lunedì 21 febbraio 2005

Guaio! - Singapore

Passeggio in Orchard Road, i piedi quasi li trascino. Le passeggiate pomeridiane a cavallo dell’equatore ti succhiano l’energia. E’ l’ora del tramonto e finalmente si respira. Lo sguardo si posa distratto sui soliti particolari.
Adolescenti malay che ruttano l’ennesima birra alla salute di Allah, le prime squillo che scendono dai taxi e salgono ticchettando gli scalini dell’Orchard Tower. Turisti col collo madido che scattano foto a chissà cosa, e giovani alla moda che sorseggiano frappè.
All’improvviso con la coda dell’occhio individuo qualcosa. Anzi qualcuno. Sta lì, sul bordo del marciapiede. Non si muove ma è come se lo facesse. Sta in una posa dinamica. E’ come se un fremito le percorresse il corpo. Un movimento invisibile, che soltanto l’intuito riesce a percepire. Ha appena mosso un passo? O lo sta per muovere? Sarà per quei capelli ondulati, così rari nelle ragazze asiatiche.
Dove l’ho già vista? Anche lei sta pensando la stessa cosa.
Mi ha puntato gli occhi addosso, e con una smorfia mi chiede: dove ti ho già visto?
Ma dura solo un attimo. Non mi sono nemmeno fermato, con malcelata indifferenza punto lo sguardo di fronte a me, e proseguo con aria decisa verso il mio nulla da fare.
Sarebbe bastato dirglielo, invece di ricacciarmi le parole in gola. “Dove ti ho già vista?”.
Cosa mi ha fermato? Un pensiero lampo, di una parola soltanto: guaio!
Non ho ancora capito chi sia, se e dove l’ho già vista, ma quel pensiero è quasi una certezza: tieniti alla larga da quella ragazza.
La curiosità mi sta divorando, devo sedermi su quella panchina e pensare. Chi è? Chi sei? Perché quella parola?
Scorro la lista degli ultimi posti in cui sono stato. Kuala Lumpur? No, il viso mi dice Thailandia. Phuket? In mezzo al trambusto dello tsunami quel volto non compare. Hua Hin? No. Bangkok? No. Torno ad inizio lista, Kuala Lumpur?
Ma sì! E avevo ragione: è thailandese. Alloggiavamo nello stesso residence. Lei con la figlioletta e il marito. Il marito. Un altro pensiero. Ancora una parola soltanto. Cornuto! E ancora: guaio. Ora mi è tutto chiaro. La vedevo quasi tutte le sere al caffè del residence. Una di quelle catene americane, con prodotti italiani e prezzi giapponesi. Io abbassavo gli occhi sul mio libro o sugli appunti, ma non resistevo a lungo.
Quando alzavo la testa sapevo che mi bastava aspettare un attimo, e lei si sarebbe voltata verso di me.
Ha la capacità di guardarti come se al mondo ci fossi solo tu. Come se lei fosse la ragazzina di prima media e tu il ragazzo di terza di cui si è presa una cotta. Ma soprattutto, lo fa come se fosse la cosa più pulita del mondo. Come se quell’uomo che le sta seduto accanto fosse solo un conoscente, come se non fosse il padre della bimba, suo marito.
Anche allora, sarebbe bastato aggiungere qualcos’altro a quei Hi! scambiati al volo quando la incrociavo nella hall. Il suo sorriso non chiedeva, piuttosto autorizzava. Anche allora mi fermava quel pensiero. Guaio! Quando l’ho vista poco fa, c’è arrivato prima l’intuito della logica.
Interessante scoprire i meccanismi della mente, quelli che funzionano quando non ce ne accorgiamo. L’intuito, le decisioni prese praticamente senza pensarci. Ne parlava Gabriele Romagnoli su Repubblica, citando un saggio di uno studioso americano. ‘Blink’.
Qualche giorno fa sfogliavo il libro tra gli scaffali di Borders. Books, music, movies and coffees. Per fare il verso all’Esselunga: Supermecato o libreria?
Lessi l’introduzione e lo catalogai tra i libri di cui ho pensato: “Bello l’inizio! Interessante...non lo compro...”.
Tutto in sincerità, senza ironia: bello, interessante, non lo compro. Non ho dovuto nemmeno rifletterci, ho utilizzato il concetto chiave del saggio, per decidere di non comprarlo. Ho la sensazione che Romagnoli, in quella pagina scarsa, abbia catturato l’essenza del libro.
Sono uscito da Borders con una copia di ‘Sudden Fiction: American Short-Short stories’. Una raccolta di racconti brevissimi, un genere che esiste da molto tempo - c’è ‘A very short story’ di Hemingway, pubblicato nel ’25 - a cui non hanno ancora dato un nome. Sudden, short-short. Qualcosa a che fare con Blink in fondo ce l’ha.
Mi rialzo dalla panchina, do un’occhiata indietro. Non la scorgo, ovviamente.
Resta una domanda. Come al solito, resta sempre una domanda.
Guaio! Cosa sarebbe successo senza quel Blink?

