualcosa di vagamente oltraggioso in questi rientri all’alba, o anche più tardi.
Passare di fianco a questo signore di mezza età, che prepara il fuoco e sistema un tavolino con tre sgabelli, su cui serve la colazione a chi si sveglia presto per andare a lavorare. Osservare dalla finestra della mia camera, mentre mi spoglio, gli anziani che fanno esercizio sulle rive del lago. Ascoltare poi, mentre sto già sdraiato a letto, il plotone di soldati che corrono, sbattendo la suola del destro e cantando un coretto. E il frastuono, come una cascata d’acqua modificata dal Doppler, di un carrello spinto da un venditore diretto al mercato. Sedato dal mantra ipnotico del megafono di un arrotino, che si intreccia alla voce metallica che annuncia la prossima fermata dell’autobus mattiniero.
Sarà il fatto di essere stato educato da genitori che, come tutta questa gente, si svegliano molto presto per andare a lavorare. Sarà. Ma devo ammetterlo, mi sento molto fortunato, e un po’ in colpa.

martedì 12 giugno 2007

Kunming - Cina, 12 giugno 2007

La storia tra A e J, la ragazza che gli procurava il lavoro da insegnante di inglese, ha avuto un seguito. Un triste seguito.
Riassunto delle puntate precedenti. J, quando già si frequentavano da un mese, svelò il suo segreto ad A. Ha un bimbo di tre anni. Il padre vive con lei. Lei non lo ama, e non ha accettato di sposarlo. Ha capito (e con che poteri di preveggenza!) che non era la persona giusta quando ancora era incinta. Decise comunque di tenere il bambino, ma non il fidanzato. Lui invece è pazzamente (aggettivo purtroppo estremamente appropriato) innamorato di lei. Ufficialmente vivono assieme per il bene del bambino. Perché cresca accanto ad entrambi i genitori. In pratica invece il bimbo è soltanto un pretesto. A volte sembra che del suo bene ai genitori non interessi poi molto. Già, pure a J, proprio lei che ha fatto di tutto per averlo. Soltanto a volte, è vero, ma purtroppo questa impressione la dà. Anche se, come cercherò di spiegare a breve, non è facile biasimarla.
Il motivo per cui hanno vissuto assieme tutti questi anni è quello di mantenere una specie di tregua. L’uomo, oltre ad essere innamorato, geloso e possessivo, è anche molto aggressivo e violento. Fino a che J se lo tiene in casa le esplosioni di rabbia di lui si limitano a qualche focosa sgridata e ad uno stressante interrogatorio, con l’aggiunta di un occasionale schiaffo, quando lei torna tardi la sera senza una spiegazione convincente.
La relazione tra J e A ha inevitabilmente fatto precipitare la situazione. J ha trascorso spesso la notte fuori casa. Molte volte lui non riusciva a rintracciarla nemmeno in ufficio, poichè J, essendo una dirigente, può assentarsi un po’ quando vuole senza problemi e senza spiegazioni.
In questi casi al suo ritorno allo schiaffo sono andati accodandosi spinte, pugni e mazzuolate varie. J ha provato a presentarsi alla polizia per spiegare la situazione, portando come prova i lividi sul volto o sul corpo. Gli altrimenti zelanti Ponzi Pilati della pubblica sicurezza cinese le hanno dato qualche generico consiglio, ma nulla più.
A spesso le ha offerto protezione invitandola a casa. Ma J, soprattutto a causa del bimbo, non può restare lontana dal suo appartamento troppo a lungo.
Per fortuna questa ragazza problemi di natura finanziaria almeno non ne ha. Ha deciso di affittare un nuovo alloggio e di trasferirvisi, ovviamente senza avvisare l’ex compagno.
Questa si è però rivelata soltanto una soluzione a breve termine. Il segugio infatti è riuscito a rintracciarla e l’ha convinta, con le buone e le cattive, a riprenderselo in casa. Inoltre è riuscito a procurarsi i numeri di telefono di A e dei colleghi di J, che ha cominciato a tempestare di domande indiscrete e di minacce.
Da questo punto in poi la vicenda è entrata in un loop in cui la stessa sequenza di eventi si ripete ad oltranza, saltando dalla fine di un ciclo all’inizio di quello successivo come un DVD rigato. Fino a che qualcuno non dà uno scossone al lettore.
J che sparisce per ore, l’ex che si lancia in una ricerca ossessiva, lei che torna la mattina campando scuse a cui lui non crede, lui che la riceve con pugni e calci, lei che cerca rifugio piangendo tra le braccia degli amici più fidati, lui che perserguita anche questi ultimi. A ripetizione, fino a che qualcuno dà finalmente lo scossone al lettore DVD, facendo uscire la storia dal loop, saltando un paio di scene incise sull’area del disco interessata dallo striscio.
Ecco lo scossone: un gruppo di ragazzi stranieri, capitanati da uno degli insegnanti della scuola di J, la raggiunge a casa, fa cerchio attorno a lei e costringe l’ex a farla finita e a cercarsi un altro alloggio. A saggiamente non è stato invitato. L’ex protesta ma alla fine cede. Poi ritorna, con un gruppo di amici cinesi. Sale la tensione. Se fossimo in Thailandia sarebbe già scoppiata la rissa.
Compaiono dei poliziotti. Costringono il gruppo di stranieri ad allontanarsi. Ma i cinesi sono misteriosamente autorizzati a restare. J decide si seguire i poliziotti fino alla stazione. L’ex e i suoi amici si accodano. Si accampano tutti al commissariato per alcune ore. I Ponzi Pilati cercano nuovamente di lavarsi le mani ma J questa volta non cede, e telefona anche ad un avvocato. Alla fine si giunge ad un accordo. Il ragazzo può restare nell’appartamento di J per un altro mese (chissà perché), poi dovrà andarsene, pena l’intervento delle autorità.
Il mese non è ancora trascorso. La situazione è in fase di stallo. L’ex se ne andrà senza sferrare alcun colpo di coda? Dopo aver combattuto come un leone per tutti questi anni? Tic, tic, tic, i giorni passano come i secondi di un conto alla rovescia. Presto si arriverà alla resa dei conti. Ma io e A, quando il timer segnerà lo 00.00.00, non saremo più a Kunming.


