lunedì 15 settembre 2003

Johor Bharu - Malesia, 15 settembre 2003

La Malesia è un paese che tiene i piedi in due staffe.
Sono seduto ad un tavolo di uno di quei caffè moderni - all'americana. Quelli in cui ordini alla cassa, scegliendo prodotto e formato, paghi (molto) in anticipo e ti porti al tavolo la tazza su un vassoio. Sembra di stare a Singapore - distante da qui due chilometri e due decenni. Vengo rispedito bruscamente in Malesia dal canto di un 'Muezzin' che invita i fedeli alla preghiera. Sono questi i simboli di un paese che ha predicato sia la dottrina dello 'sviluppismo' sia quella dell'etnicismo che per la maggioranza malay, impegnata a limitarare il potere economico dei cinesi, ha spesso fatto rima con islamismo.

La politica discriminatoria dei 'bumiputera' - i figli della terra - ha dato sì i frutti sperati ma ha anche giocato dei brutti scherzi al paese. Per non cadere nella rete della NEP (Nuova politica economica) - che imponeva alle grandi aziende di avere almeno un 30% di malay tra gli azionisti e altrettanti tra i dipendenti - i cinesi hanno limitato la dimensione delle loro aziende e i 'grandi affari' sono stati affidati, spesso tramite giochi di corruzione e favoritismo, a faccendieri i cui azzardi, finanziati dalle numerose banche, sono venuti al pettine della crisi del '97.
C'è comunque da dire che la Malesia è riuscita a venirne fuori prima e meglio delle vicine Thailandia e Indonesia. Lo stato ha acquisistato dalle banche i loro crediti inesigibili ed è riuscito a convincere gran parte dei debitori a restituirli. I numerosissimi istituti di credito esistenti prima della crisi sono stati ridotti - attraverso decise operazioni di fusione - in un più ristretto numero di conglomerati. Alcuni - ma non tutti - dei protagonisti delle attività più sporche sono stati allontanati dal sistema.

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