lunedì 2 marzo 2009

È quasi Hua Hin - Thailandia

Apro gli occhi. Da qualche minuto il getto del condizionatore disegna un cerchietto di freddo sul velo di sudore che mi copre la fronte. L’ambiente climatizzato del taxi e il calore del corpo avvinghiato al mio sono lo Yin e lo Yang di questa notte che volge all’alba. L’abbraccio con la studentessa straniera si fonde nell’odore e nella sensazione di ruvido della miscela di fumo, vapori d’alcol e note distorte che c’è rimasta spalmata addosso nel locale in cui ci siamo incontrati alcune ora fa.

Le sue labbra hanno la consistenza della carne che circonda una puntura di insetto e mi baciano la guancia saltellando col tocco fresco e morbido delle zampe di un cucciolo. Si muove lentamente e ad occhi chiusi, come se la scena la stesse sognando. O come se la stessi sognando io.

Fuori dal finestrino sfreccia una sagoma familiare, e poi un’altra. Avverto il tassista. Quando l’auto si ferma la bacio, scendo e resto ad osservarla mentre si allontana. Ha uno sguardo deluso, o sollevato. Tanto la rivedrò, penso, ce lo siamo promessi. Mi sbagliavo, ma sembrava giusto così. Ed è il momento quello che conta, non l’analisi, né la sintesi o le conclusioni elaborate a freddo.
Il pomeriggio del giorno successivo sono con Emilio a bordo di un minivan diretto a Ratchaburi, dove alcuni amici insegnano in una scuola bilingue.
Ratchaburi è un piccolo centro senza turisti e quindi privo dell’atmosfera elettrica e un po’ artefatta delle località thailandesi più popolari. Gli stranieri qui ci lavorano e ci vivono, non ci vengono in vacanza. I servizi e le offerte di svago sono modellate sui gusti dei thai.

La sera beviamo un paio di birre nel giardino di un albergo con una TV che trasmette sport e un complessino che suona musica pop locale. Poi ci spostiamo in un altro bar, sempre all’aperto, con tavoli da biliardo e altra musica dal vivo. Infine facciamo un salto in un locale più movimentato, con un gruppo di giovani dai capelli cotonati che suonano brani di ska thailandese. Dopo una minestra di tagliolini succhiata voracemente in un chioschetto torniamo alla casa di Robert con una scorta di bottiglie di Leo. Ascoltiamo musica e chiacchieriamo fino a tardi, poi un po’ alla volta tutti se ne vanno. L’ultimo a partire è Rex, un insegnante filippino, che mi offre un passaggio in moto all’albergo. Sto per accettare ma Robert, che non ne ha abbastanza, mi propone di fermarmi da lui.

Continuiamo a sorseggiare Leo dai bicchieri ghiacciati, mentre le nostre chiacchiere sfilano dalla finestra attorcigliate in un vortice a basso volume con i brani della sua libreria musicale. Dopo l’ultima birra spegniamo la luce e ci corichiamo. Quando mi sto per addormentare la sensazione dei jeans che strisciano sulle lenzuola mi strappa dall’abbiocco per i capelli. Mi sfilo i pantaloni e li faccio cadere al suolo, davanti al letto, che è un semplice materasso appoggiato a terra. Si rivelerà una mossa infelice, ma chi l’avrebbe detto.
Prima di addormentarmi prendo il telefono e invio un messaggio alla studentessa di ieri notte. Non mi risponderà, ma non mi pentirò di averlo mandato.

Alle 8 mi sveglio e vedo Robert che fruga tra gli oggetti nella stanza. La porta è socchiusa. Robert si gira col portafoglio in mano. Mi guarda ma la sua testa è da un’altra parte: conosco quello sguardo. “Controlla i tuoi pantaloni, vedi se hai ancora i soldi.”
Il mio cervello funziona ancora a saltelli e scossoni. Non capisco perché non dovrei avere i soldi; li avevo ancora quando sono tornato a casa, non mi hanno derubato nei locali di ieri. Afferro i jeans muovendomi a rilento in una sorta di nebbia mentale, come se comandassi il corpo di un altro. Infilo una mano in tasca, stringo il vuoto e la tiro fuori mostrandogli le dita unite in una posa da ombre cinesi. “Non li ho più...” Lo dico come se stessi parlando di biglietti dell’autobus usati e gettati nel cestino.

Robert si muove nella stanza, controlla oggetti, mobili, mensole, armadio ed elenca le sue scoperte come un archeologo che parla in un registratore mentre esplora un sito sconosciuto.
“Niente soldi nel portafogli...il telefono è sparito, era in carica, qui sul comodino...è sparito anche il caricatore...il passaporto invece c’è...”
Io ho perso solo i soldi, il mio telefono è ancora sul cuscino, dove l’ho appoggiato dopo aver mandato il messaggio. Il resto è in albergo. Mi sorprendo a controllare se ho ricevuto la risposta della ragazza, come se fosse l’unica cosa che conta.
Poi esco dal torpore del sonno e dall’illusione di una cotta e con Robert mettiamo assieme i dettagli di un furto che ha dell’incredibile.

