lunedì 28 novembre 2005

Unità 731: Cina e Giappone ai ferri corti - Harbin, Cina

Harbin, una notte di treno da Pechino, si trova al centro di quella testa di cane che la Cina è riuscita ad infilare tra Siberia, Mongolia e Corea del Nord.

Alla fine del 19° secolo la Russia zarista ottenne il permesso per la costruzione di una ferrovia che collegasse Vladivostok con Dalian, via Harbin. Arrivò così in città la prima ondata di cittadini russi. Altri ne arrivarono nei primi decenni del ‘900 per sfuggire ai turbolenti eventi che infuriavano nella madrepatria. Non solo gli operai impegnati nella costruzione della ferrovia quindi, ma anche imprenditori, banchieri e ristoratori.

I russi che si incontrano oggi nelle vie del centro sono principalmente turisti o uomini d’affari di passaggio. Ma l’impronta lasciata da quell’esodo sull’architettura e gli usi in città è evidente.

La via principale è costeggiata dai begli edifici in stile che ospitavano le banche, gli alberghi e i ristoranti degli emigranti russi, molti dei quali erano ebrei. Alla fine del viale, a ovest dell’insolito monumento al controllo delle inondazioni, i cittadini possono passeggiare tra gli alberi e le statue del parco Stalin. Ad ogni angolo della città è poi sempre possibile rifocillarsi con numerose e succulente varietà di salsicce, anch’esse un’eredità dell’epoca russa.

Oltre ai palazzi e alle specialità culinarie anche le temperature qui ricordano quelle delle città siberiane. E per celebrare l’inverno la città si veste di ghiaccio. Durante il Festival delle Lanterne gli harbinesi festeggiano innalzando complesse costruzioni di ghiaccio sulla sponda del fiume, giocano a hockey o si esibiscono nelle forme del pattinaggio artistico. Ogni attività ha luogo all’aperto. Persino nella più celebre discoteca della città la pista da ballo è in realtà una pista da pattinaggio sul ghiaccio.

Ghiaccio, ghiaccio e ancora ghiaccio.

Quando se n’è avuto abbastanza, per sfuggire ai morsi del freddo ci si può rifugiare nel Cafe Russia 1914, un locale che compensa l’autenticità perduta con un ambiente caldo e accogliente e deliziose specialità russe.

Uscendo invece dal centro cittadino, per un cambio brutale di atmosfera, la visita alla base giapponese per gli esperimenti di guerra batteriologica (Unità 731) è un’opportunità da non lasciarsi sfuggire.

Dopo l’invasione giapponese della Manciuria, nel 1931 il Maggiore medico Shiro Ishii decise di spostare il laboratorio che dirigeva a Tokyo in una località tranquilla della provincia di Harbin. Ufficialmente l’intento era quello di prevenire disastri batteriologici nella capitale dell’impero, in pratica però era quello di disporre di cavie umane per gli esperimenti del centro.

Per più di dieci anni prigionieri nemici cinesi e stranieri vennero utilizzati in esperimenti effettuati con i germi della peste bubbonica, della tubercolosi, dell’antrace, del colera e molti altri, con cui venivano messi a contatto tramite iniezione, ingerimento o impianto su ferite. La vasta disponibilità di soggetti permise ai ricercatori di effettuare ulteriori test di resistenza al calore, alla disidratazione, all’impiccagione a testa in giù, all’elettroshock, all’amputazione e al congelamento.

Muovendosi tra le esibizioni fotografiche, le descrizioni del museo e i resti degli edifici (fatti saltare dai giapponesi prima della ritirata del ’45) la mente di un occidentale va inesorabilmente a frugare tra gli archivi della memoria dedicati ai campi di sterminio nazisti. Il crudele pragmatismo degli inceneritori per le salme e l’impietosa efficienza degli impianti per l’erogazione di energia o delle camere per l’allevamento delle cavie animali, ricordano le strutture dei campi di Dachau o Aushwitz.

La Base non è soltanto uno strumento per ricordare gli errori del passato ma si collega al tema attualissimo delle manifestazioni studentesche contro l’atteggiamento revisionista del governo giapponese. Nelle sale del museo le didascalie delle foto e le descrizioni contengono spesso delle frecciate velenose all’indirizzo del governo giapponese.

Nelle piazze di Pechino migliaia di cinesi si sono recentemente uniti per protestare – anche violentemente – contro la decisione del Ministero dell’Istruzione giapponese di emendare i capitoli dei libri scolastici dedicati agli orrori dell’occupazione del continente asiatico. Tra i bersagli delle dimostrazioni vi erano anche le frequenti visite ufficiali di membri del governo giapponese alle tombe di noti criminali di guerra.

Di cinesi che si esprimono senza alcuna remora dichiarando di non avere alcuna simpatia per il Giappone e per le sue istituzioni se ne incontrano ovunque. Ma cosa pensano a questo proposito i numerosi giapponesi che vivono, lavorano o studiano in Cina? Tatsuya, un trentenne incontrato a Shanghai, parla di una situazione molto imbarazzante. La comunità giapponese in città è formata da decine di migliaia di individui che nella maggior parte dei casi non gradiscono prese di posizione o azioni del governo di Tokyo che possano mettere a rischio la loro incolumità o anche soltanto il loro quieto vivere in Cina.

Al di là delle motivazioni ufficiali per le recenti manifestazioni, il sospetto è che il traballante presente delle relazioni tra i due paesi si poggi sulle sabbie mobili dei risentimenti cinesi e della voglia dei giapponesi di lavarsi la coscienza da un lato, e della rivalità per il predominio continentale dall’altro. Non molto tempo fa infatti Cina e Giappone si erano già dati battaglia per accaparrarsi i diritti a godere delle forniture di petrolio provenienti dalla Russia.

Il movimento studentesco del 2005 ha poco a che fare con quello di Tiananmen ’89. Il governo cinese formato dagli “ingegneri” del nuovo millennio sembra aver deciso di adottare una pratica che in Cina risale ai tempi di Mao e della rivoluzione culturale, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70: quella della manipolazione delle Università e dei movimenti studenteschi. I libretti con le citazioni di Mao esposti oggigiorno nelle librerie e nelle bancarelle che affollano i marciapiedi di ogni città del paese rimandano a un’epoca che gran parte dei cinesi vuole dimenticare. Tempi in cui quei libretti rossi venivano sventolati da giovani con le braccia fasciate da nastri dello stesso colore, anni segnati da repressione e violenza, profanazioni di templi ed espropri, pratiche crudeli di rieducazione e torture.

Al giorno d’oggi i due paesi per sopravvivere e prosperare hanno bisogno uno dell’altro. La speranza è che entrambi i popoli e i rispettivi governi abbiano imparato qualcosa dagli errori commessi da chi li ha preceduti.

mercoledì 23 novembre 2005

798: Pechino d'arte. Pechino - Cina, 23 novembre 2005

Il visitatore che fa affidamento sulle guide pubblicate dalle più importanti case editrici internazionali è indotto a credere che le migliori esposizioni d’arte di Pechino vengano organizzate presso la China Art Gallery, una moderna struttura nel pieno centro cittadino. La galleria però ospita attualmente soltanto una serie infinita – e un po’ noiosa – di esposizioni di calligrafia cinese contemporanea.

Per andare alla scoperta delle nuove correnti artistiche e delle migliori esibizioni di pittura, scultura e fotografia della capitale, seguiamo invece il consiglio di E., un poeta africano che vive a Pechino. Secondo lui il posto giusto è 798, dove si concentrano alcune tra le migliori gallerie del paese.

798 è un complesso di fabbriche e vecchi magazzini, scomodamente sistemato in un’area remota e piuttosto squallida della periferia pechinese. Gli edifici sono stati ristrutturati e convertiti in gallerie d’arte gestite sia da cinesi che da stranieri. Le sale sono degli spaziosi monovolumi in cui scalette in acciaio si arrampicano lungo le pareti verso soppalchi anch’essi in metallo. Locali che assomigliano a dei loft, in cui vengono esposti quadri, sculture, composizioni e gallerie fotografiche dei migliori artisti cinesi degli ultimi anni.

Vengono dalla Cina, ma anche dalle numerose Chinatowns sparse per il mondo. Espongono opere di ogni tipo.

Quadri di gusto discutibile come una rivisitazione in chiave lesbica della scena della crocifissione. Foto ad effetto come quella di una schiena tatuata con un’enorme mappa della Cina. O l’immagine di un corpo femminile su cui, per mezzo dei frammenti rossi della corazza di un crostaceo, l’artista ha riprodotto un finto squartamento.

Galleria Continua, una filiale della omonima galleria di San Gimignano, ospita una esibizione restrospettiva di Chen Zhen.

Alcune delle sue “installazioni” mettono in relazione l’uomo e i suoi oggetti con gli elementi della natura. Negli scaffali di una libreria sono stati inseriti dei quotidiani carbonizzati. Alcuni oggetti di modernariato sono stati invece immersi in vaschette piene d’aqua. Infine, una stanza con tutti i suoi mobili e suppellettili è stata interamente ricoperta di fango. E’ il circolo vizioso innescato dall’uomo che destabilizza l’equilibrio della natura con il suo irrefrenabile impulso al materialismo, subendone poi gli inevitabili effetti negativi.

La Long March Space esibisce la riproduzione in acciaio inox di un asteroide ritrovato lungo il percorso della lunga marcia comunista. L’artista Zhan Wang spiega ironicamente la sua intenzione di caricarlo in un razzo che lo porti nello spazio, a completamento del circolo “Spazio-lunga marcia-spazio”, nel quadro di un glorioso piano per una “Nuova Lunga marcia”.

Altre opere giocano invece con tradizioni e antiche credenze. Chen Zhen lo fa mettendole in relazione con alcuni tratti della cultura occidentale cercando di trovare un punto di incontro tra gli organi della nostra anatomia e l’idea del Qi alla base della medicina cinese. Guo Fengy ci mostra invece un corpo umano attraversato dai percorsi complicatissimi delle linee dell’energia, i principi fondamentali della medicina tradizionale e delle tecniche di massaggio.

Ci sono poi alcuni lavori a sfondo storico. Un mosaico di bellissime foto in bianco e nero della rivoluzione è racchiuso dalla sagoma del busto di Mao. Nella stessa sala alcune statuette rappresentano donne rivoluzionare con lo sguardo fiero e il fucile in mano, che si librano in eleganti figure di danza classica.

Si passa quindi ad una provocatoria galleria fotografica in cui vengono esposte le foto di via Qianmen. Una strada che prima della rivoluzione comunista era un’elegante area commerciale, dove i pechinesi potevano trovare i negozi più lussuosi o rilassarsi in eleganti cortili. Le foto mostrano invece le misere condizioni degli abitanti di oggi, che si trascinano o si sdraiano tra il degrado di quest’area dimenticata che, come spiega l’artista, “se ne sta come un’isola solitaria nel mare della città moderna”.

Per terminare la visita a 798 è possibile passeggiare tra le aule di una scuola d’arte in cui giovani studenti si esercitano utilizzando modelli cinesi o copie di opere dell’epoca classica occidentale. Li potete osservare mentre si impegnano sui loro esercizi, in freddi uffici di epoca maoista illuminati dalla luce ghiacciata del neon, con le pareti tappezzate dai loro lavori, in angoli impolverati dove si ammassano cavalletti, radioline, sgabelli, e qualche bottiglia di whisky. Scorci di un contrasto affascinante tra squallore e creatività.

E., il poeta africano, spiega che ogni tanto a 798 può capitare di imbattersi in qualche opera che critica il regime, sempre però in modo molto sottile.

Ma qual’è l’atteggiamento del cittadino ordinario nei confronti della politica? Nelle classi in cui insegna l’inglese E. prova spesso ad affrontare temi delicati come quello di Tiananmen ’89. Gli studenti ricordano bene quei drammatici momenti ma attribuiscono al movimento studentesco l’intenzione esplicita di rovesciare il governo. E. li corregge, spiega loro che quegli studenti disarmati volevano soltanto esprimere la loro insoddisfazione. Chiedevano più libertà, riforme che potessero dare vita ad una svolta democratica. Non si trattava di un colpo di stato.

I suoi interlocutori scrollano le spalle e si esaltano invece ricordando le manifestazioni di carattere nazionalista che altri studenti hanno inscenato quest’anno contro l’atteggiamento revisionista del governo giapponese, reo di voler cancellare dai libri scolastici le pagine infamanti sull’occupazione della Manciuria. E. scuote la testa. “Non c’è paragone, quelle manifestazioni non erano spontanee, come a Tiananmen, bensì pilotate dal governo stesso”.

Ma noi ci fermiamo qui. Le tensioni tra Cina e Giappone fanno parte di un’altra storia, per la quale vi rimandiamo alla prossima puntata.

giovedì 17 novembre 2005

Pechino notturna. Pechino - Cina, 17 novembre 2005

Pechino non è soltanto l’austera capitale da dove il governo pianifica e controlla il portentoso sviluppo del paese. Oltre ai simboli architettonici del potere politico e del suo passato glorioso, Pechino, come ogni altra grande città sviluppata, possiede anche un suo lato frivolo.

Lo si può scoprire durante il giorno, lungo l’area pedonale di Wangfujing Dajie o nei quartieri di Sanlitun e, poco più a sud, di Jianguomenwai.

Sono queste le aree in cui i pechinesi hanno imparato a viziarsi con gli sfizi, i gingilli e le marche di medio e alto livello arrivati dall’occidente e dal Giappone assieme al vento fresco del capitalismo.

Un edificio dal design molto moderno ospita un salone della Mercedes e gli showrooms di carissime firme di design e prodotti per l’arredamento. A pochi metri di distanza è possibile rilassarsi sui divanetti di Starbucks, davanti ad un Frappuccino Tall e ad un portatile in collegamento internet wi-fi. Un salto alla farmacia-supermercato della catena Watson’s, un gelato italiano, un po’ di window-shopping ai carissimi atelier di Gucci, Luis Vuitton e Armani, ed è finalmente arrivata l’ora di rifocillarsi presso Pizza Hut, KFC e McDonald’s o, per chi se lo può permettere, nei numerosi ristoranti europei di lusso.

Ma il modo migliore per spiare una città che si distrae è come sempre quello di perdersi tra i colori e suoni della sua vita notturna.

Cominciamo dai ristoranti e i bar sistemati lungo le sponde dei laghi Houhai e Qianhai, ad ovest della Torre del Tamburo. In questa zona i locali sono talmente numerosi da non riempirsi nemmeno durante il fine settimana. Dopo aver scartato le promoters dei bar più popolari attrezzate con strumenti di marketing non proprio innovativi – minigonne cortissime e top scollati –, e che in occasione della notte di Halloween (sì anche in Cina) indossano delle mascherine da carnevale veneziano, potete scegliere un ristorante in cui vi serviranno delle care e minuscole porzioni di specialità cinesi, vietnamite o thailandesi.

All’uscita del ristorante la scia di un olezzo insopportabile vi conduce ad un banchetto in cui potete "osare" con uno spuntino di "chou doufu", una varietà molto odorosa di tofu per cui i cinesi vanno pazzi. A pochi metri un bar con l’arredamento di un saloon offre una dozzina di bicchierini di assenzio per l’equivalente di dieci euro. Dopo averne mandati giù quattro a testa è chiaro a tutti che si tratta semplicemente di un blando liquore all’anice, qualcosa che nessuno avrebbe mai pensato di mettere fuori legge per tanto tempo in Europa.

