mercoledì 6 febbraio 2013

Politicamente scorretto e vagamente pessimista su sviluppo, globalizzazione, paesi ricchi e poveri, ecc. - Birmania

Una specie di semaforo a "risparmio energetico" a Thibaw
La Birmania è un'opportunità. Un'opportunità a orologeria, col display del conto alla rovescia nascosto. Un'occasione, un modellino, un esempio concreto per riflettere sui temi dello sviluppo, la globalizzazione e le relazioni internazionali che fra qualche anno potremmo non avere più. Uscire dall'aeroporto di Rangoon significa entrare in un mondo che negli ultimi sessant'anni si è sviluppato poco, o per certi versi nulla. Un sistema che per alcuni aspetti è addirittura tornato indietro nel tempo. Un luogo in cui la gente gira a piedi, in bicicletta o in auto scassate su strade polverose che tagliano distese di spazzatura, sale in autobus con un sacco di riso e due galline, non si lamenta se il treno procede ai venti all'ora rimbalzando su rotaie ondulate e sconnesse, si cucina la cena su un fuoco a legna, se un dente fa male a causa di una carie lo toglie, non si preoccupa della moda e degli ultimi ritrovati tecnologici (anche se quest'ultima affermazione ormai è vera solo in parte). E nonostante tutto appare poco stressata, moderatamente felice, sorride spesso, vive con un certo ottimismo. 
Eppure se uno osserva bene non potrà non notare le prime avvisaglie di uno sviluppo che probabilmente nel giro di pochi anni stravolgerà tutto. E ogni o volta che ciò accade si cominciano a sentire i triti commenti di alcuni visitatori stranieri.
Commenti che io dividerei in due categorie. I primi sono quelli che suonano pressapoco così: "Che tristezza pensare che tutto ciò verrà presto barattato per un po' di modernità." I secondi si possono esemplificare nel seguente modo: "E' sempre la stessa storia, arriviamo noi, i ricchi, gli irrispettosi, gli occidentali, gli europei, i cinesi, gli indiani, gli australiani, gli AMERICANI, gli lasciamo quattro gingilli scintillanti e con un gioco di prestigio facciamo sparire tutto il resto."
Commenti apparentemente profondi, ma in realtà un po' superficiali, figli di un atteggiamento che potrebbe sembrare romantico, e magari pure lo è, ma che denota anche un certo egoismo.
Cercherò di spiegarmi meglio. Cominciamo con la prima categoria. Osservando il paese dalla posizione privilegiata di un turista in visita per poche settimane, un volontario di una ONG, un insegnante di informatica all'università, ci potremmo anche augurare che questo posto non cambi mai, perché è tanto bello vederlo così. Potremmo però farlo a cuor leggero solo se mentre lo osserviamo stiamo rintanati dietro lo schermo antiproiettile del nostro status di stranieri, consapevoli che non appena la situazione dovesse mettersi male possiamo sempre dare fondo alla mazzetta di dollari che abbiamo in cassaforte, comprarci un volo per Bangkok, Kuala Lumpur o Singapore, essere fuori di qui in un paio d'ore e sbarcare in un paese dove gli ospedali sono moderni, i servizi efficienti, la tecnologia avanzata e il cibo buono, igienico e magari anche bio.  
Ma perché uno il cui unico passaporto dice "Unione del Myanmar" (sempre che ne abbia uno) e che guadagna cinquanta dollari al mese (sì, sì, 50, come un tizio che lavora in una delle guest house dove abbiamo dormito) dovrebbe trovare triste lo sviluppo tecnologico e sociale? Perché non dovrebbe aspirare a viaggiare con mezzi più comodi su strade più sicure, in un paese con un sistema sanitario efficiente e moderno, tecnologie avanzate e perché no, anche qualche nuovo stupido vezzo? Così come facciamo noi d'altra parte? Perché lui in fondo non sa cosa vuole e noi lo assicuriamo che è meglio se il suo paese rimane così com'è ora? Non credo proprio.
Parliamoci chiaro, una delle ragioni principali per cui uno stato che alla fine della seconda guerra mondiale era assieme al Giappone il più avanzato dell'Asia è rimasto così, o meglio è diventato così, è rappresentata dalla serie di regimi dittatoriali che lo hanno sigillato dal resto del mondo, perseguitando i dissidenti, sparando sulle folle di manifestanti disarmati, mandando ai lavori forzati persino dei comici che avevano fatto una battuta su un pezzo grosso dell'esercito rivelatosi piuttosto permaloso, tenendo agli arresti domiciliari la leader del movimento di opposizione, il partito di maggioranza effettiva. Una maggioranza che chiede di non essere più immortalata in una foto scattata sessant'anni fa, di essere, o meglio di diventare finalmente come tutti gli altri. Che a questi altri piaccia oppure no.
Passiamo alla seconda categoria di commenti. La viscida globalizzazione e la ghiandola pulsante che la secerne: l'America. Gli Stati Uniti fino a un paio di secoli fa erano un luogo scarsamente abitato (o meglio abitato da una popolazione che è stata poi sterminata) che si è in seguito popolato grazie all'immigrazione proveniente da tutti gli angoli della terra: inglesi, irlandesi, tedeschi, italiani, russi, nigeriani, coreani, cinesi, libanesi, messicani, cubani. Gente di tutto il pianeta è andata in America. Persone che in alcuni casi sono arrivate lì con buona volontà e qualche idea e trovando un ambiente idoneo hanno realizzato un buon prodotto o un servizio, l'hanno commercializzato e infine esportato, persino nel paese da cui erano partite. L'America avrà anche tante colpe e difetti ma, per questo aspetto almeno, siamo tutti americani. Addossare la responsabilità dello sviluppo globalizzato all'America significa addossarla al globo intero. Tutti responsabili, nessun responsabile. Ma responsabile di cosa poi? Di vendere qualcosa a qualcuno che la vuole comprare? Chi compra è responsabile tanto quanto chi vende. Certo, chi vende fa pubblicità, e la pubblicità crea necessità che fino a un secondo prima non esistevano, è vero. Ma queste necessità sono generate andando a colpire gli individui in un punto sensibile, una zona grigia, un tasto rosso che abbiamo tutti. E, ognuno a suo modo, proviamo tutti un certo piacere, forse perverso, quando quel tasto viene premuto. E poi il meccanismo non si applica soltanto a rossetti e telefoni: può funzionare anche col cibo sano o i medicinali, beni immateriali come un romanzo o un bel film, o anche idee nobili come il rispetto dei diritti umani e dell'ambiente. 
Non c'è nessuna colpa. Siamo fatti così. Questo è il cazzo di modo in cui funziona l'essere umano, la nostra natura, il nostro mondo. Forse la cosa più strana, cioè meno naturale, è che a qualcuno tutto ciò possa sembrare triste, ingiusto o addirittura...sbagliato.