venerdì 25 maggio 2007

Guangzhou - Cina, 25 maggio 2007

Il posto che preferisco per trascorrere i pomeriggi a Guangzhou, in compagnia di un libro o del computer, è senza dubbio Shamian. Un isolotto a ridosso della sponda settentrionale del fiume delle perle. E’ come l’estensione di un’ampia ansa. Mi ricorda un po’ Gulang yu a Xiamen. Entrambe sono delle isole. Entrambe hanno un’atmosfera rilassata e coloniale. Soltanto biciclette e pedoni percorrono le deliziose stradine alberate. Ai lati bei ristoranti e caffè. E numerosi edifici antichi che hanno ospitato in passato consolati stranieri o sedi di banche e grandi corporation occidentali.
A Shamian oltre ai turisti che passeggiano e ai residenti che fanno jogging si incontrano in questo periodo numerose coppie di stranieri che spingono passeggini sui quali stanno seduti tranquilli, e spesso un po’ confusi, bambini e bambine cinesi.
Ho pensato subito a dei casi di adozione.
Il mio sospetto viene confermato quando una delle ragazze che lavorano nei negozi di souvenir mi ferma una sera per fare quattro chiacchiere. Non cerca nemmeno di vendermi qualcosa. In un ottimo inglese mi spiega che il negozio chiuderà a breve, e che non ha più voglia di lavorare. Aspetta soltanto l’orario di chiusura e si annoia un po’. Le chiedo come mai ci sono in giro tanti stranieri con bambini cinesi. Mi risponde che le pratiche di adozione dei bambini, provenienti da svariate province del paese, vengono tutte sbrigate qui a Guangzhou.
L’ufficio competente si occupa di un gruppo di famiglie per volta. Le invita tutte assieme e le fa alloggiare nello stesso hotel il tempo necessario per incontrare i bimbi e per portare a termine l’iter burocratico.
Le coppie che attualmente scorrazzano per le stradine di Shamian con i bambini da adottare alloggiano appunto tutte in un hotel dell’isola. I bimbi sembrano sempre tranquilli, non parlano l’inglese e i genitori adottivi hanno imparato qualche semplice frase in cinese per comunicare con loro.
Li ho osservati spesso mentre, in un mandarino un po’ stentato, li invitano a scendere dal passeggino e camminare, o domandano loro se hanno fame.
Dico alla ragazza che sto andando al Seven/Eleven a comprarmi qualcosa da bere. Lei mi saluta. Poi, quando ho già percorso una decina di metri, mi chiama. Mi giro, e lei sorridendo mi chiede di comprarle un gelato.
“Un gelato?”.
“Sì, alla vaniglia!”.
Forse non voleva soltanto chiacchierare. Ma un cornetto alla vaniglia non è un prezzo elevato per la curiosità che mi ha tolto.
Cornetto “Walls”: la multinazionale che si è comprata l’azienda italiana ha aggiunto il suo marchio ma saggiamente ha deciso di non cambiare il nome al famoso gelato.