In via Sanlitun, a poca distanza dalle ambasciate e dai negozi griffati, una fila di bar piuttosto trendy si rivolge alla comunità degli expats, gli stranieri che lavorano nelle ambasciate, nelle multinazionali o nelle scuole come insegnanti di inglese. Per chi è interessato alle abitudini notturne dei cinesi questi sono soltanto posti da una birra e via.

Più intrigante è invece il complesso dello “Stadio dei Lavoratori”, ad un paio di isolati da Sanlitun. Un nome decisamente azzeccato per una struttura i cui quattro cancelli principali non chiudono mai, che si guadagna l’esistenza non soltanto in occasione degli eventi sportivi del fine settimana ma anche ospitando un hotel, un ostello della gioventù, bar, ristoranti e due tra le discoteche più famose della città, il Vics e il Mix, sistemate l’una di fronte all’altra nei pressi del cancello all’entrata nord.

Davanti al Vics un robusto buttafuori armato di auricolare e in completo nero mette ordine tra i gruppi di giovani che arrivano in auto di lusso o in taxi. Il biglietto di ingresso costa cinque euro senza la consumazione e per una bottiglietta di birra locale bisogna pagare tre euro. Tenendo presente che in Cina una bottiglia di birra grande costa normalmente venti centesimi, questi prezzi la dicono lunga sul tipo di clientela di questa discoteca.

Il locale in sé è decisamente modesto ma è evidente che i ragazzi che lo frequentano sono i figli della Pechino bene, quella fetta della popolazione che si gode i privilegi della crescita astronomica del prodotto interno lordo. Qualche dettaglio – uno stivaletto o qualche pettinatura sparata – ricorda però vagamente la Budapest o la Berlino Est degli anni a cavallo tra gli ’80 e i ’90.

Un ambiente molto più sofisticato ed elegante è quello del Maggie’s Bar, recentemente trasferitosi dallo stadio dei lavoratori all’entrata sud del parco Rintan, un’area che pullula di ristoranti e clubs russi. Il lungo bancone, gli specchi e i giochi di luce creano un’atmosfera molto affascinante. L’unico dettaglio che può far storcere il naso è il fatto che molte delle ragazze all’interno del locale sono evidentemente delle squillo. Ti si avvicinano con una scusa banale, parlano un buon inglese e sono vestite molto bene.

Alcune di esse sono cinesi ma nella maggior parte dei casi vengono dalla Mongolia o dal Khazakistan. Dopo un paio di minuti di conversazione vengono al sodo e ti chiedono se puoi offrire loro da bere. La loro occupazione principale infatti, almeno per quanto riguarda il loro rapporto con il bar, consiste nel far consumare ai clienti il maggior numero di drinks possibile.

B., un greco che ha un’esperienza internazionale di locali di questo tipo, dall’Europa alla Thailandia, descrive il Maggie’s come il miglior locale in cui abbia mai messo piede. Se lo dice lui...

Pechino sarà anche la capitale del paese con l’economia più in forma del mondo ma per quanto riguarda la vita notturna non ha ancora raggiunto i livelli di Singapore, Kuala Lumpur e Bangkok, le altre capitali asiatiche con forte influenza cinese. I pechinesi sembrano infatti più inclini a trascorrere le loro serate in casa, con amici e familiari, sorseggiando te o sfidandosi ad interminabili partite di "Mah Jong".

Durerà fino a che le lore usanze non verranno stravolte dalle leggi del business e di quel settore della globalizzazione che si occupa di divertimenti e tempo libero.

venerdì 11 novembre 2005

Hutong, strutture urbane in via di estinzione. Pechino - Cina, 11 novembre 2005

I cinesi sono un popolo che ha sempre amato, a volte fino all’ossessione, tutto ciò che è grande, o meglio grandioso. Pechino è un città in cui le prove di questa passione nazionale affondano le radici nel passato delle varie dinastie imperiali.

I lunghi biscioni dei tratti di muraglia che strisciano sulle colline macchiate dai colori caldi dell’inizio autunno ne sono soltanto l’esempio più noto.

Non da meno è infatti la maestosità Ming e Qing della città imperiale. Al suo interno vi è una scalinata di marmo il cui blocco centrale fu ricavato integralmente da un’unica roccia. Talmente grande da dover essere trasportato in città facendolo ingegnosamente scivolare per svariati chilometri su una pista di acqua ghiacciata.

Nel tempio dei Lama si annida una statua di Buddha – un record da Guinness dei primati – i cui 18 metri di altezza sono stati intagliati su un unico ceppo di legno di sandalo. Tra la serie infinita delle sue torri e dei palazzi antichi la città conserva inoltre un portico in legno lungo un chilometro, interamente decorato con centinaia di dipinti, una campana da 63 tonnellate, e poi clessidre e percussioni giganti utilizzate per scandire il ritmo delle ore, dei giorni e delle stagioni che con magnanimità l’imperatore concedeva ai suoi sudditi.

In tempi più recenti contributi importanti al gigantismo pechinese sono stati forniti dallo stesso Mao, grande leader ma mediocre urbanista, con quella maglia di strade larghissime che si sviluppano sulle direttrici nord-sud e ovest-est attorno a Tiananmen, la piazza più vasta del mondo.

“La monumentalità non è tanto una questione di dimensioni quanto una di proporzioni” spiegava l’artista colombiano Botero a proposito di alcune sue sculture esposte “all’aperto” nel centro di Singapore. E’ esattamente l’effetto che percepisce chi da Tiananmen osserva il ritratto del grande leader appeso alla Porta della Pace Celeste. O chi, arrivando alla Stazione ferroviaria occidentale, si ritrova sbalordito ad ammirarne la facciata, una via di mezzo tra un arco di trionfo e una porta muraria di epoca imperiale.

Ma Pechino non è soltanto un insieme di elementi giganti in continua espansione. Distraendosi un attimo, scordandosi la mappa in albergo, svoltando un angolo a caso, avventurandosi lungo quello che potrebbe sembrare a prima vista un vicolo cieco, si scoprono delle sacche intoccate della città di un tempo.

Sono gli hutong, analoghi cinesi ai vicoli dei nostri centri storici. Stradine strette, fiancheggiate da siheyuan – case con cortile di un piano soltanto. Serpenti che, come in un vecchio videogioco, si snodano ad angoli retti, intersecandosi, allargandosi in pance piene di negozietti e bancarelle, e restringendosi improvvisamente a imbuto per poi magari sorprenderti sbucando in un trafficato viale a sei corsie, o terminando addosso ad un muro di cemento.

Lungo gli hutong i pechinesi si abbandonano a quelle abitudini ataviche che nei grandi spazi di concezione imperiale, maoista o postmoderna non trovano più il loro habitat. Nel giro di poche decine di metri ci si imbatte in tavolini sistemati all’aperto attorno ai quali la gente gioca agli scacchi cinesi, a carte, a domino. Oppure si ammassa nascondendo una gara misteriosa su cui si scommette ferocemente. Angoli a misura d’uomo in cui giovani e vecchi stanno seduti da soli o in compagnia a fumare, leggere, “succhiare” rumorosamente un piatto di tagliolini, o a chiaccherare.

Questo labirinto delle tradizioni sembra persino essere rimasto l’ultimo santuario per chi utilizza quello che credevamo essere il mezzo preferito dai cinesi, quasi scomparso dalle strade della capitale: la bicicletta.

Di hutong ce ne sono per tutti i gusti. Chi non soffre di claustrofobia, si annoia a vedere cinesi che giocano a scacchi e preferisce le vibrazioni di un’area più commerciale, dove si può acquistare un’orologio o una giacca con quattro soldi, può provare a tuffarsi nel fiume umano che scorre lungo le viuzze a sud di porta Qianmen.

Ma questi reperti di un museo a cielo aperto di storia e costume, a tuttoggi così vitali, rischiano purtroppo di diventare una specie urbanistica in via di estinzione.

L’urbanizzazione pesante, la crescita vertiginosa dell’economia, la necessità di infrastrutture efficienti e moderne stanno facendo a brandelli queste antiche aree del centro.

Le case basse e i cortili vengono impietosamente abbattuti e sostituiti da complessi residenziali che vantano tutto ciò che manca alle siheyuang – i bagni, il riscaldamento, l’acqua calda, i parcheggi – tranne, ovviamente, il loro fascino.

Il governo, sotto le pressioni di organizzazioni locali e internazionali, è corso ai ripari dichiarando gli hutong del centro aree architettoniche protette. Purtroppo però, i nuovi piani di sviluppo sono delle miniere d’oro e c’è chi non è disposto a lasciarsi sfuggire l’occasione troppo facilmente.

Gli unici hutong che avranno un futuro saranno probabilmente quelli che riusciranno a garantirselo a colpi di profitti elevati. E’ proprio per questo che molte di queste casette si stanno dando una ripulita e si apprestano ad ospitare ristoranti, bar e negozi, rivolgendosi così al turismo per guadagnarsi il diritto di continuare ad esistere.

E’ una soluzione al problema che a molti di noi può far storcere il naso. Ma una lancia a favore del turismo e della sofisticazione che immancabilmente lo accompagna bisogna pur spezzarla. Non bisogna dimenticare infatti che senza di esso oggi la grande muraglia, il grande vanto del paese, sarebbe con ogni probabilità soltanto un cumulo di pietre e terriccio – irriconoscibile non soltanto dagli oblò delle navicelle spaziali, ma persino da pochi metri di distanza.

sabato 5 novembre 2005

Cina costiera: la "S" più affollata del mondo. Shanghai - Cina, 5 novembre 2005

Pur essendo lo stato più popoloso del mondo la Cina figura soltanto al trentunesimo posto nella graduatoria dei paesi più densamente popolati. La precedono, tra gli altri, la “ribelle” Taiwan e persino l’Italia.

Se il miliardo e trecento milioni di abitanti fossero uniformemente distribuiti sull’intero, enorme, territorio nazionale, la Cina sarebbe probabilmente un paese molto più vivibile. Purtroppo non è così.

L’altopiano del Tibet e le distese desertiche dello Xinjiang a ovest, le steppe della Mongolia Interna e le aree sub-artiche dello Heilongjiang a nord sono scarsamente o quasi per niente abitate. La maggior parte dei cinesi si ammassa in una striscia a forma di “S” non molto spessa, a ridosso della costa ad est e a sud.

Non fu difficile intuire per quale motivo il virus della SARS si propagò con tanta facilità nelle provincie di Pechino e dello Guandong, popolate da decine di milioni di abitanti la cui attenzione per l’igiene si rispecchia nella loro irresistibile propensione allo sputo. Il “doppio sca” – che non è un nuovo passo di danza bensì l’accoppiata scatarrata-scaracchio – è un’abitudine alla quale pochi cinesi riescono a rinunciare. Il visitatore straniero familiarizza in fretta con la melodia di una ruvida grattata gutturale seguita da un secco pop e, dopo un momento di suspense, dal tonfo sordo di una granata viscosa che cade spesso a poca distanza dai suoi piedi.

Muoversi in questa regione può essere un’esperienza esilarante e frustrante al tempo stesso: i cinesi sono in grado di formare code di decine di metri e di aspettare per un’ora che venga loro servito un vassoio di polistirolo con una dozzina di ravioli (forse pure quelli di polistirolo). Ma non avrete realmente sperimentato la sovrappopolazione della Cina orientale fino a che non avrete provato a viaggiare come fanno i suoi abitanti, possibilmente durante un fine settimana.

Una semplice gita in treno da Shanghai a Suzhou, alla scoperta dei suoi rinomati giardini di epoca classica, può trasformarsi in un’avventura per molti versi indimenticabile. Si comincia con il complesso sistema che dalle gomitate davanti alla biglietteria porta al binario: mettersi in coda all’entrata, far scorrere i bagagli sul nastro dei raggi X e individuare il numero della sala d’aspetto per l’imbarco del treno. Mostrare il biglietto e cercare sul tabellone il codice identificativo del convoglio per sapere a quale cancello fare il check-in. Solo dopo che il tagliando sarà stato controllato per la seconda volta sarà possibile scoprire a quale binario bisogna dirigersi.

Una volta all’interno del vagone può capitare di scoprire che il posto indicato tra gli ideogrammi del biglietto è già occupato, e che decine di passeggeri stanno accalcati lungo il corridoio. Una situazione misteriosa, dal momento che il viaggio è a prenotazione obbligatoria dei posti. Il tragitto è breve, come andare da Milano a Pavia: la cosa migliore da fare è mettersi il cuore in pace e poggiare la spalla sullo stipite della porta.

I pochi cinesi che osano rivolgersi in inglese agli stranieri amano informarli che “La Cina è un paese molto popoloso”. Un’ovvietà che trova un’ulteriore conferma nelle statistiche della guida: Suzhou, la Pavia di Shanghai, il presunto borgo fuoriporta, vanta una popolazione di quasi sei milioni di abitanti.

Dopo che il sole è calato sui cipressi, i padiglioni, le rocce e gli elementi d’acqua dei giardini, è possibile imbarcarsi in uno dei numerosi treni per Shanghai che non offrono il servizio di prenotazione dei posti. Chi primo arriva meglio alloggia, e i cinesi ce la mettono tutta. Saltano le panchine e scavalcano le ringhiere per velocizzare le operazioni di imbarco. Quando le porte del vagone vengono aperte si scatena una mischia furiosa per l’ingresso. Qualche persona anziana perde l’equilibrio ma chi sta dietro non se ne cura, e continua a spingere. Altri passeggeri dal fondo della coda lanciano i bagagli sopra le teste di chi sta loro davanti.

Usciti dalla stazione centrale di Shanghai ed imboccato il tunnel della metropolitana ci si imbatte quasi sempre nella stessa scena: tutte le biglietterie automatiche sono fuori uso e ad uno degli sportelli, l’unico aperto, una signora stremata si scortica i polpastrelli su banconote e biglietti, davanti ad una bolla ondulante di cinesi vocianti.

Al margine del mucchio un signore americano avanti nell’età, piegato su un bastone, esplode la sua frustrazione: “Fantastico! Sono qui da sette anni. Sette anni! E ancora non smetto di sorprendermi davanti alla stupidità con cui il governo gestisce tutto ciò!”

Non resta altro da fare che scrollarsi di dosso lo sconcerto, girare i tacchi e ripiegare su un taxi. Sempre che ce ne sia uno libero. Non bisogna dimenticare che è sabato sera, e che questa è Shanghai, il cuore pulsante della Cina orientale.

Siamo al centro della regione più affollata del mondo.

Pubblicato da Faraeditore nella sezione Faranews:
http://www.faraeditore.it/faranews/87.shtml

martedì 25 ottobre 2005

La realizzazione di un compromesso impossibile. Shanghai - Cina, 25 ottobre 2005

Il viaggiatore è appena arrivato. Fiancheggia un bel palazzo che oggi, come un tempo, ospita di nuovo una banca straniera. Si ferma, getta la testa all’indietro e chiude gli occhi. Inspira a fondo e lentamente. Come cambia in fretta il profumo della libertà. La settimana scorsa a Bangkok, poi Hong Kong e Macao, due giorni fa Xiamen e ora Shanghai. Aerei, navi, corriere e treni.

Aceto e coriandolo. Oggi la libertà profuma di aceto e coriandolo. Riapre gli occhi, si concentra e poi riparte. Svolta l’angolo e si immerge in un sottopassaggio che brulica di mendicanti. La banconota che cade ai loro piedi mostra il volto di Mao, l’eroe del popolo che avrebbe dovuto salvarli. Non c’è riuscito, ma in fondo lo ammette anche la linea ufficiale del partito: il grande leader ha avuto ragione soltanto per il 70%.