2 commenti:

Sandra ha detto...

Sono stata un mese in Birmania e mi piace leggere le tue impressioni che spesso sono state anche le mie (salvo forse questo articolo). La risposta alla tua domanda finale è nell'inizio del tuo stesso articolo: a "noi" sembra triste, ingiusto, sbagliato che "loro" cambino perchè più o meno tutti i turisti atterrati in questi paesi non possono non notare che, nonostante vivano in "tali condizioni di povertà", questi popoli appaiono incredibilmente sereni e ottimisti (mediamente)... medimente PIU' sereni DI NOI, e allora ci diciamo che sarebbe bello se non cambiasse mai la loro situazione, dato che sono mediamente più felici. Questo non vuol dire che solo per aver fatto un commento del genere, il turista sia necessariamente uno sprovveduto che non vede le cose che necessitano migliorie (sanità in primis, poi gestione di fogne, immondizie e acqua, l'istruzione - ma non prioritariamente, a mio avviso, ma il discorso sarebbe troppo lungo- uno stato un po' più sociale che aiuti quelle povere donne che raspano tra le immondizie del mercato piene di frutta marcia alla ricerca di qualcosa di commestibile)...mi sembra ingenuo ritenere il treno che va ai 20 all'ora un problema: l'hai detto tu, per loro NON è un problema, il loro ritmo di vita è diverso, il tempo viene percepito in modo diverso da loro... ed è proprio questo che, a mio avviso, li rende mediamente PIU' sereni DI NOI. Insomma non mi è piaciuto il tuo "attacco" al turista sprovveduto e superficiale... che a volte lo è davvero e mi fa arrabbiare ma i commenti che si sentono sono una sintesi del pensiero di una persona, bisogna conoscere il contesto, dobbiamo rammentarlo. Personalmente trovo raccapricciante che loro prendano la nostra orrida strada (e non vuol dire che io non veda i pregi della nostra società), vorrei che certe cose da loro migliorassero, ovvio, ma auspico utopicamente qualcosa di meglio per loro e per questo, proprio come il turista sprovveduto provo tristezza all'idea che si diffondano jeans, smartphone e facebook.

