lunedì 22 settembre 2008

Lungo la sponda del Nilo - Il Cairo, Egitto

Sono davvero tanti i pezzi esposti al Museo Egizio del Cairo. Dopo aver trascorso quasi un’ora ad ammirare le sequenze buffe e misteriose dei geroglifici e la perfezione dei graniti e degli alabastri levigati, ci si rende conto che si è arrivati soltanto a metà del primo tratto, del primo lato, del primo piano, di questo massiccio e spazioso edificio. Per fortuna la sorpresa iniziale è passata e si può ora scorrere più velocemente tra la fila delle bare ordinate come soldati sull’attenti lungo le pareti e i grandi sarcofaghi sistemati ai loro piedi. E poi, dopo aver girato l’angolo, chinarsi a dare un’occhiata alle teche su cui stanno esposti monili, decorazioni e gioielli; zigzagare tra le statue, le urne, le stoffe, i sandali e un numero incredibile di altri oggetti la funzione dei quali non è sempre chiara.

La bellezza, la raffinatezza e l’ottimo stato di conservazione della gran parte dei reperti contrasta però bruscamente con la scarsa qualità della struttura che ospita il museo. Pavimenti grezzi e rovinati, pareti scalcinate, finestroni opachi catturano di tanto in tanto l’attenzione dell’occhio che vi si va a poggiare per qualche istante prima di tornare ad ammirare la splendida collezione delle antichità, senza però aver mancato di macchiare, anche se soltanto in maniera quasi impercettibile, alcune delle immagini che si andranno ad inserire nella sequenza del ricordo di questa notevole esposizione.

Pure la cura con cui vengono conservate alcune opere stupisce negativamente molti dei visitatori. Una buona parte dei pezzi non sono protetti in alcun modo, altri sono conservati in delle specie di credenze scrostate e sbilenche che poche donne in Italia oserebbero esporre nelle loro cucine. Il risultato è che troppi turisti toccano gli oggetti esposti, a volte distrattamente ma spesso anche volontariamente per seguire con un dito un profilo interessante; altri addirittura ci poggiano sopra una spalla quando è l’ora di riposare la schiena e le gambe. E chi gestisce il museo non ha certo molte ragioni per lamentarsi. Le guide turistiche sono infatti le prime a dare il cattivo esempio, cominciando spesso le spiegazioni su un sarcofago con un sonoro schiaffo sul lato dell’oggetto; o quelle su una statua con una strofinatina dei polpastrelli tra i solchetti delle iscrizioni o sulle curve dei bassorilievi.
I segnali che invitano il pubblico a non entrare in contatto con i pezzi esposti sono pochissimi, piccoli e spesso sistemati in punti non molto strategici, magari in un angolo vicino ad una rampa di scale o mezzo nascosti dal profilo di una teca.

Onestamente l’atmosfera creata con il design e le decorazioni nei musei europei è tutta un’altra cosa, così come quella che regna nel sofisticato e avanzatissimo museo di Shanghai, una combinazione molto interessante tra antichità e ritrovati hi-tech. Qui è proprio il balletto sincronizzato tra i profili classici delle porcellane o delle giade e le linee avanzate dell’architettura del complesso a stuzzicare i sensi dei visitatori, oppure gli accostamenti dei colori di oggetti esposti ed elementi delle sale, o ancora i giochi di luce sulle teche e sulle tinte degli schermi divisori.

Al museo del Cairo nella maggior parte degli spazi dedicati alle esposizioni mancano i controlli delle condizioni ambientali, come temperatura, luce e umidità. Ma non è certo perché - o meglio, non solo perché - le sale della tomba di Tutankamon e delle mummie sono le uniche ad essere dotate di aria condizionata che chi vi entra ci resta per un bel po’. È qui infatti che il museo offre il meglio di sé. La tomba di Tutankamon deve essere sembrata a chi l’ha scoperta un incrocio tra una miniera d’oro sudafricana e la sede centrale di Tiffany, nella via più in del cuore di Manhattan. I monili, i copricapi, le gemme e soprattutto i sarcofaghi sono un miscuglio di sfarzo e bellezza sopraffina che lascia chiunque col fiato sospeso. E pensare che quella di questo re è l’unica tomba trovata intatta durante gli scavi ufficiali, ignorata dalle varie spedizioni di saccheggiatori a causa probabilmente della sua “scarsa” rilevanza a confronto di quelle dei faraoni più importanti (Ramses II regnò per quasi sette decenni, mentre Tutankamon morì a diciannove anni, dopo solo dieci sul trono).