Il viaggiatore riemerge in superficie per salire gli scalini del Bund. Si ferma lì, con lo sguardo oltre il fiume, verso la sponda di Pudong. Finalmente l’ha vista, le fa una foto e senza rendersene conto ne ha già scattate altre dieci. E’ la faccia rifatta della Cina che va ai mille all’ora, il paese dei nuovi cosmonauti, la prima donna, la nuova frontiera del millennio appena nato. E' al contempo il dragone di cui molti temono il futuro e la vacca che, per consolarsi nel presente, un po’ tutti vengono a mungere.

E’ la skyline della città nuova, con la torre della TV, il pungiglione del Jinmao, i grattacieli con gli uffici delle multinazionali e gli hotel di lusso. Il viaggiatore si ricorda di qualcosa che ha già visto. Forse a Singapore, o era Hong Kong? Se sfronda la scena di quei riflessi sull’acqua, potrebbe anche immaginare di stare di fronte ai distretti d’affari di Kuala Lumpur, Giakarta o Bangkok.

Eppure sa che non è la stessa cosa. Non era questo il gigante che non bisognava svegliare? Tende l’orecchio e ascolta, percepisce suoni non sempre familiari, ma di una cosa è sicuro: il gigante non russa. Il paese non dorme più, e un numero sempre più elevato di cinesi, fin dall’alba, sono già lanciati nella corsa per diventare ricchi. E' questo l’obiettivo glorioso indicato loro niente meno che da un altro grande leader: Deng Xiaoping.

Bund, questo termine inglese, non già come Shakespeare ma più simile a Kipling, coniato nelle Indie orientali, tra spezie ed elefanti, per descrivere un argine infangato. Anche Shanghai infatti, come l’India, ha un passato che sa di colonia. Di commercio e di soprusi, di battaglie e di eroi nazionali, figure immense, protagonisti di successi e disfatte, seminatori di speranza e terrore.

Un quarto di secolo di regime maoista non è bastato a cancellare l’impronta dell’occidente a Shanghai, una città che prima delle guerre dell’oppio e dell’arrivo dei britannici era soltanto un villaggio di pescatori. La concessione francese, il Bund, gli edifici in stile neoclassico, art deco e georgiano vengono oggi ripuliti e lustrati, esibiti orgogliosamente con tanto di descrizioni in inglese.

Ma la Cina ha anche scelto Shanghai per mostrare i suoi muscoli e per farne il simbolo del suo futuro glorioso. Oltre la sponda orientale del fiume Huangpu, proprio di fronte al Bund, l’intera area della nuova Pudong è stata rasa al suolo per far spazio agli elementi di quella skyline i cui riflessi sull’acqua si allugano come indici ammonitori verso il nostro viaggiatore. E’ il distretto che ospita la stanza dei bottoni del mondo finanziario cinese. Un centro che diventa ogni giorno più potente e che dovrebbe, nei piani delle autorità, raggiungere presto livelli superiori a quelli di Hong Kong, rimarginando così una ferita ancora aperta sull’orgoglio del paese.

Anche a Puxi, ad ovest del fiume, la città cambia volto ad un ritmo allucinante. Vi trova spazio il nuovo museo cittadino, ricco di reperti e hi-tech nel concetto. I centri commerciali di Nanjing Road, una luccicante e colorata via dei balocchi. E i ristoranti di lusso, i club esclusivi, i negozi di design e le gallerie d’arte del sofisticato complesso di Xintiandi. Un dedalo di viuzze tra le quali gli edifici del periodo delle concessioni sono stati rinnovati o ricostruiti. Tra di essi si aggirano, tra gli altri, i giovani rampolli dell’élite cinese. Indossano giacche dal taglio fino, portano acconciature già sperimentate in Giappone, i loro piedi sono fasciati dalle pelli più pregiate. Hanno già imparato ad assumere quell’espressione spregiudicata, sicura di sé e dei propri mezzi, che altri cinesi sfoggiano già da decenni nelle mete storiche della loro diaspora. Sono i figli dei membri della nomenklatura o degli uomini d’affari, coloro che stanno godendosi i frutti degli investimenti stranieri e dell’eccezionale boom economico del paese. Sono tra i pochi che da queste parti hanno il tempo - e le risorse - per dedicarsi allo sfizio delle griffe occidentali o alle nuove tendenze delle arti visive.

Nel bel mezzo di questo tempio della mondanità, di questo monumento al denaro e ai piaceri per pochi, è rimasto in piedi un piccolo edificio. Un po’ asfissiato, a guadagnarsi lo spazio a spallate tra tanto lusso, sembra la povera vittima di un’ironica coincidenza. Al suo interno nel luglio del 1921 un manipolo di sconosciuti visionari si riuniva in segreto, sfidando l’ira delle autorità, per fondare il partito comunista cinese. Sembra che tra di essi ci fosse anche un giovane rappresentante di una sezione di provincia. Il suo nome era Mao Zedong.

Benvenuti a Shanghai, questa è la Cina d’oggi: un posto in cui coesistono senza troppi drammi le pratiche di un capitalismo sfrenato e la retorica di un comunismo ormai morto e sepolto. E’ la culla di una nuova non-ideologia, di un compromesso assurdo.

Potremmo chiamarlo "capi-comunismo".

martedì 18 ottobre 2005

Xiamen - Cina, 18 ottobre 2005

L’impressione di ieri è confermata. La città è carina, alcuni palazzi sono molto belli ma con tutti i turisti che gridano e scorrazzano qua e là, il fascino di ieri notte è svanito.
A proposito, non ho visto nessun turista occidentale, ho l’impressione che io sia l’unico a non essere cinese. Continuo ad avere qualche problema di comunicazione. I cinesi non sembrano essere inclini a venire incontro allo straniero come quasi tutti i popoli che ho conosciuto nel sud-est asiatico.
Per fortuna al Centro di accoglienza per i visitatori incontro un paio di ragazzi che capiscono l’inglese e mi aiutano a sbrigare qualche faccenda. Mi faccio dare una mappa della città, compro una Sim card e anche un volo per Shangai per domani mattina.
Prendo il traghetto e faccio un salto in città dove cammino e scatto foto tra le viuzze del mercato, proprio a ridosso del lungomare.

lunedì 17 ottobre 2005

Xiamen - Cina, 17 ottobre 2005

Dopo alcuni giorni trascorsi a Hong Kong e Macau arrivo nella Cina vera e propria. La mia prima tappa è Xiamen, nella provincia di Fujian (Hokkien).
Alloggio a Gulang Yu, un isolotto di fronte alla città ver e propria. L’atmosfera è coloniale, la città fu uno dei 5 porti aperti al commercio con l’occidente con il trattato stipulato al termine della guerra dell’Oppio. Cammino per le stradine semi-deserte da solo, di notte e, come mi è già accaduto altrove, ho l’impressione che sarà il ricordo migliore che serberò della città.
A volte, svoltando un angolo e ritrovandomi in una piccola piazza racchiusa da case rosse o alzando lo sguardo e osservando un cornicione, mi sembra per un attimo di essere a Venezia.

mercoledì 12 ottobre 2005

Seul: il ritorno dei figli adottivi - Bangkok, Thailandia

Marie è una ragazza danese ma chi la incontra per la prima volta qui, tra le zaffate di smog e gli sbuffi di peperoncino fritto in un mercato di Bangkok, non lo direbbe affatto. Capelli lisci e neri, corpo minuto, il naso piccolo, gli zigomi sporgenti e gli occhi a mandorla: i suoi genitori l’adottarono quando aveva pochi mesi di vita, prelevandola da un orfanotrofio di Seul. Era la terza e ultima bimba coreana di cui decidevano di diventare mamma e papà.
Pur essendo cresciuta in Danimarca come una qualsiasi altra ragazza europea, è un po’ come se quel filo che la collega all’Asia non si sia mai spezzato. Ai tempi della scuola superiore Marie trascorse un intero anno in una cittadina del Giappone per uno scambio culturale. Alcuni anni più tardi lavorò per alcuni mesi come volontaria in un orfanotrofio a Nong Khai, una città thailandese al confine col Laos. Ora è a Bangkok per un periodo di pratica previsto dal corso per infermieri che sta frequentando a Copenaghen.
Un paio d’anni fa quel filo la portò alla tappa più importante del suo percorso in oriente. Con l’unico indizio del nome di un istituto di Seul stampato sui fogli dei suoi documenti di adozione, decise di mettersi sulle tracce dei suoi genitori naturali. Arrivata in Corea del Sud presentò i documenti ad un’impiegata dell’orfanotrofio. Quella rintracciò facilmente la corrispondente cartella nell’archivio e le comunicò con aria rassicurante che non era affatto un’orfana.
Continuando a scorrere tra le pagine del dossier le spiegò poi che al momento della sua nascita il padre aveva già quarantadue anni e lavorava come manovale in un’impresa di costruzioni. Le ristrettezze economiche in cui si trovava la famiglia, unite al fatto che in casa di bambine ce n’erano già tre, convinse la coppia ad affidarla all’istituto.
Quando chiese informazioni più precise sull’identità dei suoi genitori Marie si scontrò però con il secco rifiuto dell’addetta. In casi come questi la tutela del diritto all’anonimità è di fatto una prassi molto diffusa in Corea.
Durante la sua permanenza nella metropoli asiatica Marie ebbe modo di venire a contatto con la comunità dei “bambini” adottati all’estero che tornano nel paese natale alla ricerca delle loro origini. Una comunità variegata i cui membri sembrano avere in comune soltanto alcune caratteristiche somatiche e la missione che li ha portati lì. Persone di varie età, provenienti dagli angoli più disparati del mondo occidentale, che parlano una babele di lingue diverse. Anime che lasciano trasparire una serie infinita di impressioni, sentimenti, modi di vedere ed interpretare la loro situazione, il loro futuro, il loro rapporto con i paesi in cui sono cresciuti e con gli altri membri delle comunità in cui sono stati trapiantati.
Il governo sud-coreano ha considerato a lungo la pratica delle adozioni come un’importante fonte di introiti, incoraggiando benestanti coppie straniere ad inoltrare la richiesta per un bambino in cambio di un’ingente somma di denaro. E così, a partire dalla fine della guerra civile dei primi anni cinquanta, migliaia di famiglie hanno deciso per vari motivi di consegnare i loro neonati agli appositi istituti. Non solo orfani quindi, ma anche i figli di coppie non abbienti, o bambine nate in famiglie già ricche di figlie femmine, figli di ragazze madri, e persino figli illegittimi frutto di rapporti clandestini. Sono tutti andati a riempire le fila di un esercito di circa 250000 individui che sono stati cresciuti ed educati da padri e madri danesi, canadesi, italiani, australiani, in società prevalentemente occidentali, portandosi addosso le prove indiscutibili della loro origine asiatica. Un contrasto che, nonostante alcuni dei paesi ospitanti sbandierino queste realtà come delle storie di successo, ha generato non poche complicazioni, rintracciabili tra le frustrazioni e la rabbia negli ambienti della comunità dei “bambini” adottivi che si riuniscono a Seul.
Arrivano a decine o centinaia ogni anno e orbitano attorno all’istituto di provenienza e alle ONG che sono nate per difenderne i diritti. Una volta in Corea, in mezzo a tanta gente che ne condivide la sorte, si sentono finalmente liberi di esprimere quei sentimenti che si sono tenuti dentro per tanti anni. Ed è così che escono allo scoperto le frustrazioni di giovani uomini che generalmente non vengono considerati attraenti dalle donne del loro paese, la confusione di ragazze che si sentono spesso l’oggetto delle attenzioni di concittadini alla ricerca di un’esperienza esotica, il disorientamento di chi deve dare risposte contorte a semplici domande sulle proprie origini. O ancora il senso di alienzione di giovani che, pur avendo trascorso tutta la vita nel paese adottivo, si sentono ancora a disagio davanti all’immagine della bandiera o al testo dell’inno nazionale. Nei casi più estremi arrivano addirittura a negare ogni senso di appartenenza alla nazione che li ha accolti.
Gran parte del merito per la creazione di un ambiente che li mette a proprio agio va alle ONG, create nella maggior parte dei casi da elementi stessi della comunità. Queste organizzazioni forniscono assitenza per le operazioni di ricerca delle famiglie naturali e fanno pressioni sul governo di Seul per il riconoscimento di alcuni diritti degli adottati che ritornano. Tra le loro conquiste figurano i corsi gratuiti di lingua coreana e il rilascio di visti e permessi di lavoro su presentazione di domanda accompagnata dai documenti di adozione.
Alcuni di questi individui riescono effettivamente a rintracciare i genitori coreani, i quali spesso si rivelano curiosi e inclini ad incontrare quei figli che non hanno visto per anni, a volte dopo averli lasciati pochi minuti dopo la nascita. Superato l’imbarazzo iniziale le due parti cominciano ad osare e ad aprirsi, alla ricerca delle risposte con cui cercano di completare un puzzle che fino a pochi giorni prima non conteneva nemmeno un tassello.
Molto spesso durante i primi incontri non mancano le reazioni stupite all’aspetto “diverso” dei figli cresciuti all’estero. A causa del clima, della dieta e dello stile di vita differenti, i figli adottivi sono normalmente più grandi e robusti dei membri delle loro famiglie naturali, hanno un diverso colore della pelle e in alcuni casi persino la forma degli occhi sembra essersi “occidentalizzata” un po’. Non tutti gli incontri però hanno luogo senza generare qualche problema.
In alcuni casi la madre era riuscita in qualche modo a tenere il padre all’oscuro della gravidanza e della conseguente adozione. Alcune famiglie sono andate in rovina quando il figlio si è fatto vivo e l’ignaro coniuge è venuto finalmente a conoscenza della storia.
Altre volte invece il giovane che chiede di incontrare i genitori è il figlio di un rapporto extra-familare. In questi casi il padre, per evitare problemi con la famiglia legittima, nega la propria disponibilità o acconsente soltanto ad un incontro fugace e segreto.
Di recente Marie è venuta a sapere da altri membri della comunità che insistendo un po’ è possibile convincere gli impiegati degli istituti a fornire le generalità dei propri genitori. Ha deciso quindi di ritornare in Corea per riprovarci. Cercherà anche di contattare qualche giornale e di apparire in TV.
“Da un pò di tempo cerco spesso di immaginare come si svolgerà l’incontro”.
Proverà emozioni forti o, come invece è accaduto ad alcuni degli altri “bambini”, vivrà quei momenti con distacco e freddezza, come se quelle persone mai viste prima, che parlano una lingua diversa dalla sua, siano dei completi estranei, che nulla hanno a che fare con lei e con la sua vita, così come si è andata sviluppando dal giorno in cui è stata allontanata da loro.