mercoledì 23 maggio 2007

Guangzhou - Cina, 23 maggio 2007

Anche voi, come me, vi sorprendete spesso ad osservare a lungo alcune giovani donne? Quel tipo relativamente nuovo, al passo con i tempi.
Già, perché succede qui in Cina, a Bangkok, a Singapore. Ma mi risulta che la stessa scena la si possa osservare anche a Roma o a Londra.
Catturano il vostro sguardo quando escono dall’ufficio, e lo portano a spasso camminando affrettate e stanche verso la fermata della metropolitana, o verso il parcheggio.
Hanno un computer portatile che tengono in una borsa nera e sottile. Non la portano mai a tracolla. Stringono la maniglia con il pugno sciolto. Con il braccio sinistro teso e il gomito piegato verso l’interno. Il collo è inclinato nella direzione opposta, per fare da contrappeso, con i capelli ondulati che nascondono uno spicchio di volto. Spesso il telefonino è appoggiato all’orecchio destro, e vi discutono dentro i piani per la cena o il fine settimana.
I pantaloni o la gonna del teilleur lasciano trasparire le belle forme che seguono delle traiettorie vagamente rotonde al ritmo del passo svelto.
E voi le seguite facendo finta di niente, scordando le vostre tattiche un po’ subdole ipnotizzati dal ticchettio dei loro tacchetti.
Vorrei fare lo snob, l’anticonformista, il conservatore. Vorrei dichiarare la mia preferenza ed esaltare la bellezza delle ragazze semplici e meno moderne. Vorrei ma non ci riesco.
Il fascino che le donne esercitano su di me, al contrario di molti altri miei istinti, è flessibile, si adatta al cambiamento, corre al passo con i tempi e la globalizzazione. Va a braccetto o addirittura precorre le nuove tendenze.
Mi piacciono anche così. Moderne e accessoriate. Civette e proiettate verso il futuro, che forse immaginano diverso da quel che alla fine sarà.

lunedì 7 maggio 2007

Hua Hin - Thailandia, 07 maggio 2007

Il traghetto scivola senza rollio né beccheggio dall’isola di Koh Samui a Surat Thani. Ci troviamo nel profondo del golfo Siamese.

La barca rallenta. Sollevo la schiena appiccicosa dal sedile in finto velluto. Dal ventilatore giapponese si sviluppa l’unico cono in cui mi sono riuscito a rifugiare per sfuggire alle fauci di questo forno tropicale. Un’afa snervante. Nemmeno sul vasto ponte si riesce a trovare il sollievo di una brezza di crocera.

Il pilota manovra facendo percorrere allo scafo delle lente mezzelune di avvicinamento al legno del molo.

Una colonna di pneumatici riveste una delle travi della struttura. La gomma è sgualcita e ridotta a brandelli in vari punti. Sicuramente i copertoni vengono sostituiti con regolarità. Non riesco però a immaginare come, dal momento che il telaio in legno non fornisce vie di fuga.

Assieme ad altri passeggeri osservo dal parapetto la complessa manovra di avvicinamento. Calcolo a spanne la lunghezza dello scafo. Saranno circa quaranta metri.

La parete arrugginita del traghetto si adagia sul più malmesso dei pneumatici. La gomma viene compressa, spremuta e poi stirata. Alcuni frammenti di staccano e precipitano muti tra le piccole onde.

Facendo perno sulla colonna di legno e copertoni il traghetto si mette in linea col molo e approda. Si abbassa il portellone e le prime auto cominciano ad uscire. Sul pontile un blocco di juta e terriccio sbuffa nuvolette di polvere al passaggio di ogni veicolo. Tutto riflette il grigio del cielo. Le nuvole che lo affollano da una decina di minuti non alleviano le morse del calore.

Borse in spalla traballo sulla passarella, attraverso il pontile che cigola e percorro il corridoio coperto che ci porta al piazzale in cui risaliremo sull’autobus partito da Samui.

