lunedì 15 settembre 2008

In mezzo al maremoto. Bangkok - Thailandia, 15 settembre 2008

È buio, da un pezzo ormai; me ne rendo conto soltanto adesso, perché laggiù in fondo delle lucine bianche hanno cominciato a brillare ad intermittenza. Vibrazioni metalliche scivolano su traiettorie a parabola, ricordando vagamente quel tipo di suoni piombati che rimbombano da lontano in un cantiere edile. Rombi di sbarre flesse e travi ondeggianti mi ruotano attorno come effetti sonori che scorrono da una cassa all’altra nel sistema Dolby di un multisala.

Ero in un sogno, ma dopo aver aperto gli occhi non sono ancora sicuro di essermi svegliato. Guardo in alto e vedo uno scorcio del cielo lombardo, la sua versione estiva, tersa e frizzante. Ma è come se lo vedessi attraverso un oblò. Sto seduto su uno di quei vecchi sedili in finta pelle color nocciolina, in un vagone riciclato delle Ferrovie dello Stato, i tempi di Trenitalia sono ancora lontani. Il cielo dovrei riuscire a vederlo girando la testa verso il finestrino, invece sta giusto sopra di me, incorniciato dal bordo frastagliato di un enorme squarcio sul tetto.

È il tardo pomeriggio di una domenica di inizio giugno, nel 1991; manca poco al tramonto e la nuvola che mi passa sopra, spruzzata come panna montata su un gelato gusto puffo, scorre su un mondo che non conosce ancora internet e cellulari, voli low-cost e globalizzazione. Le bande di ultrà invece esistono già, e hanno già iniziato a trascorrere le loro liete domeniche dedicandosi alla devastazione di treni in compagnia.

Stiamo tornando dalla trasferta di Cremonese-Padova, partita destinata ad essere decisiva per la promozione in Serie A, divenuta famosa invece per altri motivi. A giudicare da come si impegnano per demolire questo vagone si direbbe che qualcuno li paghi con tariffe orarie, con gli straordinari per il fine settimana, o meglio ancora per chilo di materiale, che divelgono dalla carrozzeria della vettura e gettano poi nei fossi, nei campi o nelle banchine delle stazioni che ci scorrono a lato. Mi ero addormentato alla partenza da Cremona, ma era come dormire su una strada coi lavori in corso, tra un martello pneumatico ed uno schiacciasassi.

La cosa più sorprendente è che all’interno del treno quasi tutti si sono messi all’opera. Sembra essere un impegno a cui non ci si può sottrarre, un istinto contagioso, come quello che spinge a unirsi ai soccorritori che scavano tra le macerie di un terremoto. In pochissimi, come me, si limitano sbalorditi ad osservare. È bastato l’esempio impunito di un gruppetto di professionisti, assieme alla sicurezza infusa dalla notizia che gli agenti della polizia sono stati sequestrati e rinchiusi nel vagone di testa, e il secchione magrolino che mi ansima davanti, con tanto di occhialetti, zazzera e brufoli, si sta spezzando la schiena e scorticando i polpastrelli per cercare di rimuovere la parete dello scompartimento. Si ferma, ha il fiatone, si guarda le mani solcate di viola, manda a quel paese la parete, strappa un poggiatesta imbottito e lo getta dal finestrino come se fosse una bomba ad orologeria, che a momenti rischiava di scoppiargli tra le dita.

Le stazioni lungo il percorso sono state avvertite, le porte di ingresso ai binari sono sbarrate e nelle città più grosse al di là delle vetrate si ammucchiano gli hooligans delle squadre locali. Si dimenano e ruggiscono come belve in un film muto. Sembrano un branco di cani randagi, prigionieri in una grande gabbia di plexiglas, mentre un carro attraversa il loro territorio esponendo un carico di bastardi accalappiati altrove. Il macchinista non si ferma mai e se qualche ferroviere a terra esce allo scoperto viene ricacciato nel proprio bunker con un bombardamento di sedili, bottiglie ed estintori. Il treno fa soltanto qualche sosta forzata quando qualche membro dell’operosa manovalanza decide di prendersi una pausa, tira il freno d’emergenza ed esce a sgranchirsi la schiena e le braccia, lanciando delle pietre contro qualche bersaglio.