lunedì 14 febbraio 2005

L'imperatore, il pirata e l'avvocato - Kuala Lumpur, Malesia

Le torri Petronas allungano le loro ombre sulla città che si rinfresca. Non sono ombre qualsiasi, nessuna città al mondo ne può vantare di più lunghe.
La lezione è terminata. Attraverso la parete a vetri ci godiamo una panoramica di lusso della skyline del Golden Triangle, la punta di diamante della Kuala Lumpur che cresce, forse a dismisura.
Il riflesso del tramonto alle sue spalle cancella i lineamenti dal suo volto, e il profilo della sua testa sembra la cima di un nuovo, stravagante edificio. L’ex-avvocato inglese accavalla le gambe e aspetta la mia risposta.
E' di origine pachistana, giovane e, a detta di varie donne, molto bello.
"Quindi riesci a giustificare un massacro di innocenti, perché appoggi la causa finale." Non si scompone.
"Lasciami spiegare con un aneddoto.
"Il condottiero più forte del mondo, il dominatore dell’universo conosciuto, sta cavalcando il suo destriero in compagnia dei suoi generali più valorosi. Nelle vicinanze di una spiaggia incontrano il pirata più temuto dell’impero.
- Come osi, pirata, saccheggiare i porti del mio impero e seminare terrore tra i miei sudditi?
- Lo dici tu a me, imperatore, tu che saccheggi tutto il mondo e terrorizzi popoli interi?"
Ha terminato. Quel colto avvocato dal volto immacolato mi sorride compiaciuto, mentre io, senza rispondere, resto lì insoddisfatto, interdetto, e pure un po' incazzato.
Qualcosa non quadra, qualcosa mi sfugge. Ho quell’impressione che si ha quando c’è nell’aria un fetore che ci è familiare, ma di cui non riusciamo ad identificare l’origine. Sono sicuro che ha torto ma non riesco ancora a spiegare il perché Ho l’impressione che lui sappia il perché senza però essere convinto di aver torto.
Poco più tardi scopro di cosa si tratta, e identifico l’origine di quell’odore sgradevole. La risposta gliela posso inviare soltanto con una lettera.
Caro avvocato,
ti voglio raccontare una storia.
“Il pirata più temuto della contea sta passeggiando coi suoi scagnozzi in una viuzza del porto. Incontra il monello più terribile della contrada. Il monello ha picchiato un ragazzino e gli ha rubato due mele.
- Come osi moccioso perseguitare i fanciulli del borgo?
- Lo dici tu a me, pirata? Tu che hai ucciso mio padre e derubato i miei fratelli?"
Come sanno i cantastorie, caro avvocato, quel che più conta è il punto di vista.
E il tuo, se mi permetti, è un po' tendenzioso.
Se i crimini dell’imperatore servono a giustificare quelli del pirata, allora per un attimo sono disposto a dimenticarli. Il pirata ha i suoi motivi per accusare l’imperatore, ma noi non abbiamo il diritto di ignorare le sue vittime.
Con stima e affetto.
Chi siano l’imperatore e il pirata, le vittime dell’uno e dell’altro, decidetelo voi.
Tutti prima o poi incontriamo il nostro avvocato. Quando capiterà a voi non fate come me, rispondetegli in faccia.