“Non importa” dice come per troncare una conversazione con se stessa “vada come vada, basta solo che non si rivelino delle persone odiose o stupide. Quello proprio non riuscirei a sopportarlo”.
Ma Marie è una ragazza sensibile e in gamba. Si destreggia tra lo zig-zag dei toni crescenti e cadenti della lingua thailandese o tra le mitragliate piatte di quella giapponese con la stessa agilità con cui parla l’inglese e il francese. Se il buon sangue non mente, quando incontrerà i suoi genitori naturali non dovrebbe proprio rimanere delusa.

lunedì 15 agosto 2005

Kho Phi Phi: paradiso in restauro - Koh Phi Phi, Thailandia

Per chi c’è stato prima del 26 dicembre scorso le isole di Phi Phi, al largo della costa sud-ovest della Thailandia, sono il posto adatto per farsi un'idea precisa sugli effetti dello tsunami e sulle difficoltà connesse al processo di ricostruzione. Molto più della vicina Phuket, dove le tracce del maremoto sono evidenti ma sono, per l'appunto, solo delle tracce: qualche edificio in costruzione, altri evidentemente rinnovati, qualche detrito ammucchiato in un angolo e un odore fetido che esce dai tombini in prossimità della spiaggia. A Phi Phi invece, a più di otto mesi dall'evento, ci si rende conto delle reali dimensioni della catastrofe.
Koh Phi Phi è il nome di una coppia di isole del Mar delle Andamane, situate al largo della costa di Krabi, nella Thailandia sud-occidentale. Phi Phi Ley, dal profilo squadrato e dall'aspetto vagamente tetro, è la minore delle due, è praticamente disabitata e alcuni anni fa fu il teatro di un famoso film americano con l'attore Leonardo Di Caprio, girato nella paradisiaca spiaggia di Maya beach.
L'altra isola, Phi Phi Don, ha la forma di due polmoni di dimensioni diverse, collegati da uno stretto istmo che separa le due baie principali. La prima baia, Ton Sai, si apre a sud-est verso Koh Lanta e se vista dall'alto appare punteggiata dai colori sgargianti delle barche dei sub e da quelli sobri delle imbarcazioni che effettuano i servizi di collegamento con Krabi e Phuket. La baia di Loh Dalum si affaccia in direzione opposta, verso Phuket; è quasi completamente racchiusa dall'abbraccio delle alture dell'isola e offre un romantico punto di osservazione di un rinomato tramonto tropicale. Tra le due baie e fino ai piedi delle colline si sviluppa il paesino di Ton Sai, che raccoglie la maggior parte delle strutture turistiche dell'arcipelago.
Sull'onda della fama portata dal film e dalla sua fotografia di spiagge da sogno, dalla seconda metà degli anni novanta un numero sempre più elevato di turisti è arrivato sull'isola, con i picchi stagionali più alti proprio nella settimana che va da Natale a Capodanno. Per accogliere, nutrire e intrattenere i visitatori Ton Sai si è andato riempiendo di alloggi di ogni livello, ristoranti, scuole di sub, agenzie turistiche, bar e negozi. Non sono pochi i viaggiatori che credendo di arrivare in un intoccato paradiso tropicale sono rimasti allibiti trovandosi di fronte sportelli bancomat, minimarket aperti 24 ore e collegamenti internet via satellite.

Prima dell'arrivo alla baia di Ton Sai, già dalla barca si nota che la prima fila di edifici è stata seriamente danneggiata o distrutta. Dopo essere sbarcati ed aver attraversato il molo ci si trova davanti al primo scheletro di un caduto celebre: l'edificio del Seven/Eleven, riconoscibile soltanto per l'insegna luminosa e per qualche scaffale vuoto tra i detriti racchiusi da tre pareti diroccate; la facciata di vetro invece non esiste più.
Percorrendo le strade del centro ci si imbatte in edifici ricostruiti, altri distrutti e rimpiazzati da strutture provvisorie, e soltanto alcuni rimasti apparentemente intatti.
Qua e là si intravedono cumuli di detriti e pezzi di metallo divelto nascosti alla meno peggio. Fa una certa impressione vedere gli sportelli bancomat - il simbolo dello sviluppo sull'isola - impolverati e fuori uso, a volte con un rozzo
Out of order scarabocchiato su un pezzo di carta appiccicato sullo schermo morto, spesso invece privi anche di quel messaggio lapidario.
Tuttavia ciò che aspetta il visitatore che si sposta verso la baia di Loh Dalum è ancora peggio. Da un certo punto in poi le poche costruzioni che stanno in piedi sono tutte nuove, il resto è soltanto un immenso cumulo di macerie. Continuando a passeggiare verso il mare, arrivati a circa duecento metri dall'acqua, lo spettacolo è agghiacciante. Il dedalo di stradine costeggiato da semplici costruzioni - spesso in legno - che ospitavano alberghi economici, ristorantini, e negozietti è ora un desolante spiazzo aperto, perlopiù ricoperto di rottami. Si fa fatica ad orientarsi, i vecchi punti di riferimento non esistono più. La spiaggia sembra essere ridiventata quel che deve essere stata alcuni anni fa, quando il boom del turismo doveva ancora iniziare e Koh Phi Phi era abitata da qualche decina di pescatori. Di due dei
resort più eleganti restano soltanto un paio di costruzioni in muratura, peraltro in condizioni malmesse. Del bel ristorante italiano, della coppia di "Chiringuito del tramonto" e dei bungalow in legno, paglia e bambù non resta letteralmente niente, nemmeno qualche moncone di legno o delle tracce sull'erba. Le palme sono spelacchiate e gli alberi in gran parte mutilati. A riva è ormeggiata una grande chiatta su cui alcuni operai thailandesi lavorano tra sacchi di detriti e cumuli di sabbia.
La fila di sdraio e i tavolini di un bar in mezzo a quel deserto non migliorano affatto la situazione, ma la rendono anzi ancor più triste, soprattutto una lavagnetta su cui qualcuno ha scritto "PP Princess bar menu": PP Princess era il nome di uno dei
resort spazzati via, questo banchetto che vende bibite è tutto ciò che ne resta.
Lo tsunami generato al largo di Sumatra è arrivato a Phi Phi verso le 10:30 del mattino del 26 dicembre 2004, tre quarti d'ora dopo aver raggiunto l'isola di Phuket. Phi Phi Don è stata investita da due ondate successive, ognuna delle quali ha colpito entrambe le baie. Poco prima dell'arrivo della prima cresta il mare si è ritirato all'improvviso di parecchi metri, lasciando le barche incagliate e i pesci a dimenarsi sul fondo asciutto. Numerosi turisti e residenti incuriositi si sono avvicinati per osservare il corallo esposto all'aria aperta o per afferrare i pesci in agonia. La prima onda si è abbattuta sulla costa ad una velocità di 50 km/h o più, con altezze di 6,5 metri alla baia di Loh Dalum e di 3 metri a Ton Sai. Le ondate provenienti dalle due baie si sono incontrate lungo una linea che taglia in due il paese, poi quella maggiore proveniente da nord-ovest ha spinto l'altra all'indietro. Il mare si è quindi ritirato nuovamente e il processo si è ripetuto per una seconda volta. L'acqua ha attraversato l'isola da parte a parte anche in altri due punti sul "polmone” nord-orientale: tra due baie minori - La Naa e Bakhao - e a Laem Thong, un villaggio di pescatori nomadi.
Il bilancio dei danni è molto serio: il 70 per cento delle costruzioni è stato distrutto o danneggiato, ottocento sono i corpi senza vita ritrovati e milleduecento i dispersi, più di cento i bambini rimasti orfani. Tra le vittime non ci sarebbero membri della comunità dei pescatori gipsy. Sono infatti riusciti a mettersi in salvo per tempo, dopo aver riconosciuto alcuni segni premonitori dello tsunami in fenomeni osservati in mare o nei sogni di alcuni "sensitivi".

Il processo di ricostruzione è in corso: muratori e falegnami lavorano sui siti degli edifici distrutti, operai thailandesi e volontari, in gran parte stranieri, ripuliscono la spiaggia dai detriti.
Chi è riuscito a ricostruire in fretta e chi non ha subito danni si gode gli introiti della macchina del turismo che ha ricominciato a funzionare. In molti espongono insegne con messaggi volti a sensibilizzare i passanti. Ad un centro di massaggi si legge: "Le donne che lavorano qui devono mantenere le loro famiglie colpite dallo tsunami, aiutatele e viziatevi al tempo stesso". Un venditore di bigiotteria scrive: "Lo tsunami ha distrutto il nostro negozio e non abbiamo i soldi per comprare nuova merce. Siamo cinque in famiglia, di cui tre bambini. Non abbiamo niente! Aiutateci".
Le cifre tuttavia non sono ancora ritornate ai livelli di quelle precedenti il disastro. Alcune settimane fa la CNN intervistava il proprietario di un'azienda che fornisce il servizio di collegamento con la terraferma. Fino all'anno scorso le sue barche erano quasi sempre piene e in alta stagione doveva noleggiare le imbarcazioni di altri operatori. Ora le barche sono semivuote e l'azienda è spesso costretta a operare in perdita.

C’è anche chi in questo scenario di distruzione riesce comunque a trovare un lato positivo. Una turista canadese mi fa sapere che in fondo non le dispiace essere stata qui proprio ora, quando molte delle strutture spazzate via dall’acqua non sono ancora state ricostruite e gran parte dell’isola presenta in un certo senso la sua faccia naturale.
Non mancano inoltre storie di complotti e tesi cospiratorie. Circola una voce secondo la quale alcuni poteri economici, con il sostegno di qualche personaggio del mondo politico, starebbero pianificando di convertire Phi Phi in una meta per turisti di alta categoria, con la costruzione di costose strutture di lusso. A causa della resistenza opposta da alcuni dei residenti questi personaggi si starebbero impegnando per ostacolare il processo di ricostruzione e di rilancio del turismo. E' una storia simile a quella che circolava tempo fa a proposito di altre isole del paese. L’unico esempio che si raccoglie a sostegno di questa tesi riguarda lo smantellamento dei rifiuti che venivano regolarmente trasportati sulla terraferma e che da qualche tempo sarebbero invece lasciati a marcire sull’isola. I cumuli di spazzatura a Koh Phi Phi sono in effetti grandi e maleodoranti, ma risulta alquanto difficile considerarli una prova schiacciate a favore delle accuse di malaffari. Se ne possono infatti trovare di simili in tutte le altre isole del sud-est asiatico, comprese quelle che non sono state colpite dallo tsunami.

Saliti a bordo della barca per Phuket e osservando da lontano gli operai che si muovono sugli edifici in costruzione come api attorno a un alveare, si ha l’impressione che in tempi relativamente brevi l’isola ritornerà a essere quella di prima, essendosi data pure una mano di vernice nuova. Alcune attività avranno cambiato proprietario, i sopravvissuti e i nuovi arrivati avranno perso alcuni mesi di profitti, ma il flusso di turisti, che già aumenta di settimana in settimana, ritornerà forse agli antichi splendori.
A ricordare le vittime resteranno un giardinetto intitolato ai caduti, le targhe esposte da qualche esercente, e un paio di murales dipinti da un turista.

Pubblicato da Peacereporter nella sezione "Reportage"
http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idart=3784


venerdì 1 luglio 2005

Come fiammiferi sotto la pioggia - di William Stabile

Le perturbazioni che vengono dall’Atlantico incontrano le isole inglesi, portano nuvole grigie e gonfie di pioggia, attraversano la Cornovaglia che grazie alla Corrente del Golfo e ai venti di mare gode di un clima temperato, e scaricano tutta l’acqua che hanno accumulato sul loro percorso sulla nostra isola.

Quando nella metropolitana di Londra gli infami burattini giocavano con le loro bombe, provocando morti e feriti nella capitale creola del mondo, eravamo a Reading e nuvoloni grigi si muovevano veloci verso est spinti da un vento forte, mentre un collega mi stava al fianco sotto la pioggia, fumando un sigaretta.

Io osservavo le nuvole correre in cielo e le strane figure che proiettavano sui campi di grano ancora verde al di lá della strada, lui fini´ di fumare e gettó il fiammifero con il quale aveva acceso nella pioggia sul marciapiede.

Abbassai lo sguardo e osservai il fiammifero che si spegneva nell’acqua mentre gli imbecilli premevano i pulsanti dei loro giocattoli.

lunedì 21 febbraio 2005

Guaio! - Singapore

Passeggio in Orchard Road, i piedi quasi li trascino. Le passeggiate pomeridiane a cavallo dell’equatore ti succhiano l’energia. E’ l’ora del tramonto e finalmente si respira. Lo sguardo si posa distratto sui soliti particolari.
Adolescenti malay che ruttano l’ennesima birra alla salute di Allah, le prime squillo che scendono dai taxi e salgono ticchettando gli scalini dell’Orchard Tower. Turisti col collo madido che scattano foto a chissà cosa, e giovani alla moda che sorseggiano frappè.
All’improvviso con la coda dell’occhio individuo qualcosa. Anzi qualcuno. Sta lì, sul bordo del marciapiede. Non si muove ma è come se lo facesse. Sta in una posa dinamica. E’ come se un fremito le percorresse il corpo. Un movimento invisibile, che soltanto l’intuito riesce a percepire. Ha appena mosso un passo? O lo sta per muovere? Sarà per quei capelli ondulati, così rari nelle ragazze asiatiche.
Dove l’ho già vista? Anche lei sta pensando la stessa cosa.
Mi ha puntato gli occhi addosso, e con una smorfia mi chiede: dove ti ho già visto?
Ma dura solo un attimo. Non mi sono nemmeno fermato, con malcelata indifferenza punto lo sguardo di fronte a me, e proseguo con aria decisa verso il mio nulla da fare.
Sarebbe bastato dirglielo, invece di ricacciarmi le parole in gola. “Dove ti ho già vista?”.
Cosa mi ha fermato? Un pensiero lampo, di una parola soltanto: guaio!
Non ho ancora capito chi sia, se e dove l’ho già vista, ma quel pensiero è quasi una certezza: tieniti alla larga da quella ragazza.
La curiosità mi sta divorando, devo sedermi su quella panchina e pensare. Chi è? Chi sei? Perché quella parola?
Scorro la lista degli ultimi posti in cui sono stato. Kuala Lumpur? No, il viso mi dice Thailandia. Phuket? In mezzo al trambusto dello tsunami quel volto non compare. Hua Hin? No. Bangkok? No. Torno ad inizio lista, Kuala Lumpur?
Ma sì! E avevo ragione: è thailandese. Alloggiavamo nello stesso residence. Lei con la figlioletta e il marito. Il marito. Un altro pensiero. Ancora una parola soltanto. Cornuto! E ancora: guaio. Ora mi è tutto chiaro. La vedevo quasi tutte le sere al caffè del residence. Una di quelle catene americane, con prodotti italiani e prezzi giapponesi. Io abbassavo gli occhi sul mio libro o sugli appunti, ma non resistevo a lungo.
Quando alzavo la testa sapevo che mi bastava aspettare un attimo, e lei si sarebbe voltata verso di me.
Ha la capacità di guardarti come se al mondo ci fossi solo tu. Come se lei fosse la ragazzina di prima media e tu il ragazzo di terza di cui si è presa una cotta. Ma soprattutto, lo fa come se fosse la cosa più pulita del mondo. Come se quell’uomo che le sta seduto accanto fosse solo un conoscente, come se non fosse il padre della bimba, suo marito.
Anche allora, sarebbe bastato aggiungere qualcos’altro a quei Hi! scambiati al volo quando la incrociavo nella hall. Il suo sorriso non chiedeva, piuttosto autorizzava. Anche allora mi fermava quel pensiero. Guaio! Quando l’ho vista poco fa, c’è arrivato prima l’intuito della logica.
Interessante scoprire i meccanismi della mente, quelli che funzionano quando non ce ne accorgiamo. L’intuito, le decisioni prese praticamente senza pensarci. Ne parlava Gabriele Romagnoli su Repubblica, citando un saggio di uno studioso americano. ‘Blink’.
Qualche giorno fa sfogliavo il libro tra gli scaffali di Borders. Books, music, movies and coffees. Per fare il verso all’Esselunga: Supermecato o libreria?
Lessi l’introduzione e lo catalogai tra i libri di cui ho pensato: “Bello l’inizio! Interessante...non lo compro...”.
Tutto in sincerità, senza ironia: bello, interessante, non lo compro. Non ho dovuto nemmeno rifletterci, ho utilizzato il concetto chiave del saggio, per decidere di non comprarlo. Ho la sensazione che Romagnoli, in quella pagina scarsa, abbia catturato l’essenza del libro.
Sono uscito da Borders con una copia di ‘Sudden Fiction: American Short-Short stories’. Una raccolta di racconti brevissimi, un genere che esiste da molto tempo - c’è ‘A very short story’ di Hemingway, pubblicato nel ’25 - a cui non hanno ancora dato un nome. Sudden, short-short. Qualcosa a che fare con Blink in fondo ce l’ha.
Mi rialzo dalla panchina, do un’occhiata indietro. Non la scorgo, ovviamente.
Resta una domanda. Come al solito, resta sempre una domanda.
Guaio! Cosa sarebbe successo senza quel Blink?

