lunedì 28 novembre 2005

Unità 731: Cina e Giappone ai ferri corti - Harbin, Cina

Harbin, una notte di treno da Pechino, si trova al centro di quella testa di cane che la Cina è riuscita ad infilare tra Siberia, Mongolia e Corea del Nord.

Alla fine del 19° secolo la Russia zarista ottenne il permesso per la costruzione di una ferrovia che collegasse Vladivostok con Dalian, via Harbin. Arrivò così in città la prima ondata di cittadini russi. Altri ne arrivarono nei primi decenni del ‘900 per sfuggire ai turbolenti eventi che infuriavano nella madrepatria. Non solo gli operai impegnati nella costruzione della ferrovia quindi, ma anche imprenditori, banchieri e ristoratori.

I russi che si incontrano oggi nelle vie del centro sono principalmente turisti o uomini d’affari di passaggio. Ma l’impronta lasciata da quell’esodo sull’architettura e gli usi in città è evidente.

La via principale è costeggiata dai begli edifici in stile che ospitavano le banche, gli alberghi e i ristoranti degli emigranti russi, molti dei quali erano ebrei. Alla fine del viale, a ovest dell’insolito monumento al controllo delle inondazioni, i cittadini possono passeggiare tra gli alberi e le statue del parco Stalin. Ad ogni angolo della città è poi sempre possibile rifocillarsi con numerose e succulente varietà di salsicce, anch’esse un’eredità dell’epoca russa.

Oltre ai palazzi e alle specialità culinarie anche le temperature qui ricordano quelle delle città siberiane. E per celebrare l’inverno la città si veste di ghiaccio. Durante il Festival delle Lanterne gli harbinesi festeggiano innalzando complesse costruzioni di ghiaccio sulla sponda del fiume, giocano a hockey o si esibiscono nelle forme del pattinaggio artistico. Ogni attività ha luogo all’aperto. Persino nella più celebre discoteca della città la pista da ballo è in realtà una pista da pattinaggio sul ghiaccio.

Ghiaccio, ghiaccio e ancora ghiaccio.

Quando se n’è avuto abbastanza, per sfuggire ai morsi del freddo ci si può rifugiare nel Cafe Russia 1914, un locale che compensa l’autenticità perduta con un ambiente caldo e accogliente e deliziose specialità russe.

Uscendo invece dal centro cittadino, per un cambio brutale di atmosfera, la visita alla base giapponese per gli esperimenti di guerra batteriologica (Unità 731) è un’opportunità da non lasciarsi sfuggire.

Dopo l’invasione giapponese della Manciuria, nel 1931 il Maggiore medico Shiro Ishii decise di spostare il laboratorio che dirigeva a Tokyo in una località tranquilla della provincia di Harbin. Ufficialmente l’intento era quello di prevenire disastri batteriologici nella capitale dell’impero, in pratica però era quello di disporre di cavie umane per gli esperimenti del centro.

Per più di dieci anni prigionieri nemici cinesi e stranieri vennero utilizzati in esperimenti effettuati con i germi della peste bubbonica, della tubercolosi, dell’antrace, del colera e molti altri, con cui venivano messi a contatto tramite iniezione, ingerimento o impianto su ferite. La vasta disponibilità di soggetti permise ai ricercatori di effettuare ulteriori test di resistenza al calore, alla disidratazione, all’impiccagione a testa in giù, all’elettroshock, all’amputazione e al congelamento.

Muovendosi tra le esibizioni fotografiche, le descrizioni del museo e i resti degli edifici (fatti saltare dai giapponesi prima della ritirata del ’45) la mente di un occidentale va inesorabilmente a frugare tra gli archivi della memoria dedicati ai campi di sterminio nazisti. Il crudele pragmatismo degli inceneritori per le salme e l’impietosa efficienza degli impianti per l’erogazione di energia o delle camere per l’allevamento delle cavie animali, ricordano le strutture dei campi di Dachau o Aushwitz.

La Base non è soltanto uno strumento per ricordare gli errori del passato ma si collega al tema attualissimo delle manifestazioni studentesche contro l’atteggiamento revisionista del governo giapponese. Nelle sale del museo le didascalie delle foto e le descrizioni contengono spesso delle frecciate velenose all’indirizzo del governo giapponese.

Nelle piazze di Pechino migliaia di cinesi si sono recentemente uniti per protestare – anche violentemente – contro la decisione del Ministero dell’Istruzione giapponese di emendare i capitoli dei libri scolastici dedicati agli orrori dell’occupazione del continente asiatico. Tra i bersagli delle dimostrazioni vi erano anche le frequenti visite ufficiali di membri del governo giapponese alle tombe di noti criminali di guerra.

Di cinesi che si esprimono senza alcuna remora dichiarando di non avere alcuna simpatia per il Giappone e per le sue istituzioni se ne incontrano ovunque. Ma cosa pensano a questo proposito i numerosi giapponesi che vivono, lavorano o studiano in Cina? Tatsuya, un trentenne incontrato a Shanghai, parla di una situazione molto imbarazzante. La comunità giapponese in città è formata da decine di migliaia di individui che nella maggior parte dei casi non gradiscono prese di posizione o azioni del governo di Tokyo che possano mettere a rischio la loro incolumità o anche soltanto il loro quieto vivere in Cina.

Al di là delle motivazioni ufficiali per le recenti manifestazioni, il sospetto è che il traballante presente delle relazioni tra i due paesi si poggi sulle sabbie mobili dei risentimenti cinesi e della voglia dei giapponesi di lavarsi la coscienza da un lato, e della rivalità per il predominio continentale dall’altro. Non molto tempo fa infatti Cina e Giappone si erano già dati battaglia per accaparrarsi i diritti a godere delle forniture di petrolio provenienti dalla Russia.

Il movimento studentesco del 2005 ha poco a che fare con quello di Tiananmen ’89. Il governo cinese formato dagli “ingegneri” del nuovo millennio sembra aver deciso di adottare una pratica che in Cina risale ai tempi di Mao e della rivoluzione culturale, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70: quella della manipolazione delle Università e dei movimenti studenteschi. I libretti con le citazioni di Mao esposti oggigiorno nelle librerie e nelle bancarelle che affollano i marciapiedi di ogni città del paese rimandano a un’epoca che gran parte dei cinesi vuole dimenticare. Tempi in cui quei libretti rossi venivano sventolati da giovani con le braccia fasciate da nastri dello stesso colore, anni segnati da repressione e violenza, profanazioni di templi ed espropri, pratiche crudeli di rieducazione e torture.

Al giorno d’oggi i due paesi per sopravvivere e prosperare hanno bisogno uno dell’altro. La speranza è che entrambi i popoli e i rispettivi governi abbiano imparato qualcosa dagli errori commessi da chi li ha preceduti.

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