Col fiato sospeso ci resta pure chi, dopo aver pagato un biglietto supplementare, entra nella stanza delle mummie e si ritrova a tu per tu con il primo corpicino striminzito, uno scheletrino ricoperto di pelle scura, con i denti a castoro e i capelli di un giallo- arancio talmente fasullo da fare invidia persino ad un punk quattordicenne. Chi si aspettava di vedere una serie di sagome ricoperte di garze sfila sbalordito accanto alla fila delle salme di reali, sacerdoti e balie, facendo il giro della sala anche due o tre volte, fermandosi ad ammirare le forme delle spalle e dei gomiti, addolcite dal sottile strato gommoso della pelle annerita, o la perfezione di un’unghia che sembra fresca di manicure e il vuoto lasciato da due dita mancanti su un piede. Forse per il fatto che sono rattrappiti questi corpi a prima vista sembrano molto piccoli, si scopre poi che spesso la loro statura è di un metro e settanta o più e che il più alto raggiunge addirittura il metro e ottantatré.

Per una passeggiata serale gli addetti della reception dell’hotel consigliano il parco sul lungofiume del Nilo. Ad accogliere ed intrattenere i numerosi vascaroli che convergono al parchetto ci sono degli artisti francesi divisi in due gruppi. Un quartetto di jazzisti fa la staffetta con una compagnia di uomini e donne che pilotano con dei pali metallici le braccia di marionette giganti, che indossano come se fossero dei costumi-zaino.

Un’occhiata alla riva opposta ricorda vagamente - ed è la seconda volta oggi - Shanghai. Per la precisione la camminata del Bund, con la skyline di Pudong dalla parte opposta del fiume. La scena è dominata ovviamente dalle torri dei più importanti hotel di lusso, lo Sherathon, l’Intercontinental, l’Hilton, il Sofitel, ma da pochi edifici di rappresentanza delle grandi multinazionali. Dopo uno sguardo veloce se ne individuano soltanto due. La prima, la Mobil, non è certo una sorpresa, nella capitale di uno stato nordafricano, incastonato tra aree che flottano su bolle di petrolio o gas naturale. La seconda invece fa esclamare un “Ahhh” che può voler dire molte cose. L’insegna luminosa in cima all’edificio proietta un campo rosso su cui in sequenza si accendono le lettere H-A-I-E-R, che brillano per qualche secondo per poi spegnersi e ricominciare da capo.
La sigla non vi dice nulla? Forse non ancora, ma chissà fra qualche anno. Haier è il nome di una multinazionale cinese del settore degli elettrodomestici. L’Electrolux o la Whirlpool di casa loro. Fa parte di quell’avanguardia di marchi che sono riusciti ad emergere da quel magma caotico in cui sguazzano migliaia di imprese cinesi che producono manufatti per le multinazionali straniere o aggeggi di scarsa qualità per i mercatini rionali, e che sono riusciti a ritagliarsi uno spazio nel mercato che conta. O addirittura ad assorbire dei colossi stranieri, come ha fatto l’ex-sconosciuta Lenovo acquisendo la divisione Computers della IBM.

La Cina che avanza è anche questo lento ma costante terremoto delle tradizioni. Un’insegna con un nome che a molti non dice nulla, che lungo il corso del Nilo - e magari anche del Tamigi o del Hudson - si fa largo a spallate tra quelli dei colossi occidentali che da decenni suonano familiari a noi, ai nostri padri e perfino ai nostri nonni.


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