Fabio ha detto...

Sandra, grazie, mi fa piacere leggere i commenti di chi non è d'accordo: senza quelli non c'è discussione.
Tuttavia non mi sono schiodato dalla mia opinione: secondo me tutto ciò è pesantemente stucchevole, trito e improduttivo. Anche assai banale e un pizzico egoista (mi piace visitare il posto così com'è, mi auguro che non progrediscano sputtanando tutto). Lo dico senza malizia, comprendendo la buona fede di chi fa quei commenti. Bada che non ho detto sprovveduto, quello sarebbe un insulto, credo. Chiunque ha avuto l'opportunità di agganciarsi alla locomotiva del progresso lo ha fatto (parlo di paesi, popoli, comunità, non di singoli individui, per cui ovviamente vale l'eccezione). Se i birmani non l'hanno fatto è perché non hanno potuto, principalmente per il sistema pseudo-autarchico imposto da regimi dittatoriali durissimi. Che poi la gente si adatti a quel che ha senza far drammi e continuando a sorridere è una bella cosa, ma non cambia l'inevitabilità di quello che succederà. Sono uomini e reagiranno al progresso come tutti gli altri uomini. Che a noi piaccia o no.
Le migliorie che auspichi sono parte integrante del progresso che abbiamo già avuto noi, le prendi assieme a tutto il pacchetto o non le prendi affatto, non vedo realisticamente la possibilità di fare una cernita. Lo dici tu stessa che si tratta di un desiderio utopico.
Io poi non capisco tutto questo accanirsi contro la modernità. Internet, i social media, i telefoni, sono solo strumenti. Stupido è chi li usa in modo stupido, non lo strumento stesso. Io cerco di avere un rapporto sano con la modernità, provo a prenderla in dosi ragionevoli, e non mi dispiace per nulla avercela lì a disposizione. Chi non si sa controllare e diventa un'idiota imbambolato davanti a uno schermo, perdendo ore a far cazzate virtuali mi fa pena, ma sono affari suoi.
E poi se ci pensi è tutto relativo, il genere umano non persegue lo sviluppo tecnologico e sociale da 60 anni soltanto (il periodo a cui facciamo riferimento quando parliamo di Birmania), lo fa da secoli. E' come se un visitatore straniero dei tempi di Kipling si lamentasse della Birmania di oggi perché è già più sviluppata, sofisticata e impura di quanto lo fosse 150 anni fa. Tendiamo sempre a giudicare gli eventi su un arco temporale comparabile alla lunghezza della nostra vita. E' umano, lo so, ma se si vuole davvero andare in fondo alla questione bisogna impegnarsi di più, cercare di ingrandire l'immagine, astrarre un po', cambiare punto di vista, ecc. E non sto certo dicendo di esserci riuscito.
Comunque grazie per l'intervento e continua a leggere se ti va. Magari i prossimi post ti troveranno più d'accordo ;)

PS oltre ad ascoltare i commenti ho sempre ascoltato anche le giustificazioni, le argomentazioni e i procedimenti logici che ci stavano dietro, e se non sono d'accordo intendo dire che non lo sono con tutto ciò, non solo col commento finale. Se riporto qui solo la conclusione è per dovere di sintesi e semplicità