venerdì 7 gennaio 2005

Tsunami: le prime ore - Bangkok, Thailandia

Phuket town, 26 dicembre 2004. E' l'una del pomeriggio circa, ora thailandese, quando esco dalla stanza malmessa di un albergo del centro che di coloniale conserva soltanto la bella facciata. Scendo stancamente gli scalini scricchiolanti della vecchia scala di legno e mi fermo al banco della reception per pagare la giornata. Aspetto che qualcuno si accorga di me. Devo chiamare ad alta voce per attirare l'attenzione di uno dei ragazzi che stanno inchiodati davanti allo schermo di un piccolo televisore. Sono immagini di scene convulse e confuse.
Sembra che ci sia stato qualche sorta di incidente ma non riesco a capirci molto. Sarà l'ennesimo attentato dei separatisti islamici nell'estremo sud del paese? Il mio thailandese non è buono abbastanza per comprendere quello che dice lo speaker e non mi sembra comunque il caso di disturbare gli attenti spettatori. In ogni caso fra pochi minuti avrò l'opportunità di leggere le notizie in internet.
Inforco l'Honda Dream che ho noleggiato ieri ed esco alla ricerca di un internet café. Ci sono già attorno a me dei segnali di una qualche emergenza. La mia memoria li registra ma sul momento non riesco ancora a mettere assieme i pezzi di quel puzzle dell'orrore. C'è parecchia polizia per le strade e un elicottero sorvola la zona. Anche nelle dinamiche del traffico c'è qualcosa che lo rende leggermente diverso da quello di ogni giorno.
Mi siedo davanti ad un computer nuovo di zecca ed inserisco i dati necessari ad aprire la mia casella di posta. Quando sto per premere il tasto enter sento qualcosa che vibra nella mia tasca, poi riconosco lo squillo del telefonino.
Rispondo in inglese. "Hello?"
"Pronto..." è la voce di mio padre - E' natale, penso io, vorranno farmi gli auguri...No! Un attimo...non è Natale, ieri era Natale, oggi è il 26...che strano...-
"Pronto...Fabio..." la voce tradisce una certa ansia. Comincio ad insospettirmi. Nel retrobottega della mia mente è come se un'immagine cominciasse lentamente ad andare a fuoco.
"Sì, ciao papà..."
"Fabio! Sono contento di sentirti!". Lo sono anch'io, come al solito, ma mi è ormai chiaro che non è proprio quello che intende lui. Tra l'altro mi è sembrato di sentire la voce di mia madre nel sottofondo. E' come se anche lei fosse sollevata dalla notizia della mia risposta.
Nel giro di qualche secondo mio padre capisce che sono all'oscuro della causa della sua preoccupazione. Aveva chiamato per ricevere notizie e finisce invece per fornirmene.
"C'è stato un maremoto...proprio nella zona in cui ti trovi tu...". Sembra che stiano leggendo o ascoltando le notizie proprio mentre me le stanno riportando. "Indonesia, Sri Lanka...sì...anche in Thailandia...parlano proprio di quell'isola in cui dicevi di voler andare...".
Già, parlano di Phuket, l'isola in cui mi trovo io, e anche di Koh Phi Phi, un'altro paradiso tropicale in cui sono stato più di qualche volta. Poi di Krabi, Pha Nga, Koh Lanta...tutti posti che conosco bene. Morti a centinaia, forse a migliaia, a decine di migliaia se si considera tutta l'area coinvolta.
Un'area che va dall'Indonesia alle Maldive. Dallo Sri Lanka alle isole Andamane e alla Birmania. Una buona parte dell'Asia del sud e del sud-est. La zona in cui mi muovo da ormai più di tre anni.
Voglio raggiungere degli amici che abitano sull'isola per seguire le notizie in TV. Sono sul motorino e sarebbe ormai impossibile per chiunque non accorgersi di niente. Il cielo terso è pieno di elicotteri, alcuni dei quali, quelli dell'esercito, volano molto bassi e mi sembrano enormi. Credo vengano impiegati per le operazioni di evacuazione e per il trasporto dei feriti gravi. Sembra di osservare una nuvola di calabroni maculati e rumorosi.
Il traffico è impazzito e i poliziotti quasi si soffocano sui loro fischietti. Le strade che convergono sull'ospedale Wittayara sono praticamente bloccate.
Con l'aria calda del pomeriggio che mi investe la faccia penso a tutti i posti che ho visitato in questi anni e che sono stati raggiunti dalle onde.
