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lunedì 3 novembre 2008

L'alveare - Il Cairo, Egitto

Ramadan al Cairo è un periodo curioso. Passato il tramonto, a causa dell’Iftar, le strade e le piazze sono semi deserte. Svaniscono in un sogno il consueto frastuono e quell’atmosfera da San Siro ad un concerto di Vasco. Se attraversi una strada puoi farlo tranquillo, senza scattare come un gatto tra le auto in tangenziale.

Ma qualche ora più tardi, diciamo all’una, se scendi dall’hotel per mangiare un boccone, varcato l’uscio vieni calamitato da un vortice di suoni, luci ed odori, che osservi impalato con gli occhi strabuzzati. Fino a notte fonda i negozi sono aperti e la gente si accalca davanti alle vetrine, a caccia di scarpe, abbigliamento e dolciumi. La cosa che sorprende è la varietà dei passanti. Non ci sono soltanto uomini maturi, ma pure vecchietti dal passo trascinato e mamme con bambini che fanno la spesa.

Un intreccio di flussi ha invaso ogni spazio. Si scorrono addosso, incrociandosi, attorcigliandosi, scontrandosi e ostacolandosi come mille bisce d’acqua che fuggono all’infinito, di diametro in diametro, all’interno di una bacinella in un mercato vietnamita. Chi ha un po’ di fretta e in preda all’impazienza ha già picchiato le scarpe contro i tacchi di un passante, decide di effettuare un taglio laterale e sfidare i cordoni di veicoli ammaccati. Agli incroci maggiori i flussi si intersecano e come sullo schermo di un vecchio videogioco attraversano a scatti con sequenza alternata.

Poco prima delle due te ne torni in albergo e l’attività dell’alveare non si è ancora placata. Quando sei al buio, sotto le lenzuola, attraverso le fessure tra le ante delle finestre, filtrano ancora, tra i vapori speziati, gli acuti dei clacson, gli strilli degli ambulanti e il rombo baritonale del rumore di fondo.

Questa è Il Cairo durante il Ramadan, qui la ninnananna la cantano così.


Foto pasticceria a Il Cairo, di Fabio Pulito

venerdì 26 settembre 2008

La cultura delle mance - Il Cairo, Egitto

In Egitto con una mancia si ottiene quasi tutto, e per qualsiasi cosa un egiziano se ne può aspettare una. Si dà la mancia non soltanto al cameriere che ci serve al ristorante o al portiere che ci porta la valigia nella hall. Nel formicaio del Cairo a caccia di una tip si lanciano anche gli addetti del museo che ci accompagnano ai servizi, i seccatori che posano col turbante per farsi scattare una foto, i ferrovieri che aiutano il viaggiatore a trovare il posto prenotato o gli inservienti che ci porgono la salvietta in bagno. Ovviamente nessuno ha chiesto loro alcunché: più che offrire, impongono un servizio che non si può poi non retribuire. Fortunatamente si accontentano di molto poco, una sterlina egizia basta spesso per comprarsi anche un loro sorriso e tanti complimenti. Alcuni casi però sono alquanto sorprendenti.

A Ghiza, i turisti che fotografano la piramide di Cheope sono tenuti a debita distanza da un cordone che circonda la struttura. A turno una delle guardie approccia e invita il visitatore ad avvicinarsi alla piramide scavalcando il cordone. Il poliziotto ovviamente si aspetta una mancia, ma altrettanto ovviamente quasi tutti rifiutano, perché il cordone sarà pur lì per qualche motivo, e poi non si capisce che differenza potranno fare pochi metri di distanza su una foto dal basso ad un monumento così grande.