lunedì 14 febbraio 2005

L'imperatore, il pirata e l'avvocato - Kuala Lumpur, Malesia

Le torri Petronas allungano le loro ombre sulla città che si rinfresca. Non sono ombre qualsiasi, nessuna città al mondo ne può vantare di più lunghe.
La lezione è terminata. Attraverso la parete a vetri ci godiamo una panoramica di lusso della skyline del Golden Triangle, la punta di diamante della Kuala Lumpur che cresce, forse a dismisura.
Il riflesso del tramonto alle sue spalle cancella i lineamenti dal suo volto, e il profilo della sua testa sembra la cima di un nuovo, stravagante edificio. L’ex-avvocato inglese accavalla le gambe e aspetta la mia risposta.
E' di origine pachistana, giovane e, a detta di varie donne, molto bello.
"Quindi riesci a giustificare un massacro di innocenti, perché appoggi la causa finale." Non si scompone.
"Lasciami spiegare con un aneddoto.
"Il condottiero più forte del mondo, il dominatore dell’universo conosciuto, sta cavalcando il suo destriero in compagnia dei suoi generali più valorosi. Nelle vicinanze di una spiaggia incontrano il pirata più temuto dell’impero.
- Come osi, pirata, saccheggiare i porti del mio impero e seminare terrore tra i miei sudditi?
- Lo dici tu a me, imperatore, tu che saccheggi tutto il mondo e terrorizzi popoli interi?"
Ha terminato. Quel colto avvocato dal volto immacolato mi sorride compiaciuto, mentre io, senza rispondere, resto lì insoddisfatto, interdetto, e pure un po' incazzato.
Qualcosa non quadra, qualcosa mi sfugge. Ho quell’impressione che si ha quando c’è nell’aria un fetore che ci è familiare, ma di cui non riusciamo ad identificare l’origine. Sono sicuro che ha torto ma non riesco ancora a spiegare il perché Ho l’impressione che lui sappia il perché senza però essere convinto di aver torto.
Poco più tardi scopro di cosa si tratta, e identifico l’origine di quell’odore sgradevole. La risposta gliela posso inviare soltanto con una lettera.
Caro avvocato,
ti voglio raccontare una storia.
“Il pirata più temuto della contea sta passeggiando coi suoi scagnozzi in una viuzza del porto. Incontra il monello più terribile della contrada. Il monello ha picchiato un ragazzino e gli ha rubato due mele.
- Come osi moccioso perseguitare i fanciulli del borgo?
- Lo dici tu a me, pirata? Tu che hai ucciso mio padre e derubato i miei fratelli?"
Come sanno i cantastorie, caro avvocato, quel che più conta è il punto di vista.
E il tuo, se mi permetti, è un po' tendenzioso.
Se i crimini dell’imperatore servono a giustificare quelli del pirata, allora per un attimo sono disposto a dimenticarli. Il pirata ha i suoi motivi per accusare l’imperatore, ma noi non abbiamo il diritto di ignorare le sue vittime.
Con stima e affetto.
Chi siano l’imperatore e il pirata, le vittime dell’uno e dell’altro, decidetelo voi.
Tutti prima o poi incontriamo il nostro avvocato. Quando capiterà a voi non fate come me, rispondetegli in faccia.