Il freno viene azionato per l’ultima volta a Campo Marte, a poche centinaia di metri dalla stazione di Padova. L’istinto e l’esperienza ha suggerito a questi corsari che è meglio defilarsi lungo percorsi alternativi, aggirando in tal modo il grosso contingente di agenti della celere che attendono stanchi, impazienti e probabilmente incazzati l’arrivo del treno alla stazione centrale. Io resto a bordo e osservando la scena dal finestrino mi chiedo se non scappare sia stata una buona idea, fino a quando scorgo i bagliori blu delle gazzelle che battono la zona, sgommando come le Alfa Giulia nei film poliziotteschi degli anni ‘70.

Alla fine siamo in pochi ad arrivare in stazione e all’uscita dal treno passiamo in fila indiana tra due cordoni di celerini che ci fissano in cagnesco. Vorrei guardarli in faccia e dire che non c’entro nulla; in questi momenti però è meglio pressare le labbra, fissare con un interesse vagamente ebete la punta delle proprie scarpe e seguire con passo goffo il culo di quello che ci sta davanti.

Parecchi anni fa mi piaceva andare allo stadio. I rumori, i colori, la bolgia nel catino delle gradinate, il tutto mescolato con le emozioni dell’evento sportivo, mi mettevano addosso un’eccitazione particolare. Qualcosa che altrimenti ho provato soltanto a qualche concerto.

Arrivando a piedi la domenica pomeriggio, le strade in città erano deserte, l’atmosfera lenta di ozio e pennichelle, il silenzio vivo che colava dai balconi aperti, su cui qualcuno aveva esposto una bandiera, era rotto dall’eco dei boati dei cori, che ti arrivano da davanti, da dietro e dai fianchi, ma persino dall’alto, dal basso e da dentro. Il frastuono era invece attutito alle biglietterie nel sotto-gradinata, dove quasi sempre si aggirava qualcuno per sgraffignare trofei di sciarpe e bandiere. I cancelli erano sorvegliati da un solo bigliettaio, a cui soltanto qualche anno più tardi si aggiunse un poliziotto che sequestrava fibbie e accendini. Infine, dopo l’ultima rampa di scale, oltre la porta su quel mondo blu e smeraldo, disegnato qua e là con un gessetto da lavagna, l’immersione in un’atmosfera da arena romana, elettrizzata per i combattimenti tra gladiatori e belve. Visto da lì il pubblico era una massa unica, compatta e gelatinosa, che trasmetteva le vibrazioni di un impulso ricevuto in curva nord, lungo tutto il cuneo della tribuna dei distinti, mandandolo ad infrangersi sulla cancellata della sud.

E poi gli striscioni, le bandiere e le sciarpe, le maglie biancorosse e la fila di tamburi, su cui qualche bullo a torso nudo picchiava ritmi tribali di una semplicità ipnotica. Ad un tratto nella curva calava il silenzio, compatto e potente, di voci trattenute da centinaia di gole, che i suoni degli altri settori non riuscivano a scalfire. Un altoparlante giocattolo diffondeva una frase gracchiata. Le parole erano come le note di un un grammofono antico che arrivano soffuse da una stanza lontana. Il comando finale si impennava stonato e poi, precedute da una pausa di un’ottava, esplodevano come fucilate le sillabe di un coro poderoso, audace e idiota, gridato dalla curva intera come un urlo di battaglia.