In stazione, presso la biglietteria, un agente si avvicina per aiutarci a comprare il biglietto per Alessandria. Un totale di novantasei sterline egiziane. Tiriamo fuori un pezzo da cento, il poliziotto se ne appropria, lo porge all’addetto che gli consegna i biglietti e il resto. L’agente ci allunga i biglietti e le ricevute, ma quelle dannate banconote devono essere incredibilmente appiccicose e non vogliono saperne di staccarsi dai suoi polpastrelli.
“E quelli?” Indichiamo il magro malloppo.
Lui ci sorride e annuisce. Quattro sterline sono un po’ troppe se confrontate con le mance che vengono normalmente pagate per servizi analoghi.
“Che dice, facciamo a metà?”
Il poliziotto non ci pensa nemmeno, ci guarda di nuovo, ci regala un altro sorrisone di denti marci e continua ad annuire, ringraziando. Noi siamo rimasti ipnotizzati ad osservarlo e non ci siamo accorti che le banconote si sono volatilizzate. Gli rivolgiamo un sorriso obliquo, quello che potremmo fare ad un monello che ha fatto il furbo, e rassegnati ci avviamo.
Dopo aver fatto qualche passo qualcuno urla alle nostre spalle. Ci voltiamo, è lo stesso agente.
“Binario numero cinque!” Facciamo finta di credere che l’abbia fatto perché si è reso conto di aver intascato un po’ troppo.
Shokran!” gli rispondiamo. Grazie mille, furbacchione...

La sera facciamo un salto al più famoso bazar del Cairo, Khan El Khalili. Le guide avvertono che si tratta di un posto in cui i turisti vengono trattati come ricconi da spennare, ma a sorpresa, quando arriviamo, tra i vicoletti del mercato regna una calma sospetta: gli egiziani mangiano e bevono e i turisti si aggirano indisturbati tra un negozio e l’altro. C’era il trucco, ovviamente. Una mezz’ora più tardi, i venditori e gli imbonitori che hanno finito l’Iftar, il rito con cui al tramonto rompono il digiuno durante il Ramadan, sono attivissimi e maleducati. Sparano prezzi inaccettabili per paccottiglia dozzinale, cercano di intimidire le loro “prede” - specialmente le donne -, sbarrano loro la strada, le spingono, le afferrano per un braccio e le strattonano. È uno spettacolo davvero fastidioso. Khan El Khalili, com’era prevedibile, non è un gran bel posto, Il Cairo offre attrazioni molto migliori.

A causa dell’Iftar gran parte delle strade, dalle sei della sera in poi, per qualche ora, sono semi deserte. Svanisce come in un sogno il consueto frastuono, è possibile finalmente fare una passeggiata su un marciapiedi che non è intasato come San Siro ad un concerto di Vasco e si può attraversare una strada senza dover procedere con scatti da velocista tra un passaggio e l’altro di macchine lanciate come schegge. Al Cairo tutto ciò è una piacevole sorpresa.

Ma qualche ora più tardi, verso le nove o le dieci, quando si scende dall’hotel per mangiare un tardo boccone, appena fuori dall’uscio si viene calamitati da un vortice di gente e mezzi, rumore, luci, odori e caldo a cui ci si abitua (a stento) soltanto dopo qualche minuto di stupore da bocca aperta e occhi strabuzzati. Fino a notte fonda i negozi sono aperti e la gente si accalca davanti alle vetrine alla ricerca di scarpe, abbigliamento e dolciumi. Molteplici flussi umani si snodano sul marciapiedi scorrendo gli uni sugli altri, incrociandosi, attorcigliandosi, scontrandosi e tagliandosi la strada come bisce d’acqua, che fuggono all’infinito di diametro in diametro all’interno di una bacinella in un mercato vietnamita. Chi ha un po’ di fretta e mosso dall’impazienza ha già picchiato con frequenza la punta delle scarpe sui tacchi del passante che lo precede, decide di tagliare lateralmente e condividere le polverose corsie stradali con gli interminabili cordoni di veicoli ammaccati, leggermente più ordinati di quelli sui marciapiedi ma, manco a dirlo, molto più pericolosi. Agli incroci maggiori i flussi si intersecano e, come in un vecchio videogioco con schermo a maglie, attraversano a scatti con sequenza alternata: uomo-auto-donna-furgone-ragazzini a manina-motocicletta-vecchietto-madre con bimbo in braccio-taxi-autobus, e così via all’infinito. Alle due passate torniamo in albergo e l’attività di questo alveare non si è ancora calmata. Quando mezzora dopo ci stiamo per addormentare, attraverso le fessurine tra le ante delle finestre filtrano ancora, tra i vapori speziati degli spiedi di shawarma, gli acuti dei clacson, gli strilli degli ambulanti e il rombo baritonale delle voci e dei suoni di fondo.
Città energica Il Cairo, che, come dice il tassista che ci accompagna all’aeroporto, never sleeb, terminando con la classica storpiatura araba della P, come in byramids o nell’indignato it’s...un-accebtable. Sono fantasticamente arabi questi egiziani.