venerdì 7 gennaio 2005

Tsunami: le prime ore - Bangkok, Thailandia

Phuket town, 26 dicembre 2004. E' l'una del pomeriggio circa, ora thailandese, quando esco dalla stanza malmessa di un albergo del centro che di coloniale conserva soltanto la bella facciata. Scendo stancamente gli scalini scricchiolanti della vecchia scala di legno e mi fermo al banco della reception per pagare la giornata. Aspetto che qualcuno si accorga di me. Devo chiamare ad alta voce per attirare l'attenzione di uno dei ragazzi che stanno inchiodati davanti allo schermo di un piccolo televisore. Sono immagini di scene convulse e confuse.
Sembra che ci sia stato qualche sorta di incidente ma non riesco a capirci molto. Sarà l'ennesimo attentato dei separatisti islamici nell'estremo sud del paese? Il mio thailandese non è buono abbastanza per comprendere quello che dice lo speaker e non mi sembra comunque il caso di disturbare gli attenti spettatori. In ogni caso fra pochi minuti avrò l'opportunità di leggere le notizie in internet.
Inforco l'Honda Dream che ho noleggiato ieri ed esco alla ricerca di un internet café. Ci sono già attorno a me dei segnali di una qualche emergenza. La mia memoria li registra ma sul momento non riesco ancora a mettere assieme i pezzi di quel puzzle dell'orrore. C'è parecchia polizia per le strade e un elicottero sorvola la zona. Anche nelle dinamiche del traffico c'è qualcosa che lo rende leggermente diverso da quello di ogni giorno.
Mi siedo davanti ad un computer nuovo di zecca ed inserisco i dati necessari ad aprire la mia casella di posta. Quando sto per premere il tasto enter sento qualcosa che vibra nella mia tasca, poi riconosco lo squillo del telefonino.
Rispondo in inglese. "Hello?"
"Pronto..." è la voce di mio padre - E' natale, penso io, vorranno farmi gli auguri...No! Un attimo...non è Natale, ieri era Natale, oggi è il 26...che strano...-
"Pronto...Fabio..." la voce tradisce una certa ansia. Comincio ad insospettirmi. Nel retrobottega della mia mente è come se un'immagine cominciasse lentamente ad andare a fuoco.
"Sì, ciao papà..."
"Fabio! Sono contento di sentirti!". Lo sono anch'io, come al solito, ma mi è ormai chiaro che non è proprio quello che intende lui. Tra l'altro mi è sembrato di sentire la voce di mia madre nel sottofondo. E' come se anche lei fosse sollevata dalla notizia della mia risposta.
Nel giro di qualche secondo mio padre capisce che sono all'oscuro della causa della sua preoccupazione. Aveva chiamato per ricevere notizie e finisce invece per fornirmene.
"C'è stato un maremoto...proprio nella zona in cui ti trovi tu...". Sembra che stiano leggendo o ascoltando le notizie proprio mentre me le stanno riportando. "Indonesia, Sri Lanka...sì...anche in Thailandia...parlano proprio di quell'isola in cui dicevi di voler andare...".
Già, parlano di Phuket, l'isola in cui mi trovo io, e anche di Koh Phi Phi, un'altro paradiso tropicale in cui sono stato più di qualche volta. Poi di Krabi, Pha Nga, Koh Lanta...tutti posti che conosco bene. Morti a centinaia, forse a migliaia, a decine di migliaia se si considera tutta l'area coinvolta.
Un'area che va dall'Indonesia alle Maldive. Dallo Sri Lanka alle isole Andamane e alla Birmania. Una buona parte dell'Asia del sud e del sud-est. La zona in cui mi muovo da ormai più di tre anni.
Voglio raggiungere degli amici che abitano sull'isola per seguire le notizie in TV. Sono sul motorino e sarebbe ormai impossibile per chiunque non accorgersi di niente. Il cielo terso è pieno di elicotteri, alcuni dei quali, quelli dell'esercito, volano molto bassi e mi sembrano enormi. Credo vengano impiegati per le operazioni di evacuazione e per il trasporto dei feriti gravi. Sembra di osservare una nuvola di calabroni maculati e rumorosi.
Il traffico è impazzito e i poliziotti quasi si soffocano sui loro fischietti. Le strade che convergono sull'ospedale Wittayara sono praticamente bloccate.
Con l'aria calda del pomeriggio che mi investe la faccia penso a tutti i posti che ho visitato in questi anni e che sono stati raggiunti dalle onde.
La costa occidentale della Thailandia. L'isola di Penang sulla costa della Malesia. Sumatra e Banda Aceh, la punta occidentale della grande isola indonesiana in cui non sono riuscito ad entrare a causa della guerra civile. Da anni in quella fetta di terra poggiata sul petrolio si contano i morti tra i militari del governo centrale, i guerriglieri separatisti e ovviamente tra i civili. Ci mancava soltanto il terremoto.
E poi le coste indiane del Tamil Nadu. La caotica Madras. Mamallapuram con quel fantastico tempio sulla spiaggia. Lì le onde sono arrivate di sicuro...è un luogo suggestivo ed estremamente sacro perciò turisti e fedeli Hindu vi convergono a centinaia ogni minuto.
Kanyakumari, l'estremità meridionale dell'India, il punto in cui idealmente si incontrano il golfo del Bengala, il mare Arabo e l'oceano Indiano. I tre mari si stringono la mano, mescolando le proprie acque in modo assolutamente pacifico, senza disturbare i numerosi fedeli che vi si immergono per un bagno propiziatorio. Sarà stato spazzato dall'onda? O quella grande goccia di terra che è lo Sri Lanka sarà servita a riparare col suo sacrificio di vite umane questa punta sacra del Tamil Nadu?
Il bianchissimo lungomare di Pondicherri, l'enclave dalla quale i francesi avevano provato a contrastare la supremazia degli inglesi per la colonizzazione del subcontinente. Una città con i ritmi da moviola. I miei ricordi ruotano attorno al bell'edificio del consolato francese e al grande Ashram di Aurobindo. Ricordi che sanno di frutta esotica, caffè, dosa masala e semi di finocchio. Un gelato seduto sugli scogli di un litorale color gesso, che possiede alcuni tratti della riviera Fitzgeraldiana. Proprio poche settimane fa ho conosciuto a Singapore un garbato signore di Pondicherri. Terminato un contratto di consulenza negli Stati Uniti, aveva deciso di prendersi una pausa per trascorrere un paio di mesi con la famiglia. Lo avevano chiamato a Singapore per tenere un corso. Aveva accettato un po' perché lo avevano implorato e un po' perché in fondo era una buona occasione, ma era sinceramente seccato. Finito il corso se ne era tornato felicemente a casa. In questi giorni era sicuramente lì...
Infine lo Sri Lanka...ricordo di non esserci voluto andare...fu una forma di protesta silenziosa (e donchisciottescamente inutile) contro la chiusura del ponte che lo collega all'India.
Avevo letto di quel suggestivo tragitto in treno sul mare in un libro di viaggi del romanziere americano Paul Theroux.
Quando arrivai scoprii che il ponte era chiuso a causa della guerra tra il governo del sud e le Tigri Tamil. L'isola risultava quindi raggiungibile soltanto con l'aereo.
Arrabbiatissimo non volai e mi diressi per consolarmi verso le spiagge rosse e le immense distese di palme da cocco del Kerala.
Ancora la guerra civile. I due posti più duramente colpiti, Banda Aceh e Sri Lanka, sono reduci da anni di sanguinosi combattimenti interni...
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A casa dei miei amici osserviamo attoniti le prime allucinanti immagini che hanno impietrito il mondo.
Comincio a rendermi veramente conto della portata del disastro...e di quella della mia fortuna. Un intreccio quasi sospetto di coincidenze ha fatto in modo che non mi trovassi in alcune delle zone più duramente colpite dal maremoto nel momento meno opportuno.
Ma non è stata solo una questione di pure coincidenze. C'è qualcosa di più, qualcosa che mi appartiene, che mi identifica.
Forse alcuni di voi mi assomigliano. Il vostro comportamento segue l'istinto, le vostre inclinazioni, i vostri desideri e, perchè no, i vostri sfizi. Io sono fatto così. Chi mi conosce lo sa, e chi mi vuole bene ci si è dovuto rassegnare.
Nella mia vita ho avuto a che fare con molti piani, ma quasi mai con un piano elaborato da me, per me. E quando l'ho fatto non si trattava di niente di estremamente importante.
Mi va bene così. Ho una laurea e un master ma non una professione. Ho avuto vari lavori ma non ho una carriera.
Conosco molte donne ma non ho una compagna. Mi sono abituato a non avere una casa, né una famiglia vicino a me. Ad avere a che fare coi limiti imposti dalle dimensioni del mio bagaglio, sempre disfatto solo per metà, pronto per la prossima partenza.
Compro un nuovo paio di pantaloni solo quando mi sbarazzo di un paio di quelli vecchi. Fortunatamente per me certe cose non hanno mai avuto una grande importanza.
E proprio questo si è rivelato spesso la causa di attriti e discussioni con amici, parenti e conoscenti che non condividono o forse semplicemente non capiscono il mio punto di vista.
È sempre stato frustrante sentirsi inchiodati al muro dalle domande e dalle conclusioni di chi cercava di ricevere spiegazioni soddisfacenti per le mie scelte atipiche.
La verità è che utilizzando un processo logico che parte da presupposti generalmente condivisi certe cose effettivamente non risultano sensate.
Comportarmi così, muovermi un po' alla cieca, in modo apparentemente irrazionale, è il mio modo di sentirmi libero.
A volte mi sento come un marinaio in mezzo alla bufera. Non si vede niente, apparentemente non ci sono punti di riferimento. La scelta giusta per uscire dalla situazione critica, il marinaio la trova da qualche parte dentro di sé. La direzione da prendere gliela suggerisce l'istinto. A volte sente semplicemente che tutte le altre alternative sono sbagliate.
Non voglio dare lezioni a nessuno, non ne sono capace. Ma su certi punti ormai ho capito che con la razionalità non mi si convince.
Non importa se ad alcune domande dei nostri critici non sappiamo dare una risposta soddisfacente. Non importa se il silenzio che lasciamo seguire sembra sancire la vittoria dell'approccio logico. Chi è come me lo sa. Certi comportamenti e certe convinzioni non li cambieremo mai. Fanno parte di noi.
Ci sentiamo sereni quando li esprimiamo e ci troviamo estremamente a disagio quando per qualsiasi ragione ci comportiamo altrimenti.
Non mi preoccupo più quando non riesco a dare quelle risposte. E quei silenzi ho imparato a riempirli con il gusto che provo nell'affidare tutto all'irrazionale, al fiuto, all'istinto...
...fino al 26 dicembre 2004.
Perché? Cos'è cambiato dopo la catastrofe?
Il desiderio di raccontare questa storia nasce da considerazioni elaborate a freddo su temi antichi e iperdiscussi. Il fato, il destino, il rapporto con la morte.
Personalmente di solito ci penso per sfizio. Poi succede qualcosa, qualcosa di grosso e ci si ritrova invischiati in un vizio vecchio come l'uomo. Quello di voler dare, forse impropriamente, un senso a situazioni, circostanze e avvenimenti fino ad allora ritenuti casuali.
Facciamo un ulteriore passo indietro.
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Sono circa le undici della mattina di Natale quando arrivo all'aeroporto di Phuket con un volo proveniente da Kuala Lumpur. Ho ancora davanti agli occhi le immagini delle celebrazioni natalizie nella capitale malesiana. Non mi è piaciuto molto il modo in cui si festeggia da quelle parti. Tutti in strada fino a notte fonda a lanciare razzi. O a spruzzare bombolette di schiuma sui passanti e sulle auto, preferibilmente su quelle con i finestrini aperti. L'atmosfera assomiglia vagamente a quella del nostro carnevale. Ho proprio voglia di rilassarmi e distrarmi nella mia Thailandia.
La settimana che va da Natale a Capodanno è periodo di altissima stagione in questa perla del mar delle Andamane. Le code ai banchi dell'immigrazione sono più lunghe che mai. Ci sono anche molti italiani ma soprattutto turisti dal nord europa.
Ovviamente non ho nessun piano e men che meno una prenotazione. Come destinazione la mia prima scelta sarebbe Koh Phi Phi, dove potrei incontrare Richard, un amico inglese che non vedo da un pezzo. E' appena guarito da un tumore grazie ad una lunga cura di chemioterapia: fargli le congratulazioni e gli auguri di Natale sarebbe un gran bel modo di cominciare le vacanze. Phi Phi è però un'isola molto piccola che nei mesi invernali viene presa d'assalto da migliaia di turisti stranieri. A Phi Phi posso tornarci a giugno, quando è tranquilla e meno cara. Richard lo posso incontrare altrove.
Perché no?
Decido di ripiegare su Phuket. Telefono ad un hotel in cui alloggio spesso...purtroppo è pieno.
Salgo quindi su un minibus diretto a Patong beach, la spiaggia più gettonata e sviluppata dell'isola. Le abitazioni più vicine alla spiaggia in questo periodo sono tutte esaurite.
I prezzi sono da capogiro, non ci provo nemmeno. Mi dirigo verso alcuni alberghi di categoria inferiore sistemati a qualche centinaio di metri dal mare. Alla reception di un hotel usualmente abbordabile un baldanzoso ladyboy - ovvero un travestito - mi spara dei prezzi assurdi per delle stanze al limite della decenza. Lì per lì decido che questo posto in questi giorni non fa proprio per me. Tanto in spiaggia avrò l'occasione di tornarci in qualunque altro momento. Perché no?
Mi fermo in un ristorantino popolare e ordino qualcosa da mangiare. Poi telefono a Robert, un amico slovacco che insegna inglese in una scuola nella Thailandia centrale. Robert è in vacanza e alloggia a Phuket town, la capitale della provincia, qualche chilometro all'interno. Mi fa sempre piacere incontrarlo ed inoltre non mi sono mai fermato in città per più di un paio d'ore. Alcune aree del centro conservano ancora dei tratti architettonici di periodo coloniale. È una buona occasione per visitarla.
La faccio in barba ad un tassista che mi aspettava al varco e piglio al volo un autobus che per meno di mezzo euro copre il tragitto.
Poche ore più tardi sono a cavallo del mio Honda Dream diretto a Nai Han, una cala piccola e deliziosa incastonata sull'angolo sud-occidentale dell'isola. Ci metto un po' per imboccare la strada giusta. I thailandesi sono persone generose e si fanno in quattro per aiutarti. Con le loro informazioni però riuscirebbero a farmi perdere l'orientamento anche in una pista ovale. Recupero una mappa e mi raccapezzo da me.
Una mezzora più tardi incontro Robert ad una festa. Siamo in una bella villa con piscina, affittata da un inglese che non se la merita affatto. Dopo un paio d'ore ne abbiamo abbastanza e decidiamo di trascorre la notte a Patong. Oltre a noi due sul motorino c'è anche Daniel, un americano che insegna inglese nella stessa provincia in cui vive Robert. Di Honda Dream con tre passeggeri a bordo da queste parti se ne vedono parecchi, non c'è niente di cui preoccuparsi. Inoltre il mio amico slovacco è un ottimo pilota.
Percorriamo in tre quarti d'ora le poche decine di chilometri che separano la piccola cala dalla lunga lama bianca di Patong beach.
La sequenza delle spiaggie che si stendono lungo il litorale occidentale di Phuket è come una fila di perle sul collo di una bella donna. Nai Han, Kata Noi, Kata, Karon, Patong e poco oltre Kamala sono stupende anche a quest'ora della notte, sotto lo spruzzo di luce di una luna non più piena. Le ripide colline che le separano sono coperte da una vegetazione rigogliosa di cui il fascio di luce del fanale illumina solo un misterioso campione. Pochi chilometri più a nord vi è Khao Lak con le sue resorts di lusso. Al di là del ponte che collega l'isola alla terra ferma si sviluppa la baia di Pha Nga, punteggiata da rocce alte e strette che spuntano dall'acqua scura come degli smilzi panettoni verde-oro, lievitati male.
Verso sud-est si trovano invece le isole gemelle di Phi Phi e la rossa Koh Lanta, proprio davanti alla spigolosa costa di Krabi. Sono nomi che tuttora, mentre investito dalla brezza della sera osservo incantato il paesaggio, per molta gente sono sconosciuti. Fra poche ore invece si faranno spazio a spallate nei telegiornali di tutto il mondo.
Dopo una spruzzata di pioggia all'altezza di Karon, Robert fa arrampicare il motorino lungo l'ultima salita che ci separa da Patong.
Qui trascorreremo le prossime sette-otto ore tra bar, locali notturni, birre, drinks, chiacchierate, turisti, ragazze più o meno per bene, luci colorate e musica di ogni genere. Poi, tra le sei e le sette di mattina del giorno di Santo Stefano, risaliamo sul motorino e ce ne torniamo a Phuket town.
Secondo i miei calcoli la tremenda scossa di terremoto sviluppatasi al largo della costa di Sumatra ha colpito mentre ci trovavamo in sella al motorino, ancora a Patong o sulla via del ritorno. Un paio d'ore più tardi la tragedia. Patong beach, le altre spiaggie thailandesi con i nomi ancora semi-sconosciuti e molte altre località dell'Asia meridionale non saranno più come le ho viste io questa notte - almeno per un bel pezzo.
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Seduto davanti al televisore accanto a Robert, a poche ore dal maremoto, mi sfreccia davanti agli occhi una sfilza di se.
Se fossi andato a Koh Phi Phi? Se avessi trovato posto in un bungalow delizioso ma deboluccio vicino alla spiaggia? Se mi fossi fermato a Patong? Se l'onda avesse colpito quando ci aggiravamo nei pressi della spiaggia con le birre calde in mano? O quando ci trovavamo all'interno di un affollato locale che si affaccia sul lungomare? E se stamattina invece di tornare in città ci fosse venuta l'idea di stenderci a riposare in spiaggia?
Parte di tutto ciò ha a che fare con scelte operate più o meno casualmente davanti a un paio di alternative. Oppure a circostanze che mi hanno costretto ad effettuare una mossa forzata, non una vera scelta.
Il resto ha invece a che fare con il mio atteggiamento, con il mio comportamento, con il mio modo di essere e di affrontare la vita. Con la mia abitudine di lasciare tutto al caso, con la mia avversione nei confronti di tutto ciò che sa di programmato e pianificato.
Sono un bambino di trenquaquattro anni. Uno che non prenota mai una stanza prima di arrivare in una località affollata. Nemmeno in alta stagione. Uno a cui non danno fastidio le sterzate brusche e che su due piedi decide di rimettersi il bagaglio in spalla e di salire su un autobus diretto in città, solo perché in spiaggia non tira una buona aria. Uno che si diverte a uscire la sera, a ballare, ad ascoltare musica, a bere, a gironzolare senza meta, a chiacchierare col primo che passa e a correre dietro alle ragazze. Uno che di mattine in spiaggia ne vede pochissime. E quando ne vede una, molto probabilmente lo fa solo per aggiungere un’appendice ad una notte di cui ha già nostalgia.
Non ho mai avuto niente da rispondere a chi mi chiedeva perché a trentaquattro anni continuo a comportarmi così...
...ora ce l'ho...
...se sono qui a scrivere questa storia lo devo sì alla fortuna, ma anche alla mia immaturità.
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E' la mattina del 27 dicembre, c'è un pensiero che continua a tormentarmi. Ho almeno tre amici di cui conosco nomi e nazionalità che con buona probabilità ieri si trovavano in zone a rischio.