A pochi minuti dall’inizio della partita lo speaker ufficiale leggeva le formazioni. Il pubblico intonava un “olè” per chiunque, campioni e scarponi, a patto che vestissero la maglia giusta. Tra lo sventolio delle bandiere e il rito della “sciarpata”, sul campo cadeva una pioggia di coriandoli, seguita spesso dalla nebbia dei fumogeni. Le squadre si disponevano lentamente in formazione ed il portiere che si avvicinava alla curva poteva ricevere una manna di ovazioni o, se era l’avversario, una grandinata di insulti. Dopo aver controllato le reti con tecniche da pescatore, arbitro e guardalinee si scambiavano cenni misteriosi. Il fischio d’inizio interrompeva l’apnea del pubblico e il suono smorzato dei primi calci sul pallone, assieme al vento che soffiava in cima alla gradinata, marcavano nei sensi il confine tra stadio e salotto, divenuto ormai soltanto un blando surrogato.

Un’emozione unica perché primordiale, istintiva, non coltivata, impossibile da provare negli altri segmenti della vita civilizzata. Io mi ci tuffavo dentro senza timore, perché sapevo che mi avrebbe portato ad un limite che non sarei mai stato in grado di valicare, ma che in nessun altro modo avrei mai avvicinato; un mare in cui sarei rimasto immerso fino ad un attimo prima che mi scoppiassero i polmoni, da cui sarei uscito paonazzo ed emozionato, come un cane a cui è sfuggito un gatto, che ansima esausto ma è felice lo stesso.

Purtroppo non tutti la pensavano come me. Li vedevo confabulare come un plotone di sabotatori, organizzarsi in formazioni e partire di scatto, seguendo in maniera sincronizzata sequenze che mi lasciavano di stucco, per scomparire poi giù per la scalinata, verso una missione avvolta nel mistero. Io li stavo ad osservare sbalordito e per un attimo credevo ancora di giocare al mio gioco. Ma era un inganno, lo scoprivo quasi subito, mi mettevo le mani in tasca e uscivo dallo stadio.

Fino ad un giorno in cui li seguii, armato di curiosità per soffocare la paura. Mi ritrovai in uno spiazzo adiacente la curva degli ospiti (ospiti!), l’orda selvaggia distribuita omogeneamente, dalla curva sud ad una collinetta nei paraggi. Portavano armi bianche e fazzoletti sul viso. Era in corso una battaglia ma non vedevo il nemico, i movimenti di ognuno tradivano rabbia frustrata, il nervosismo di colui a cui è stato teso un tranello. Poi ci fu un fremito e la massa si spostò in blocco, come biglie metalliche in un campo magnetico. Nel garbuglio di grida non capivo una parola, fino a quando un tizio vestito da pirata mi passò vicino, mi diede una pacca sulla spalla e con circospezione mi sussurrò: “gli sbirri, dai, carichiamo!”. Dopo aver percorso dieci metri ed essersi accorto di essere da solo, si voltò senza fermare la marcia e gli si dipinse sul viso un’espressione confusa. Io non ci feci caso, stavo pensando a tutt’altro: avevo appena scoperto chi era il loro nemico.

E allora, per ricollegarmi al tema di questo diario, credo che in vita mia mai mi sia sentito così alieno, così fuori posto come in quello spiazzo polveroso. Ed è curioso pensare che sia successo proprio lì, nel centro della città in cui sono nato. Non invece quand’ero in viaggio solitario, tra città e campagne nel sud dell’India, dove per giorni non incontrai uno straniero, né nei ristoranti dei paesini cinesi, dove non ti capiscono neanche se ordini a gesti. E nemmeno nel cortile del municipio di Phuket, adibito a unità di crisi per le vittime dello tsunami, dove centinaia di disperati cercavano i familiari, gli amici, la maniera di tornare a casa o anche un semplice rifugio.

Muovendomi emozionato tra i banchetti delle ambasciate, gli ospedali da campo, i centri informazione e i chioschi per la distribuzione di cibo e vestiario, mi trovavo sempre dalla stessa parte della barricata, eravamo tutti uniti per aiutare chi era stato colpito dal dramma.

Vent’anni fa, impalato e sbigottito, nel treno o in quello spiazzo a ridosso dello stadio, ero invece da solo.

In mezzo al maremoto.











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