Un’ultima nota curiosa. Mentre tutto il mondo fa i calcoli utilizzando i simboli numerici noti col nome di arabi, in Egitto gli arabi locali espongono i prezzi utilizzando delle cifre diverse, che seguono lo stesso sistema ma sono di derivazione indiana. Eccole:


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È come se in un mondo come il nostro, dominato dalla scrittura con i caratteri romani, gli italiani, proprio loro, leggessero il Corriere della Sera in cirillico. In una realtà parallela, forse lì sì.



lunedì 22 settembre 2008

Lungo la sponda del Nilo - Il Cairo, Egitto

Sono davvero tanti i pezzi esposti al Museo Egizio del Cairo. Dopo aver trascorso quasi un’ora ad ammirare le sequenze buffe e misteriose dei geroglifici e la perfezione dei graniti e degli alabastri levigati, ci si rende conto che si è arrivati soltanto a metà del primo tratto, del primo lato, del primo piano, di questo massiccio e spazioso edificio. Per fortuna la sorpresa iniziale è passata e si può ora scorrere più velocemente tra la fila delle bare ordinate come soldati sull’attenti lungo le pareti e i grandi sarcofaghi sistemati ai loro piedi. E poi, dopo aver girato l’angolo, chinarsi a dare un’occhiata alle teche su cui stanno esposti monili, decorazioni e gioielli; zigzagare tra le statue, le urne, le stoffe, i sandali e un numero incredibile di altri oggetti la funzione dei quali non è sempre chiara.

La bellezza, la raffinatezza e l’ottimo stato di conservazione della gran parte dei reperti contrasta però bruscamente con la scarsa qualità della struttura che ospita il museo. Pavimenti grezzi e rovinati, pareti scalcinate, finestroni opachi catturano di tanto in tanto l’attenzione dell’occhio che vi si va a poggiare per qualche istante prima di tornare ad ammirare la splendida collezione delle antichità, senza però aver mancato di macchiare, anche se soltanto in maniera quasi impercettibile, alcune delle immagini che si andranno ad inserire nella sequenza del ricordo di questa notevole esposizione.

Pure la cura con cui vengono conservate alcune opere stupisce negativamente molti dei visitatori. Una buona parte dei pezzi non sono protetti in alcun modo, altri sono conservati in delle specie di credenze scrostate e sbilenche che poche donne in Italia oserebbero esporre nelle loro cucine. Il risultato è che troppi turisti toccano gli oggetti esposti, a volte distrattamente ma spesso anche volontariamente per seguire con un dito un profilo interessante; altri addirittura ci poggiano sopra una spalla quando è l’ora di riposare la schiena e le gambe. E chi gestisce il museo non ha certo molte ragioni per lamentarsi. Le guide turistiche sono infatti le prime a dare il cattivo esempio, cominciando spesso le spiegazioni su un sarcofago con un sonoro schiaffo sul lato dell’oggetto; o quelle su una statua con una strofinatina dei polpastrelli tra i solchetti delle iscrizioni o sulle curve dei bassorilievi.
I segnali che invitano il pubblico a non entrare in contatto con i pezzi esposti sono pochissimi, piccoli e spesso sistemati in punti non molto strategici, magari in un angolo vicino ad una rampa di scale o mezzo nascosti dal profilo di una teca.

Onestamente l’atmosfera creata con il design e le decorazioni nei musei europei è tutta un’altra cosa, così come quella che regna nel sofisticato e avanzatissimo museo di Shanghai, una combinazione molto interessante tra antichità e ritrovati hi-tech. Qui è proprio il balletto sincronizzato tra i profili classici delle porcellane o delle giade e le linee avanzate dell’architettura del complesso a stuzzicare i sensi dei visitatori, oppure gli accostamenti dei colori di oggetti esposti ed elementi delle sale, o ancora i giochi di luce sulle teche e sulle tinte degli schermi divisori.

