domenica 8 luglio 2007

Kuala Lumpur - Malesia, 08 luglio 2007

Ancora sulle donne malesiane. E ancora sul mio studente iraniano-americano.
A ogni tanto sfodera dei numeri di alta scuola, che poi rovina con dei gesti dettati da quell’arroganza tipica dell’ambiente che frequenta.
Pranziamo al centro commerciale ai piedi delle Torri. Poi, prima di tornare in classe, facciamo quattro passi. Quando siamo sulle scale mobili noto una bella ragazza. Anche lei scende le scale, poco dietro a noi. La osservo sapendo bene che - come sempre - mi limiterò soltanto ad osservarla. La mia timidezza, un freno a mano tirato spesso sulle mie manovre sociali, non mi permetterà di tentare alcuna mossa d’approccio. Di certo non in queste circostanze. Se fossimo in un bar, forse. Qui di sicuro no. Me ne rendo conto e ci speculo soltando ora. Sul momento non ci faccio nemmeno caso. E’ una cosa che do per scontata.
A invece si ferma ai piedi delle scale mobili e attende. Quando la ragazza ci raggiunge lui le sorride e le chiede una stupidaggine qualsiasi, del tipo: “ Sapresti indicarmi l’uscita più vicina?”.
La ragazza si ferma, sorride, pensa, gira un paio di volte attorno ad un asse fisso. Prima in un verso, poi nell’altro. Sembra un po’ confusa. Poi indica qualcosa, in maniera non molto convinta. Muove due passi insicuri. A sorride, prima la segue e poi, continuando a camminare con passo deciso e distraendola dicendo qualcosa, la convince ad incamminarsi assieme a noi.
“Ma davvero non sai trovare l’uscita? Ma sei sicura di essere di qui? Di Kuala Lumpur?”. E ride. La ragazza sorride imbarazzata e si difende. Certo che è di qui.
Arrivati nei pressi di un’uscita la ragazza si ferma e la indica con sollievo, certa di essere finalmente riuscita a liberarsi di noi. Cioè di A, io sinceramente non l’ho disturbata affatto.
Invece A non molla. Ovviamente non molla. Mica era interessato a trovare l’uscita. Solo uno come me si arrenderebbe proprio ora, sempre che fossi riuscito ad arrivare fino a questo punto.
Inizia cercando di metterla a proprio agio.
“Ma lavori qui per caso? Cioè qui a KLCC?”.
La ragazza non si aspettava questo approccio insistito. E’ decisamente sotto shock. Non riesce nemmeno a trovare le parole per una risposta così semplice. Credo di ricordare che abbia persino cominciato a balbettare.
“Non è che ti andrebbe di bere qualcosa con me stasera? O qualche altra volta?”.
A utilizza un tono molto rilassato e suadente. Non lascia mai andare la presa su quel suo sorriso ruffiano. Parla lentamente, ma senza pause troppo lunghe. Spinge le vocali in avanti e verso l’alto, lungo una traiettoria iperbolica. Una tecnica rassicurante. In avanti e verso l’alto è una direzione che tende sempre a rassicurare. Io almeno sarei rassicurato.
Ma la ragazza no. E’ imbarazzata al punto dell’imbambolamento.
“Se vuoi puoi darmi il tuo numero di telefono”. E il cellulare sta già tra le sue dita, pronto per l’inserimento delle cifre.
La ragazza non risponde nemmeno più alle sue domande. Respira a fondo. Il suo petto si muove vistosamente dal basso verso l’alto. Guarda dappertutto, pur di evitare lo sguardo di A. La sua testa si muove a scatti, a destra e a sinistra, come quella di un gufo. Ci manca solo che la palpebra a tendina si abbassi su uno di quei suoi begli occhietti neri.
A la incalza. Ma sempre con un certo tatto. Devo ammettere che ci sa proprio fare. Non riuscirei nemmeno ad immaginare un modo di fare o delle frasi migliori di quelle che sta utilizzando lui.
Lei mi guarda. E mi rivolge un sorriso che è più che altro una supplica. Come se io fossi un amico o un familiare che può aiutarla in questo impiccio. Io le faccio capire che non deve guardare me, e che può rispondere come meglio crede alle proposte di A.
A ora gioca a carte scoperte.
“Io in realtà sapevo benissimo dov’era l’uscita. Volevo solo provare a parlare con te perché mi sembri una ragazza molto carina”.
Alla fine la ragazza gli detta il numero di telefono. La mossa più azzeccata per levarselo di torno. E A crede di avercela fatta. Non ha capito nulla. Ci saranno anche i grattacieli e le metropolitane su monorotaia, ma questo è l'oriente, non New York.
Una volta tornati al nostro edificio, A le invierà vari messaggi a cui lei risponderà con la solita cortesia. Ma ovviamente non riuscirà mai ad incontrarla.
Ne fa come al suo solito una questione d’orgoglio. E finirà per mandarle un paio di messaggi finali, dal tono definitivo. Molto aggressivi e permalosi. Come se fosse stata lei ad importunarlo.
Forse siamo tutti un po’ come A, o almeno forse lo sono io. Ma non tutti per proteggere il nostro orgoglio adottiamo le stesse tattiche. Io non riuscirei mai a ricevere un rifiuto continuando a credere di aver azzeccato tutte le mosse. Comincerei a trovare degli errori nel mio comportamento. Incolperei anche e soprattutto me stesso, non soltanto la ragazza.
Per questo mi metto al riparo lasciando quel freno a mano tirato per la maggior parte del tragitto.

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