Richard, il ragazzo inglese appena guarito dal cancro, il 24 dicembre aveva mandato ad una lista di amici una email di auguri di Natale. Aveva allegato una foto. Lui ed altri due biondissimi amici, apparentemente due scandinavi, stavano in riva al mare, con i piedi in acqua, in testa dei berretti da Babbo Natale, e reggevano uno striscione in cui avevano scritto "Auguri da Phi Phi". Terminava la lettera chiedendo scusa a chi si trovava in qualche località fredda e umida e implorava sarcasticamente di non odiarlo troppo. Ma chi ti odia Richard!
Ce l'ho davanti agli occhi quell'immagine, perfettamente a fuoco, il suo sorriso sincero e quello sguardo sveglio. Ero rimasto ad osservare la foto con attenzione, cercando di scorgere qualche traccia della recente malattia, o qualche segno lasciato dalla chemio. Non c'era niente, sembrava sano e forte, come sempre.
Jeff, un altro inglese, di origini italiane. Sapevo che si trovava in Thailandia e le ultime notizie che avevo ricevuto da lui risalivano ad un paio di settimane prima. Si stava spostando da Phuket a Phi Phi...come si suol dire: dalla padella alla brace.
Nuttiya, di soprannome Tip, una dolce ragazza thailandese che avevo conosciuto alla reception di un hotel di lusso a Bangkok. Stanca della vita nella grande città si era riavvicinata alla famiglia andando a lavorare in un hotel di Krabi.
Richard che nasce per la seconda volta e sceglie Phi Phi per ricominciare. E Tip che dopo anni trascorsi a Bangkok se ne torna a Krabi per riconquistare la serenità. Sembrano due chiamate alle armi. Arruolati con l'inganno nell'esercito del destino. Un destino chiamato tsunami.
Phuket, Phi Phi, e Krabi. Il numero dei morti aumenta ad un ritmo da battaglia campale. Devo cercare di recuperare notizie fresche sui miei amici. Ho controllato la mia casella di posta elettronica per vedere se erano arrivate loro notizie e per rassicurare chi mi scrive per sapere se sto bene. Non è arrivata nessuna email che metta un freno alle mie preoccupazioni. Non che nutrissi grandi speranze: pensare che a Phi Phi sia possibile usare internet proprio adesso è un'idea che riesce quasi a divertirmi persino in circostanze così drammatiche. L'unica email che avrei potuto ricevere era quella di Tip: nel genere di hotel in cui lavora potrebbero ancora disporre di un collegamento funzionante. Vorrei chiamare l'hotel ma non riesco a ricordarne il nome. Tento invano di raggiungerla al cellulare: le linee di telefonia mobile sono completamente intasate. E lo resteranno per i seguenti tre giorni. Anche i miei genitori mi avevano detto di essere riusciti a prendere la linea solo dopo numerosi tentativi.
Poveretti, me li posso immaginare. Davanti alla televisione che divulga notizie apocalittiche provenienti da un luogo lontano, in cui sanno si trova il loro figlio. Al telefono potevo sentire mia madre che nell'emozione del momento suggeriva ingenuamente a mio padre: "Digli che però dovrebbe farsi sentire in situazioni del genere". E mio padre che le rispondeva: "Ma dice che non ne sapeva ancora niente...".
Figurarsi se li avrei lasciati in pensiero sapendo quel che stava succedendo. Altri due o tre minuti e avrei letto la notizia sul sito di un giornale. Avrei quindi lasciato immediatamente una email rassicurante e avrei cercato di chiamarli. L'ironia della sorte ha voluto invece che mi telefonassero prima loro per raccontarmi da migliaia di chilometri di distanza quel che stava succedendo proprio attorno a me.
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Le autorità thailandesi hanno allestito un centro di coordinamento delle operazioni di emergenza presso il complesso che ospita la sede del comune di Phuket town. Mi ci dirigo a tutta velocità col mio ormai inseparabile motorino.
C'è un via vai continuo di mezzi attraverso lo stretto corridoio di ingresso. Sul grande giardino stanno seduti dei turisti, o meglio ex-turisti. Alcuni hanno formato un cerchio attorno ad un mucchio di borse e zaini, altri sembrano non avere niente appresso. Molti di loro reggono tra le mani un foglio di carta con una scritta. C'è chi cerca qualcuno e chi invece espone semplicemente il nome del proprio paese. Vogliono creare un gruppo di connazionali. Forse per farsi coraggio. Per organizzare il ritorno a casa.
Sono state montate delle tende. Alcune di esse servono ad organizzare la distribuzione di viveri, indumenti, bevande e qualsiasi altro genere di prima necessità.
Altre sono adibite a centro di prima assistenza. Ci sono vari banchi sopra ognuno dei quali è stato appeso un cartellino col nome di una nazione. Italia, Spagna, Svezia, Norvegia, Israele, Germania. C'è persino un'anacronistica Cecoslovacchia.
Ad ogni banco stanno appostate una o più persone. Sono in gran parte thailandesi, molti parlano la lingua del paese a cui si dedicano. Sono quasi tutti agenti dei numerosi tour operator presenti nell'isola, gente che si dà un gran da fare e che continuerà a lavorare per diverse ore.
Molte delle tende presso le quali si offrono cibo e bevande sono organizzate da ristoranti o aziende gastronomiche. Non so se vengano finanziati dal governo ma non mi stupirei se non lo fossero. Alcuni colgono l'occasione per farsi un po' di pubblicità con un'insegna discreta, altri non ci hanno nemmeno pensato.
Anche loro si impegnano alacremente per mettere a proprio agio almeno un po' chi non ha più alcun punto di riferimento. La mattina stessa avevo fatto colazione in un ristorantino nei pressi del mio albergo. C'era lì una squadra dedicata a tempo pieno alla preparazione di razioni da campo. Un cuoco indaffaratissimo spadellava chili di frittata a ritmi da caserma. Due donne ne sistemavano poi una dose sopra ad una porzione di riso versata precedentemente in una scatola di polistirolo. La scatola veniva quindi chiusa e fissata con un elastico da mani velocissime. I pacchi infine venivano periodicamente caricati su un furgoncino che provvedeva a portarli al municipio ancora caldi.
Sono stati allestiti dei centri per le telefonate internazionali a beneficio dei sopravvissuti. Ci sono inoltre dei computer per l'accesso ad internet. Ovviamente ogni servizio è gratuito, bisogna soltanto mettersi in coda.
L'edificio in fondo al cortile è il centro nevralgico delle operazioni. Sul pianerottolo d'ingresso c'è il banco della reception. Accanto al banco cinque o sei persone si danno il turno al microfono per impartire istruzioni in varie lingue.
Noto in particolare una signora thailandese dall'aria vagamente sessantottina e un signore francese che si muove con efficienza e ordine. Si comporta con estrema serietà. Mi dà comunque l'impressione che in un altro contesto sarebbe in grado di sfoggiare simpatia e senso dell'umorismo. Trasmette sicurezza, una caratteristica fondamentale in una situazione del genere. E' decisamente la persona giusta al posto giusto.
Davanti all'edificio sono sparpagliati dei volontari che reggono dei cartelli con le istruzioni per chi ha perso tutto, compreso il passaporto. Bisogna farsi prendere le impronte digitali, rilasciare i propri dati alle autorità locali, registrarsi presso i banchi della propria ambasciata, ecc.
Quando si sono completate le operazioni di riconoscimento, se non si è fisicamente impossibilitati ci si può imbarcare in uno dei frequenti voli per Bangkok da dove partono i charter organizzati dalle ambasciate.
Alla destra dell'entrata c'è un grande tabellone su cui vengono affissi degli elenchi con dei nomi. Sono i nomi dei feriti, suddivisi per località e ospedale di ricovero. In momenti come questi anche le più banali regole dettate dal tatto e dalla sensibilità non sempre possono essere rispettate.
Sopra ad alcune delle liste c'è la parola Morti, cancellata con una semplice riga di pennarello e corretta con Feriti.
Sullo stesso tabellone sono appese delle foto agghiaccianti. Sono quelle dei primi cadaveri recuperati che non sono ancora stati identificati. Sono volti sfigurati dal gonfiore, dalle ferite e da quell'ultima espressione di stupore e terrore che deve aver preceduto il decesso. Considerando le proporzioni che ha assunto la catastrofe credo abbiano smesso da un pezzo di affiggere quelle foto.
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Entro nell'edificio. Al piano inferiore ci sono i bagni. Al piano terra è stato allestito un pronto soccorso provvisorio. In tutta l'area si incontrano infatti persone con bendaggi, cerotti e ferite evidenziate dal rosso del mercuro cromo.
Al piano superiore c'è una sala molto grande all'interno della quale sono stati sistemati i banchi per gli addetti delle ambasciate. Anche qui ogni nazione è indicata da un foglio di carta appeso ad un muro o semplicemente appoggiato sul tavolino.
Gran parte della gente fa con umiltà e calma quel che gli è stato detto di fare. Al banco del nostro paese scambio qualche parola con una coppia che si trovava a Khao Lak, una località spazzata via dalla serie di onde. La ragazza, che nonostante l'accento slavo parla un'ottimo italiano, mi racconta che qualcuno durante la fuga ha trovato il tempo di bussare alla loro porta per avvertirli. Hanno fatto appena in tempo ad uscire prima che l'onda demolisse la loro casetta.
Chiedo ad uno degli addetti, una signora bionda, se sa qualcosa della situazione a Phi Phi. Mi dice che per ora si sa soltanto che mille persone stanno arrivando dall'isola. Sono dirette a questo centro di accoglienza.
In questa sala però comincio anche percepire le prime note stonate di una situazione che fino a questo momento mi ha sinceramente riempito il cuore di emozione.
Alcune persone al banco della ambasciata italiana pretendono senza troppe cortesie di essere imbarcate sul volo di ritorno organizzato dal governo. Li ascolto e li osservo.
Hanno un biglietto da qualche migliaio di euro - ci tengono a far sapere - per un volo di ritorno che però parte solo fra qualche giorno. Hanno tutto con loro: bagagli, soldi e passaporto. Hanno semplicemente fretta di levarsi dai piedi.
Tengono impegnati gli addetti - che tempo da perdere non ne hanno molto - con le loro spiegazioni contorte e indignate. La signora bionda con cui avevo parlato poco prima è convinta che questo tizio stia chiedendo all'ambasciata di cambiare la data del suo ritorno con la Thai Airways. Gli fa quindi notare che quella non è un'agenzia di viaggi. Il suo collega, più anziano e navigato, capisce immediatamente di cosa si tratta. Domanda dunque al signore se sta chiedendo di anticipare la partenza con la Thai Airways o se vuole invece trovare posto nel volo del governo.
Alché quel signore petulante comincia ad annuire con ampi cenni del capo, sottolineando la propria propensione per la seconda alternativa con dei fragorosi "Ehhh...ehhhh...". Ci sarebbe di che ridere, sembra un personaggio da commedia. Mi fa invece una certa rabbia. L'addetto dell'ambasciata lo calma spiegandogli che se la situazione nelle prossime ore non peggiora potrebbe trovare posto nell'aereo. Non promette però niente di concreto. Probabilmente ha già pensato quello a cui sto pensando io. Tra quei mille sopravvissuti che arrivano da Koh Phi Phi quanti italiani ci saranno? E dalle altre località ancora più remote, Koh Lanta per esempio, quanti ne arriveranno? E quanti staranno in una situazione peggiore di questo individuo? In ogni caso poi, è corretto dare la precedenza ad un italiano che sta bene lasciando magari sull'isola uno sloveno o un austriaco che hanno perso tutto? Io non ne so molto di protocolli e regolamenti però il buon senso, se non la solidarietà o la generosità, consiglierebbe di adottare un atteggiamento diverso. Come quello che adottano altri connazionali che se ne stanno in fila, aspettando il proprio turno. Alcuni di essi hanno perso tutto, ma non alzano la voce. Scontano il proprio disagio rispettando al contempo quello altrui.
Mi ricordo ad un tratto dei miei amici inglesi e mi metto alla ricerca dell'ambasciata del Regno Unito. Faccio il giro della stanza ma non riesco a trovarla.
Nel frattempo qualcuno al microfono annuncia che è finalmente arrivato un addetto dell'ambasciata Sudafricana. No! Lo speaker si scusa per l'errore. E' l'ambasciatrice in persona. Tanto di cappello! Mi chiedo quanti altri ambasciatori si siano scomodati. A me non sembra ancora di averne visti.
Alcuni giorni più tardi, su un volo da Bangkok a Kuala Lumpur, viaggerò seduto accanto all'ambasciatore della Colombia in Malesia, responsabile anche per Vietnam e Thailandia. Lui e la moglie erano per caso in vacanza a Bangkok. Non si sono mossi dalla capitale. Hanno seguito la situazione attraverso internet.
Attraverso internet?...ma che significa? Se loro figlio fosse stato a Koh Phi Phi avrebbero seguito la situazione attraverso internet? Quali sono le responsabilità di un ambasciatore?
In realtà, mi confessa la moglie, i colombiani in vacanza da queste parti erano proprio pochi...ah beh, signora, se erano pochi allora...non vorremo mica cancellare la visita al Wat Pho e al Jatujak - il mercato del fine settimana - per quattro cittadini colombiani in ferie, vero? In fondo siamo soltanto l'ambasciatore e signora!
Mi fermo al banco dell'ambasciata degli Stati Uniti e chiedo ad un giovane addetto dove sono i britannici. Questi si guarda attorno, disorientato come lo sono io, mormorando "the British...hmmm...the British...". Poi sembra ricordarsi qualcosa e mi spiega che i suoi colleghi britannici si sono sistemati fuori, sull'erba davanti all'edificio. Il loro banchetto sta sotto ad una bandiera, la Union Jack.
Ringrazio ed esco dalla sala dove non si riesce quasi più a respirare. Il banco degli inglesi sta proprio davanti al tabellone con le liste dei feriti e le foto dei defunti.
Chiedo se sanno qualcosa dei loro connazionali a Phi Phi. Mi rispondono che le notizie sono frammentarie. Faccio il nome di Richard. Non gli suona familiare. Poi quello di Jeff. Nemmeno questo. Non so cosa pensare, in un certo senso in queste situazioni vale la regola "nessuna nuova, buona nuova".
Ascolto gli speaker che si alternano al microfono. Parlano thailandese molto velocemente, colgo qualche parola qua e là e mi sembra di capire che stiano cercando persone che parlano varie lingue, tra cui l'italiano. "Phuut Pha saa Italii daai".
Mi offro volontario. Mi chiedono di aspettare un attimo. Poi si fa avanti una volontaria e mi spiega che se voglio darmi da fare come traduttore devo recarmi alle tende di prima accoglienza, quelle che avevo visto all'inizio, con i banchetti e i cartellini indicanti i nomi dei paesi.
Attraverso nuovamente il cortile, al centro del quale sta una grande fontana, e torno all'area indicatami. Al banco per gli italiani mi sembra che le attività procedano in modo ordinato. I traduttori thailandesi sono tutti impegnati, non li voglio disturbare. Mi passa vicino un ragazzo occidentale con un cartellino appeso al petto che dice ‘traduttore’. Gli chiedo se c'è bisogno di volontari. Questo comincia a parlarmi lentamente e mi chiede in quale lingua ho bisogno di una traduzione. Mi ha evidentemente scambiato per un sopravvissuto che sta cercando aiuto. Dev'essergli subentrata una sorta di deformazione professionale da attività di emergenza. Ripeto la domanda, questa volta capisce di cosa si tratta e mi suggerisce di recarmi al banco degli italiani.
Chiedo ai volontari thailandesi. Mi spiegano che dovrei presentarmi alle persone che parlano al microfono, vicino all'edificio. Esattamente quelli che mi hanno mandato qui. Catch 22! Ovvero Circolo vizioso! Credo di aver capito che sia meglio arrangiarmi.
Mi guardo attorno per vedere se c'è qualcuno che ha bisogno di aiuto. Cerco di individuare gli italiani. Molti di essi infatti non capiscono le istruzioni che vengono impartite in inglese, men che meno quelle in thailandese.
Mentre cerco di rendermi utile a chi ha bisogno di informazioni che non è finora riuscito a comprendere, mi imbatto in varie situazioni, conosco gente di ogni tipo. Alcuni di essi si rendono protagonisti di ulteriori scene deludenti.
Tra i molti che sopportano la sorte che gli è toccata con dignità e rispetto, ci sono altri personaggi che non perdono l'occasione per lasciarsi andare a slanci di esibizionismo o di ipocrisia. Ce ne sono di ogni nazionalità. Personalmente però colgo meglio le sfumature nei dialoghi e negli atteggiamenti dei miei connazionali.
Ci sono degli uomini, alcuni nemmeno troppo giovani, che raccontano urlando la loro esperienza. Si trovavano a Patong beach,. Evidentemente non dovevano stare molto vicini alla riva, considerando che con una veloce corsa sono riusciti ad arrivare sulla collina che domina la spiaggia, ben più di un chilometro all'interno, lungo una strada per gran parte in salita. E si lamentano perché per ben sei ore nessuno è andato a soccorrerli. Stavano in salvo, in un'area residenziale. Un posto in cui probabilmente ristoranti e negozi non hanno mai chiuso. Cosa pretendevano? Che fosse inviato un elicottero a prelevarli? Uno di quei preziosi elicotteri che tuttora stanno cercando di mettere in salvo i feriti gravi, rimasti direttamente coinvolti dall'arrivo dell'onda. Sono preoccupatissimi perché non riescono ad utilizzare il loro telefono cellulare, mi aspetto che da un momento all'altro si lamentino per l'inefficienza delle compagnie telefoniche locali. Sembrano non rendersi assolutamente conto di quello che i volontari thailandesi - e non - stanno facendo attorno a loro.
C'è poi una giovane donna che si sposta da gruppo a gruppo con fare da damigella da ricevimento. Sembra che si sia preparata per una serata di gala. Dove avrà trovato il tempo per vestirsi e truccarsi in quel modo? Lo tsunami ha colpito di mattina, non può averla colta agghindata così, in assetto da cocktail. Abbraccia un gran numero di persone, mi sembra che ritenga fondamentale dimostrare di essere una figura notoria.
Ho osservato altra gente sprizzare felicità per aver reincontrato qualcuno di conosciuto, nessuno però la sbandiera in modo così teatrale.
Mi ritornano alla mente le parole di un amico pittore che vive a Madrid. Nella grande marcia antiterrorismo che aveva seguito l'attentato dell'11 marzo, aveva notato in alcune persone una punta di ipocrisia, di esibizionismo.
Penso anche ad un email che ho ricevuto oggi stesso dall'Italia. Con sagace ironia tutta toscana un altro amico mi spiega che la TV intervistava spavaldi eroi che hanno dovuto resitere per ben tre ore senza soccorsi! Senza peraltro trovarsi in situazioni particolarmente critiche.
Fortunatamente per ogni esempio negativo ce ne sono numerosi di rincuoranti. Continuando ad aggirarmi nel cortile, dove ormai è calato il buio, all'altezza della grande fontana centrale incontro quello che nella mia memoria resterà il piccolo grande eroe della giornata.