Al museo del Cairo nella maggior parte degli spazi dedicati alle esposizioni mancano i controlli delle condizioni ambientali, come temperatura, luce e umidità. Ma non è certo perché - o meglio, non solo perché - le sale della tomba di Tutankamon e delle mummie sono le uniche ad essere dotate di aria condizionata che chi vi entra ci resta per un bel po’. È qui infatti che il museo offre il meglio di sé. La tomba di Tutankamon deve essere sembrata a chi l’ha scoperta un incrocio tra una miniera d’oro sudafricana e la sede centrale di Tiffany, nella via più in del cuore di Manhattan. I monili, i copricapi, le gemme e soprattutto i sarcofaghi sono un miscuglio di sfarzo e bellezza sopraffina che lascia chiunque col fiato sospeso. E pensare che quella di questo re è l’unica tomba trovata intatta durante gli scavi ufficiali, ignorata dalle varie spedizioni di saccheggiatori a causa probabilmente della sua “scarsa” rilevanza a confronto di quelle dei faraoni più importanti (Ramses II regnò per quasi sette decenni, mentre Tutankamon morì a diciannove anni, dopo solo dieci sul trono).

Col fiato sospeso ci resta pure chi, dopo aver pagato un biglietto supplementare, entra nella stanza delle mummie e si ritrova a tu per tu con il primo corpicino striminzito, uno scheletrino ricoperto di pelle scura, con i denti a castoro e i capelli di un giallo- arancio talmente fasullo da fare invidia persino ad un punk quattordicenne. Chi si aspettava di vedere una serie di sagome ricoperte di garze sfila sbalordito accanto alla fila delle salme di reali, sacerdoti e balie, facendo il giro della sala anche due o tre volte, fermandosi ad ammirare le forme delle spalle e dei gomiti, addolcite dal sottile strato gommoso della pelle annerita, o la perfezione di un’unghia che sembra fresca di manicure e il vuoto lasciato da due dita mancanti su un piede. Forse per il fatto che sono rattrappiti questi corpi a prima vista sembrano molto piccoli, si scopre poi che spesso la loro statura è di un metro e settanta o più e che il più alto raggiunge addirittura il metro e ottantatré.

Per una passeggiata serale gli addetti della reception dell’hotel consigliano il parco sul lungofiume del Nilo. Ad accogliere ed intrattenere i numerosi vascaroli che convergono al parchetto ci sono degli artisti francesi divisi in due gruppi. Un quartetto di jazzisti fa la staffetta con una compagnia di uomini e donne che pilotano con dei pali metallici le braccia di marionette giganti, che indossano come se fossero dei costumi-zaino.

Un’occhiata alla riva opposta ricorda vagamente - ed è la seconda volta oggi - Shanghai. Per la precisione la camminata del Bund, con la skyline di Pudong dalla parte opposta del fiume. La scena è dominata ovviamente dalle torri dei più importanti hotel di lusso, lo Sherathon, l’Intercontinental, l’Hilton, il Sofitel, ma da pochi edifici di rappresentanza delle grandi multinazionali. Dopo uno sguardo veloce se ne individuano soltanto due. La prima, la Mobil, non è certo una sorpresa, nella capitale di uno stato nordafricano, incastonato tra aree che flottano su bolle di petrolio o gas naturale. La seconda invece fa esclamare un “Ahhh” che può voler dire molte cose. L’insegna luminosa in cima all’edificio proietta un campo rosso su cui in sequenza si accendono le lettere H-A-I-E-R, che brillano per qualche secondo per poi spegnersi e ricominciare da capo.
La sigla non vi dice nulla? Forse non ancora, ma chissà fra qualche anno. Haier è il nome di una multinazionale cinese del settore degli elettrodomestici. L’Electrolux o la Whirlpool di casa loro. Fa parte di quell’avanguardia di marchi che sono riusciti ad emergere da quel magma caotico in cui sguazzano migliaia di imprese cinesi che producono manufatti per le multinazionali straniere o aggeggi di scarsa qualità per i mercatini rionali, e che sono riusciti a ritagliarsi uno spazio nel mercato che conta. O addirittura ad assorbire dei colossi stranieri, come ha fatto l’ex-sconosciuta Lenovo acquisendo la divisione Computers della IBM.

La Cina che avanza è anche questo lento ma costante terremoto delle tradizioni. Un’insegna con un nome che a molti non dice nulla, che lungo il corso del Nilo - e magari anche del Tamigi o del Hudson - si fa largo a spallate tra quelli dei colossi occidentali che da decenni suonano familiari a noi, ai nostri padri e perfino ai nostri nonni.