Durante la notte qualcuno ha aperto il cancello, ha percorso il vialetto, ha aggirato la casa, aperto la porta secondaria - che come al solito non era stata chiusa a chiave - e poi con un’audacia da professionista o da cocainomane ha ruotato il pomello della porta della stanza - che Robert ha dimenticato di chiudere col lucchetto - per aggirarsi tranquillamente, al buio, alla ricerca di qualsiasi cosa di valore che potesse essere portata via. Aprendo il portafogli di Robert, rovistando nelle tasche di tre paia di jeans - i miei stavano a dieci centimetri dai miei piedi - e sfilando il caricatore del telefono dalla presa della corrente. Tutto ciò mentre noi dormivamo, sfidando il mio sonno di cane da guardia che mi fa svegliare anche se una seggiola scricchiola dall’altra parte del palazzo. Un ladro con i movimenti di un gatto che dopo aver setacciato la stanza di Robert ha salito le scale, si è introdotto nella stanza di Scott - l’altro inquilino - e ha svuotato pure il suo portafogli, prima di andarsene indisturbato. Un gatto appunto, e tre topi babbei.

Nel pomeriggio ci accompagnano in moto alla stazione. Con l’aria che mi deforma la faccia osservo donne e bambini immersi fino al collo nell’acqua dei fossi che costeggiano la strada. In stazione per meno di un euro compriamo due lattine di coca e due vassoi di polistirolo ricolmi di riso fritto. Ci ingozziamo col riso in treno, prima della partenza, seduti su una panchina stretta e squadrata.

Quando il vagone si muove col primo strattone io sto ancora respirando a fondo per mandare giù un boccone che mi ha grippato l’esofago. Mi viene in mente che potrei tentare di mandare giù il bolo con un sorso di Coca, ma mi ricordo di averci già provato in passato e cambio idea. Quando la mia mente scarta questa soluzione la mia mano però si è già mossa e ha versato nella bocca una quantità del liquido gassato e tiepido. Il pastone di riso e pollo non scende di un millimetro mentre il livello della Coca-Cola sale fino alla gola. Sento di essere diventato un pagliaccio con la faccia rossa e le guance che brillano di lacrime, quando Emilio mi fa una domanda e aspetta la risposta dandomi le spalle, ridendo e guardando le ultime baracche della città che si alternano alle prime risaie fuori dal finestrino. Io sono impegnato a camuffare le mosse da pellicano con cui cerco di deglutire e non riesco a fargli capire che non posso parlare, ma lui continua ad osservare il paesaggio e non sembra farci caso.

Poi finalmente l’impasto comincia a scendere, dolorosamente, come se fosse avvolto in un giro di carta vetrata, e in qualche secondo mi riprendo. Per rinfrescarmi cerco di mettere la testa fuori dal finestrino ma questo scompartimento è una composizione cubista di spigoli e lati stretti, quindi mi alzo e vado verso la porta che da quando siamo partiti è sempre rimasta aperta.

Scendo i tre scalini, mi aggrappo ad una sbarra laterale e mi sporgo dal treno così, come se stessi a bordo di un tram nella San Francisco degli anni venti. Mi scorre davanti la campagna tropicale: i campi carbonizzati si alternano a risaie che sembrano illuminate da lampadine nascoste sotto il manto verde, mentre altre sono completamente ricoperte d’acqua e circondate da bufali, uccelli e uomini che entrano o escono da camioncini giapponesi. È il film perfetto per la voce di sottofondo dei miei pensieri.

Il furto ha dell’incredibile, quasi del ridicolo, come continuava a dire Scott dopo essersi svegliato, aver scoperto di non avere un quattrino nel portafogli e aver ascoltato - senza comprenderlo a fondo - il nostro racconto. Ridiculous...it’s ridiculous...just ridiculous, continuava a ripetere, mentre con le dita si stropicciava le guance ancora segnate dalle pieghe del cuscino.

Col mio bagaglio di furti e raggiri subiti in passato sono quasi sollevato, perché pensa e ripensa mi sembra proprio che stavolta non abbia nulla da rimproverarmi. Robert invece, sempre così attento a non commettere errori e a non farsi pigliare per il naso, non l’ha presa bene. E Scott gli ha offerto varie occasioni per dar sfogo al suo umore inacidito. A poco a poco, dalla discussione sul furto sono passati a levigare altre muffe, ruggini e incrostazioni che si sono depositate sulle pareti e gli infissi della loro vita in condivisione nei mesi e negli anni. È proprio per non respirare quell’atmosfera che ho insistito perché ci accompagnassero in anticipo alla stazione.

Ma Ratchaburi ormai è alle spalle; con le spiagge e i mercati di Hua Hin ad una manciata di chilometri guardo sovrappensiero una fila di auto e motorini fermi ad un passaggio a livello e ripenso al bacio della ragazza nel taxi. Al sapore dell’attesa di un nuovo incontro, che si fa meno dolce via via che il tempo passa senza una sua risposta. Per contrastare l’avanzata del disincanto inclino la testa, chiudo gli occhi e lascio che il vento mi rinfreschi le guance, dove è rimasta una pallida nota di rosso.
Intanto il treno procede, fischia e sferraglia: fuori è quasi il tramonto, è quasi Hua Hin.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bello. Mi ha fatto ridere un sacco la parte del pellicano!
Per il resto mi piacciono le descrizioni e come sei riuscito a rendere accattivante una storia semplice dando poca importanza al furto, che era l'unico argomento potenzialmente intrigante.
Aspettavo fino alla fine che rivedessi almeno la ragazza..o che scoprissi come era avvenuto il furto. Ma la vita vera è questa....le ragazze nonle rivedi e i furti non li spieghi:)

Voto: 7+


Luca