Passo dopo passo, senza volare, percorro a ritroso la penisola sud-est asiatica. Samui-Surat, Surat-Hua Hin, Hua Hin-Bangkok. Zig-zagando tra pomeriggio, palme, notte e baracche. Con l’acqua e la polvere sotto le scarpe. Il viaggio è noia, il viaggio è nuova linfa vitale.

mercoledì 4 aprile 2007

Inglese in Cina - Kunming, Cina

Mi sto dedicando ad uno dei miei passatempi preferiti.
Sono seduto ad un tavolo di un localino francese. Una tazza di caffè dello Yunnan e qualcosa da mangiucchiare davanti a me. Le mani su di un libro, il diario o il computer. In questi ultimi tempi il tardo pomeriggio scorre spesso a questo modo verso la fresca sera di Kunming. Non durerà per sempre, ma finché dura non mi posso lamentare.
Attorno ad uno dei tavoli vicino al mio c’è un gruppo di giovani cinesi. Alcuni fumano, altri si abbracciano, una coppia si apparta in un angolo un po’ lontano per sussurrare qualcosa che gli amici non devono sentire.
Tre ragazze si voltano spesso per rivolgermi un’occhiata incuriosita. Sono stato in Cina abbastanza a lungo da imparare a non sentirmi troppo lusingato per questo genere di attenzioni.

E’ passata un’ora da quando sto qui, e i ragazzi sono sempre allo stesso tavolo.
Le tre ragazze che mi osservano si riuniscono e parlottano per un po’. Seguo la scena con la coda dell’occhio. Ad un certo punto una di loro si fa coraggio e si avvicina al mio tavolo. Mi chiede di dove sono. Mi spiega che la sua insegnante di inglese le consiglia spesso di fare pratica con degli stranieri, e che vorrebbe chiacchierare un po’ con me. In meno di un minuto le sue amiche l’hanno raggiunta e mi rivolgono dei sorrisi un po’ imbarazzati. Io le invito a sedersi.

Hanno tutte meno di vent’anni, frequentano le scuole superiori e non sono mai state all’estero. Una di loro continua a strofinarsi le mani e mi confida di essere molto nervosa. E’ solo la seconda volta che parla con un occidentale. Per le sue due amiche è invece la prima in assoluto.
Questo genere di incontri, che mi capitano spesso, in Cina ma anche in altri paesi dell’area, non finiscono mai di stupirmi e farmi riflettere. L’inglese di queste ragazze, considerata la loro età e le altre condizioni al contorno, è di livello sorprendentemente elevato. Fanno qualche errore di grammatica, ma utilizzano delle forme e delle strutture piuttosto complesse. Il loro vocabolario è molto ampio e la loro pronuncia è spesso accurata e piacevole da ascoltare.
Non frequentano una scuola internazionale o privata e non vanno a lezioni di ripetizione.

Non si può certo affermare che in questo paese il livello della conoscenza dell’inglese, considerando la totalità dell’enorme popolazione, sia ottimo. Anzi tutt’altro. La maggioranza della popolazione delle aree rurali e in generale quella al di sopra dei trent’anni l’inglese non lo parla affatto.
Ma tra le generazioni giovani e giovanissime, in particolar modo quelle delle città medie e grandi, il livello è soddisfacente e in continua crescita.
Ogni scuola (statale) assume degli insegnanti madrelingua che affiancano quelli cinesi durante le lezioni dedicate alla conversazione. E ovviamente le famiglie più abbienti mandano i loro figli a seguire lezioni private presso scuole di lingua.
Ogni settimana la TV (pubblica) trasmette qualche film straniero in lingua originale con i sottotitoli in cinese.
E le bacheche dei caffè e delle università abbondano di inserzioni per la ricerca di partner per scambio linguistico.

Nonostante le reali difficoltà che il visitatore straniero incontra quando cerca di comunicare con la popolazione locale, è evidente la grande importanza che le istituzioni e la società cinesi danno all’apprendimento dell’inglese.
E i giovani cinesi delle classi medie sono consapevoli delle opportunità che si affacciano all’orizzonte di chi parla l’inglese in maniera soddisfacente.

In Italia chi parla bene l’inglese lo ha imparato quasi sempre all’estero, a proprie spese e seguendo una strategia elaborata autonomamente. Pochi aiuti vengono dati agli studenti che vogliono imparare seriamente una lingua straniera.

Lo strumento più importante degli ultimi 15-20 anni è stato sicuramente l’Erasmus, o qualche altro programma simile. Alcuni studenti universitari, selezionati tra quelli che fanno apposita domanda, possono frequentare un semestre o un anno accademico presso un’università straniera. Una parte delle spese viene rimborsata e gli esami sostenuti all’estero vengono generalmente riconosciuti una volta ritornati in sede. Va sottolineato che questo programma è frutto di accordi stipulati in sede comunitaria e non di un’iniziativa del governo italiano.