L'avevo già incontrato in precedenza, al banchetto di prima accoglienza. Un giovane italiano, mingherlino, basso di statura, con la faccia da secchione, i ricciolini arruffati, il nasone sproporzionato, le labbra distorte in un sorriso perennemente cortese, che nemmeno queste dannate onde sono riuscite a spazzare via. Al banchetto gli avevano fornito le informazioni necessarie per le operazioni di riconoscimento e l'avevano mandato all'edificio delle ambasciate.
Lo incontro di nuovo mentre ritorna. Cammina al fianco di due madrelingua inglesi che, come spesso accade, non si rendono conto di quando è il caso di rallentare la parlata. Il mio amico capisce forse una parola ogni cinque di quelle pronunciate dal suo interlocutore. Sulle prime non lo riconosco, questa zona del cortile non è ben illuminata.
Ascolto distrattamente quello che l'altro gli sta dicendo.
"Prosegui in questa direzione e poi trovi una grande tenda" gli spiega con un accento britannico abbastanza stretto "ci sono tavoli per ogni nazionalità: Spagna, Germania, Italia...".
Sulla parola Italy il mio simpatico amico si scompone.
"Italy! Italy!" esclama emozionato.
Mentre l'inglese si defila mi faccio avanti io.
"Sei Italiano?"
"Sì...sei italiano anche tu?"
"Certo, cosa cerchi?"
"Il banco in cui si compilano i moduli..."
"Ah, è proprio lì, vedi?" e indico le tende per la prima accoglienza che stanno davanti a noi, a non più di venti metri di distanza.
"No...non vedo niente, ho perso anche gli occhiali, questo è tutto quello che mi è rimasto..." e con un gesto lento si fa passare le mani davanti al corpo, dal petto alle coscie.
Una magliettina rossa, un paio di boxer da spiaggia e delle ciabattine infradito, le flip flop. Stava a Khao Lak, come la coppia che ho incontrato al banco della nostra ambasciata. Una località completamente rasa al suolo dall'acqua.
Non c'è niente da fare, ci vuole ben altro che una serie di devastanti cavalloni che gli distruggono il bungalow e gli portano via tutto, pure gli occhiali, per togliergli quello splendido sorriso dal volto. Non sono mai riuscito, nemmeno per un instante, a scorgere un segno di vittimismo nelle sue risposte. Nessuna nota teatrale nel suo atteggiamento. L'avrete già notato, sono uno che fa parecchia attenzione a questi particolari, forse sono anche troppo severo. Ma questo ragazzo passa l'esame della dignità a pieni voti.
Ha proprio l'aria di quegli studenti che in un celebre film americano venivano soprannominati Nerds. Forse a casa lo chiamano sfigato. Evviva gli sfigati! Proprio come nel film alla fine il Nerd risultava il vero eroe della storia, alla faccia delle smorfiosette sexy e dei biondoni muscolosi che l'avevano perseguitato lungo tutto il corso della pellicola.
L'incontro di questo grande personaggio cala il sipario sopra le stravaganze della giovane mondana abbracciatutti e del pedante ciccione del volo Thai Airways.
Lo accompagno al banco e gli auguro in bocca al lupo. Lo osservo mentre conversa con i volontari. Impeccabile come l'addetto di un call-centre. La sua cortesia potrebbe far credere ad un osservatore distratto che sia lui il volontario e gli altri le vittime. Chi se lo aspetterebbe da uno che è rimasto - non poi tanto metaforicamente - in mutande! A diecimila chilometri da casa! Questa sì che è una bella lezione di stile. Chissà se io stesso, così criticone, sarei in grado di fare altrettanto.
Mentre sta sbrigando le pratiche necessarie trova il tempo di voltarsi e mi ringrazia rivolgedomi l'ennesimo sorriso. Lui a me!
Mi raccomando. Non conosco il suo nome. Ma se in Italia incontrate un ragazzo che assomiglia alla descrizione che ne ho tracciato e che stava a Khao Lak al momento del disastro, stringetegli la mano, e non dimenticatevi di porgergli i miei saluti.
Nel frattempo arriva Robert. Gli faccio da guida all'interno del centro. Scambia due parole con gli addetti del sedicente banco cecoslovacco. Assieme assistiamo qualche altra vittima e raccogliamo ulteriori testimonianze. Più tardi, quando ci sembra che le autorità e i volontari controllino abbastanza agevolmente la situazione, ce ne andiamo.
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Nei due giorni che seguono ricevo le buone notizie che cercavo disperatamente.
Ho cercato di chiamare Tip un centinaio di volte almeno, senza mai riuscire a prendere la linea. Scoprirò che anche lei ha fatto lo stesso. Il 24 dicembre, prima che partissi, ci eravamo ripromessi di incontrarci a Krabi tre giorni dopo. Poi la tragedia.
Ricevo la sua telefonata quando sono a Chumpon, sull'altra costa, quella che dà sul golfo del Siam, dove le linee telefoniche funzionano regolarmente. Tiriamo entrambi un sospiro di sollievo. Tip era tanto preoccupata per me quanto io lo ero per lei. Mi racconta emozionatissima che il giorno prima la spiaggia davanti al suo hotel era ancora punteggiata di cadaveri.
Siamo vivi entrambi, avremo ancora l'opportunità di mantenere quella promessa.
Il giorno dopo, quando sono a Hua Hin, sulla via di Bangkok, controllo la posta e tra le tante email ne trovo due che apro con ansia. La prima è di Jeff, l'anglo-italiano. Avrebbe dovuto essere a Phi Phi per Natale. Poi però ha incontrato una bella ragazza che lo ha trattenuto a Pai, duemila chilometri più a nord. Mannaggia a lui! Io stavo in pensiero e lui si stava innamorando. Per fortuna anche lui corre dietro alle donne.
Serviamo entrambi da lezione per i bacchettoni.
A proposito, a Hua Hin il re di Thailandia ha la sua seconda residenza. Anche la famiglia reale è stata direttamente interessata dalla tragedia. Un nipote del re è morto a Phuket mentre guidava una moto d'acqua travolta da un'onda.
Manca Richard, l'inglese guarito di recente dal cancro. La seconda email è la sua, è indirizzata a tutti quelli che avevano ricevuto la sua foto da Phi Phi il 24 dicembre e tenevano il fiato sospeso. La riporto così come l'ha scritta lui.
dear all luckily i was over on ko lanta for 2 days seeing my dad for christmas. lanta got hit badly, but pp was 70% flooded/destroyed & reports vary from 70 -200 dead so far.
unfortunately i sadly suspect some of my friends will be on the list as they had bungalows 1st row off the beach.
as for me, i was on the beach with my dad watching a 10M tsunami roll down the coast when the manager standing with us saw a 5M tsunami directly out to sea 100M off shore. he shouted "RUN!". we did, but the speed of it was incredible & before we had taken 10 steps it hit the beach, exploding through the trees sweeping me up & crushing me against the beach restaurant wall. I went under water, but held onto the railing as every sun-louger, beach chair & bit of tree, wood & everything smashed against me.
when I surfaced I popped my dislocated finger back in & ran to help my dad, who was battered & bruised as was the manager, but no bad gashes. i wasn't so lucky & had to lay in the ambulance next to a dead guy for 40 mins, but still consider myself fortunate I only needed 12 stitches, bad cashes all over & head concussion.
in 1 month it will be a "story to tell". until then I'm in pain, but that is only a little problem. PP was devastated.
I'll stay on long beach lanta at best house until I can walk properly again & the ferries to PP start again. hope you are all ok & have a happy new year
Rich
Per chi non capisce l'inglese, Richard spiega che fortunatamente si trovava a Koh Lanta, dove si era recato per trascorrere due giorni col padre. Lanta è stata colpita violentemente dalle onde ma non tanto quanto Phi Phi, dove teme che tra le vittime ci siano dei suoi amici, giovani che abitavano in bungalows sistemati in prima fila sulla spiaggia.
Quella mattina lui e il padre stavano in riva al mare quando qualcuno ha gridato: "Scappate!". Si sono voltati e hanno cominciato a correre per sfuggire ad un'onda che però era ben più veloce di loro. Richard è stato travolto e sbattuto contro la parete di un ristorante. Si è aggrappato a qualcosa per sfuggire alla risacca ed è stato colpito da ogni sorta di oggetti trasportati dall'acqua. È sopravvissuto. Un dito slogato, qualche botta qua e là, alcune ferite, ma è vivo. Non c'è riuscito il tumore a portarcelo via e non c'è riuscito nemmeno il maremoto. Non altrettanto fortunato è stato il ragazzo morto accanto al quale Richard è dovuto restare disteso per quaranta minuti.
Tre dei miei amici si sono salvati. Ma chissà quanta gente con cui in passato ho scambiato quattro chiacchiere o semplicemente un sorriso non è più tra noi. O quanti altri sono stati toccati in qualche modo dalla tragedia. Forse alcuni dei turisti incontrati l'altra notte a Patong. Oppure chi gestiva dei bungalow in spiaggia, chi noleggiava lettini o moto d'acqua. Chi vendeva bibite o collanine. Chi lavorava in un ristorante. A proposito che fine avrà fatto quel bel locale italiano in riva al mare a Phi Phi? E che sorte sarà toccata al proprietario e alla sua famiglia? Luciano di Firenze, non conosco il cognome. La moglie è tedesca. Le ricerche che ho condotto non hanno finora prodotto alcun risultato. Il figlioletto, Raul, a quell'ora del mattino di solito passeggiava nell'acqua bassa raccogliendo conchiglie...
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A Phuket town, dopo aver lasciato il centro di accoglienza, incontriamo un inglese appena arrivato da Koh Phi Phi.
Alloggiava in una guest house ben all'interno dell'isola, in un posto che ricordo bene. Nonostante la distanza ragguardevole dalla costa, l'acqua è riuscita comunque a bagnargli i piedi.
Assieme ad altri sopravvissuti hanno allestito un rudimentale ospedale da campo nel dormitorio. Ci racconta delle operazioni di soccorso. I feriti arrivavano con degli enormi e netti squarci provocati da pezzi di lamiera trasportati dall'acqua. Alcune vittime giacciono esanimi sulla spiaggia, trafitte da un palo metallico o da un tronco. Si parla di trecento morti sulla piccola isola ma lui non ci crede, sono sicuramente molti di più. E ci persuade quando ci mostra le foto e il video che ha girato prima di partire. A centinaia di metri dalla spiaggia restano in piedi solo gli scheletri in muratura di alcune costruzioni.
Alcuni giovani thailandesi che stazionavano nelle vicinanze si raccolgono attorno a noi per osservare le immagini del video. Ridono divertiti quando scoprono che sono immagini girate a Phi Phi. Ci sono tra noi e loro delle differenze culturali che dopo tanto tempo in Asia faccio ancora fatica ad interpretare.
L'inglese ci spiega alcuni dei problemi legati alle operazioni di salvataggio e assistenza. Ha fatto l'infermiere e sa che per prestare aiuto a qualcun altro bisogna innanzitutto essere in forma. Sul posto c'è tanta gente con un gran cuore ma senza esperienza che agisce ancora in stato di shock e con la forza della disperazione. Nessuno riposa. Non vengono organizzati turni, nemmeno di notte. Ritiene che operando in quel modo non dureranno a lungo. Lui dopo meno di due giorni non ce l'ha più fatta ed è tornato. Lo ammette onestamente.
Testimonianze sull'accaduto se ne possono ascoltare ovunque. In un supermercato a Chumpon il giorno seguente Robert ed io incontriamo una ragazza che vive a Patong beach. E' tornata a Chumpon dalla famiglia in seguito alla tragedia. Una sua cugina lavorava in un grande magazzino sul lungomare, a pochi metri dal locale affollato in cui noi ci trovavamo la notte precedente il disastro. Ha avuto la sfortuna di trovarsi al piano sotteraneo che è stato completamente allagato dalle onde.
E' il tristemente noto Ocean di Patong, il supermercato diventato la tomba di un numero imprecisato di dipendenti thailandesi e clienti di varie nazionalità. La ragazza non ce l'ha fatta a mettersi in salvo. Sembra non si sia salvato nessuno.
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I racconti di Tip, di Rich, della ragazza di Chumpon, dell'infermiere di Phi Phi, della coppia di italiani di Khao Lak e del mio simpatico eroe sfigato sono solo alcune delle storie che ci si sente raccontare un po' dappertutto in questi giorni in giro per l'Asia. Per trovare una circostanza simile in Europa, con una concentrazione così elevata di situazioni drammatiche e di persone coinvolte in una qualche tragedia, bisogna andare indietro ai tempi di guerra.
Per quanto mi riguarda resto convinto di essermi salvato principalmente per due motivi. In parte perché il caso ha voluto che davanti ad una combinazione di alternative apparentemente innocue optassi per la sequenza di scelte più fortunata. Ed in parte perché il mio stile di vita non è compatibile con la serie di eventi che mi avrebbe portato ad essere nel bel mezzo del pericolo quando l'onda ha spazzato via tutto. Sono più un tipo che da quelle parti ci si aggirerebbe il pomeriggio o la notte, non la mattina alle 9:00.
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E' passato un po' di tempo da quei giorni tormentati. Nel frattempo ho scoperto che Luciano, il ristoratore di Phi Phi, è salvo. Della sua famiglia non so niente, spero che non fossero nemmeno sull'isola. Si sa invece che alcuni membri del personale del ristorante sono scomparsi, e sono ormai da considerarsi tra le vittime. Per quanto ne so potrebbe esserci fra loro una delle cameriere col sorriso più dolce che abbia mai visto. Oppure quel ragazzo che amava intrattenere i clienti con le sue storie strane sui gatti di Phi Phi.
Nel frattempo inoltre, un'orda ci cronisti, cameramen e reporter è arrivata nei posti per portare a casa vostra immagini e parole da questi luoghi remoti. Sapete ormai quasi tutto di quello che è successo. In termini di cifre, fatti e testimonianze ne sapete probabilmente molto più di me.
Personalmente in questi giorni le notizie non riesco proprio a seguirle. Onestamente non vedo l'ora che qualche altro argomento prenda il sopravvento e che anche lo tsunami, come ogni altra tragedia, vada a finire nel dimenticatoio dei media.
Nessuno però potrà riuscire a raccontarvi l'aria che si respirava in quelle prime, surreali ore. Nemmeno, ovviamente, queste mie poche pagine. La tensione di quei momenti, soprattutto quelli precedenti l'arrivo dei mass media e delle organizzazioni internazionali. Quando ancora tutti erano lì a cercare di rialzarsi, dopo un K.O. arrivato senza segni premonitori. A rialzarsi e a capacitarsi dell'accaduto, da soli, senza ancora l'ausilio delle spiegazioni degli esperti e dei piani di emergenza.
Nessuno potrà trasmettervi in maniera adeguata l'idea di quella miscela strana di sconforto e speranza, di opportunismo e solidarietà, di emozioni forti e delusioni scottanti. Io continuo a pensarci, resto sveglio fino all'alba davanti a questo file, a cercare di mettere assieme tutti i miei ricordi, i più piccoli dettagli, a tentare di rivivere quei momenti. Mi accorgo però di inseguire una chimera. Certe cose mi sembra di averle soltanto sognate. I dettagli di certe scene appartengono ad un sogno che sembrava così minuziosamente reale e che ora invece si nasconde dietro ad una nube che non riesco a soffiare via.
Mi rendo conto che alla fine dei conti solo un paio di considerazioni emergono concretamente, come picchi di montagne che sbucano da un manto di nuvole fitte. In primo luogo una nuova interpretazione - un po' metafisica - che riesco a dare a certi lati della mia personalità. Quei lati che mi hanno permesso di restare in quella spiaggia fino a poco prima che tutto cambiasse irrimediabilmente. E di levarmi dai piedi appena in tempo.
In secondo luogo una conoscenza più profonda di alcuni aspetti della natura umana. Le reazioni delle persone in situazioni estreme. Il contrasto netto tra la vita e la morte.
Ora riesco a capire cosa cercavano di trasmettere scrittori come Hemingway, Remarque e Rigoni Stern nelle loro tristi storie ambientate sui campi di battaglia.
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Ci si vergogna quasi a dirlo, ma essere circondati dalla morte dopo averla scampata è una esperienza che inorridisce, emoziona, eccita e intriga al tempo stesso.
Non so cosa mi stia succedendo, più il tempo passa e più sono ossessionato dal ricordo di quei fatti. Il pensiero della violenza che la natura ha rovesciato su quei luoghi tanto cari mi strattona tra dolore, rabbia e malinconia.
In uno dei pochi servizi televisivi che sia riuscito a seguire per più di qualche secondo, un corrispondente della CNN appena tornato dallo Sri Lanka spiegava che mentre si trovava sul posto l'adrenalina, l'eccitazione, gli impegni e le scadenze non gli lasciavano íl tempo di riflettere su ciò che stava accadendo attorno a lui. Sono d'accordo, soltanto a casa, lontano dai luoghi del disastro, la mente e il cuore cominciano a riconsiderare quelle scene che fino a poco prima erano sembrate la sequenza di un thriller d'azione.
Mi sento asfissiare dalla nostalgia. Non già per gli avvenimenti, ovviamente, quanto per le emozioni provate. Col dolore, la morte e la sofferenza tutto attorno sembra che la vita acquisti un’intensità doppia. Virtù e difetti, nostri e degli altri, vengono amplificati. Paradossalmente li amiamo entrambi. Preferiamo questa dicotomia al piattume dell'equilibrio quotidiano.
La tragedia serve anche a farci capire quello di cui l'essere umano può essere capace. Riscopriamo un potenziale di vitalità ed emozioni che avevamo da tempo dimenticato, di cui non sapevamo più nemmeno di essere capaci.
Ci resta solo un desiderio. Vorremmo essere dotati di un qualche effetto memoria. Non come individui, bensì in quanto membri di un gruppo, di una comunità.
Non possiamo, non dobbiamo esprimerci a questi livelli di umanità solo in caso di un simile dramma.
Ci eravamo assopiti, vivevamo in modalità energy-saving. Poi ad un tratto qualcuno ha premuto il tasto di avanzamento rapido. Ritornando a procedere a velocità di crociera ci sembrerà di non muoverci affatto.
La gioia dei sopravvissuti, la felicità, la gratitudine nel ricevere aiuto e il senso di realizzazione nel prestarlo sono come il sapore di un bicchiere d'acqua dopo giorni trascorsi nel deserto. Come la luce di una candela che si accende nell'oscurità.
Ora il deserto è lontano, l'acqua è insapore e la luce del sole soffoca la candela.
Ci eravamo drogati di emozioni, ora ci resta solo la dipendenza. Il gradiente di intensità provoca un vuoto doloroso in mezzo al petto. Ci assale un senso di sconforto. Di impotenza.
Come fanno a pretendere che torniamo ad essere esattamente come eravamo prima? Come se niente fosse successo? Eppure lo sappiamo, è proprio quello che ci chiederanno di fare, che ci stanno già chiedendo di fare. Ripartono dal punto in cui ci eravamo lasciati. Gli sguardi cortesi non rivelano traccia alcuna dei recenti avvenimenti.
Dopo lo tsunami restano soltanto distruzione, morte e dolore. Le gare pietose di donatori vanitosi e la banalizzazione dei servizi in TV.
Tip, dove sei? Ho una voglia matta di abbracciarti.