Non tutti durante l’Erasmus imparano la lingua inglese, di certo non chi va a studiare in Francia o in Spagna. Ma soprattutto non tutti possono avere accesso al programma.
Gli altri devono accontentarsi di lezioni di letteratura inglese alle scuole superiori, tenute spesso in lingua italiana. O di un poco utile corso in un’aula universitaria affollata, in cui si impara a malapena qualche termine e un po’ di grammatica. Senza la minima possibilità di apprendere ciò che più conta. Gli strumenti più importanti della comunicazione: la comprensione e la scorrevolezza nella lingua parlata.
Chi vuole andare oltre questa inutile perdita di tempo impara l’inglese vivendo in qualche angusto appartamentino londinese. Guadagnandosi il soldi per pagare il costosissimo affitto friggendo patatine al Mc Donald’s o lavando i piatti in un ristorante italiano.

Ci sarebbero altre possibilità. Il governo australiano ad esempio offre l’opportunità ai cittadini di alcuni paesi di ottenere visti vacanza-lavoro di un anno. Essendo questo programma frutto di accordi bilaterali tra l’Australia e ognuno degli altri paesi coinvolti, il numero dei visti rilasciati ogni anno è variabile e dipende tra le altre cose dalle opportunità offerte in cambio ai cittadini australiani. Il governo italiano per anni non ha dato grande importanza a questa relazione e il governo australiano ha riservato spesso un numero limitato di posti ai cittadini del nostro paese, sospendendo pure il programma di collaborazione con l’Italia per lunghi periodi.

Di certo non tutte le soluzioni adottate da altri stati per agevolare l’apprendimento dell’inglese possono essere applicate in Italia. Difficilmente il Ministero dell’istruzione potrà promuovere l’assunzione di insegnanti madrelingua da collocare nelle nostre scuole pubbliche. E si può soltanto immaginare l’insurrezione popolare che si avrebbe in caso i film stranieri venissero trasmessi in lingua originale con i sottotitoli in inglese.
Ma sicuramente un gruppo che si sedesse attorno ad un tavolo con l’intenzione seria di migliorare la situazione potrebbe proporre qualche soluzione a basso costo e senza impatti sociali particolarmente negativi.

Qualche suggerimento. Un programma rivolto a volontari madrelingua - che vogliono imparare l’italiano e vivere un’esperienza in Italia - che potrebbero lavorare per qualche ora alla settimana nelle scuole pubbliche italiane.
Uno o due film alla settimana in lingua originale, con i sottotitoli in italiano, se non in inglese. Magari non in prima serata, ma in seconda o terza. O anche di pomeriggio.
E poi dei programmi per l’agevolazione degli scambi linguistici.

Insomma gli strumenti non mancano. Quel che manca è l’impegno serio delle istituzioni e delle varie componenti sociali.
E c’è forse qualcosa di ancor più grave. La mancata consapevolezza che senza saper parlare l’inglese i nostri giovani si troveranno sempre più in una posizione di svantaggio competitivo. E il timore infondato che la diffusione della conoscenza dell’inglese possa avere qualche effetto negativo sul patrimonio culturale italiano. Come se tale patrimonio non fosse invece già messo a repentaglio da altre, più pericolose, minacce endemiche.

Le mie tre amiche si sono scrollate di dosso imbarazzo ed emozione.
Mi chiedono di dare ad ognuna di loro un nome italiano. Facendo riferimento al loro nome cinese o a quello inglese (che spesso utilizzano quando hanno a che fare con gli stranieri), le chiamo Caterina, Monica e Giovanna.
Durante la conversazione rivelo loro qualcosa che le sbalordisce. Confesso che quando avevo la loro età il mio inglese era molto peggio del loro. Così come quello della quasi totalità dei teenagers italiani.
Non ci credono. Esclamano sbalordite: “Ma come, non è possibile, in Italia?”.
Già, in Italia. Da culla della mafia a modello da imitare. Da archetipo del malgoverno a esempio di stile. Penso alle idee completamente diverse che la gente nel mondo si fa del nostro paese, e mi scappa un sorriso.
La moda, le auto sportive, la cucina di casa nostra e i successi del calcio tengono alta la bandiera. Perlomeno la buona reputazione che godiamo da queste parti (pur non essendo sempre giustificata), ha saputo finora resistere all'effetto dei mali tipici italiani. Ma per quanto potrà ancora durare?