La costa occidentale della Thailandia. L'isola di Penang sulla costa della Malesia. Sumatra e Banda Aceh, la punta occidentale della grande isola indonesiana in cui non sono riuscito ad entrare a causa della guerra civile. Da anni in quella fetta di terra poggiata sul petrolio si contano i morti tra i militari del governo centrale, i guerriglieri separatisti e ovviamente tra i civili. Ci mancava soltanto il terremoto.
E poi le coste indiane del Tamil Nadu. La caotica Madras. Mamallapuram con quel fantastico tempio sulla spiaggia. Lì le onde sono arrivate di sicuro...è un luogo suggestivo ed estremamente sacro perciò turisti e fedeli Hindu vi convergono a centinaia ogni minuto.
Kanyakumari, l'estremità meridionale dell'India, il punto in cui idealmente si incontrano il golfo del Bengala, il mare Arabo e l'oceano Indiano. I tre mari si stringono la mano, mescolando le proprie acque in modo assolutamente pacifico, senza disturbare i numerosi fedeli che vi si immergono per un bagno propiziatorio. Sarà stato spazzato dall'onda? O quella grande goccia di terra che è lo Sri Lanka sarà servita a riparare col suo sacrificio di vite umane questa punta sacra del Tamil Nadu?
Il bianchissimo lungomare di Pondicherri, l'enclave dalla quale i francesi avevano provato a contrastare la supremazia degli inglesi per la colonizzazione del subcontinente. Una città con i ritmi da moviola. I miei ricordi ruotano attorno al bell'edificio del consolato francese e al grande Ashram di Aurobindo. Ricordi che sanno di frutta esotica, caffè, dosa masala e semi di finocchio. Un gelato seduto sugli scogli di un litorale color gesso, che possiede alcuni tratti della riviera Fitzgeraldiana. Proprio poche settimane fa ho conosciuto a Singapore un garbato signore di Pondicherri. Terminato un contratto di consulenza negli Stati Uniti, aveva deciso di prendersi una pausa per trascorrere un paio di mesi con la famiglia. Lo avevano chiamato a Singapore per tenere un corso. Aveva accettato un po' perché lo avevano implorato e un po' perché in fondo era una buona occasione, ma era sinceramente seccato. Finito il corso se ne era tornato felicemente a casa. In questi giorni era sicuramente lì...
Infine lo Sri Lanka...ricordo di non esserci voluto andare...fu una forma di protesta silenziosa (e donchisciottescamente inutile) contro la chiusura del ponte che lo collega all'India.
Avevo letto di quel suggestivo tragitto in treno sul mare in un libro di viaggi del romanziere americano Paul Theroux.
Quando arrivai scoprii che il ponte era chiuso a causa della guerra tra il governo del sud e le Tigri Tamil. L'isola risultava quindi raggiungibile soltanto con l'aereo.
Arrabbiatissimo non volai e mi diressi per consolarmi verso le spiagge rosse e le immense distese di palme da cocco del Kerala.
Ancora la guerra civile. I due posti più duramente colpiti, Banda Aceh e Sri Lanka, sono reduci da anni di sanguinosi combattimenti interni...
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A casa dei miei amici osserviamo attoniti le prime allucinanti immagini che hanno impietrito il mondo.
Comincio a rendermi veramente conto della portata del disastro...e di quella della mia fortuna. Un intreccio quasi sospetto di coincidenze ha fatto in modo che non mi trovassi in alcune delle zone più duramente colpite dal maremoto nel momento meno opportuno.
Ma non è stata solo una questione di pure coincidenze. C'è qualcosa di più, qualcosa che mi appartiene, che mi identifica.
Forse alcuni di voi mi assomigliano. Il vostro comportamento segue l'istinto, le vostre inclinazioni, i vostri desideri e, perchè no, i vostri sfizi. Io sono fatto così. Chi mi conosce lo sa, e chi mi vuole bene ci si è dovuto rassegnare.
Nella mia vita ho avuto a che fare con molti piani, ma quasi mai con un piano elaborato da me, per me. E quando l'ho fatto non si trattava di niente di estremamente importante.
Mi va bene così. Ho una laurea e un master ma non una professione. Ho avuto vari lavori ma non ho una carriera.
Conosco molte donne ma non ho una compagna. Mi sono abituato a non avere una casa, né una famiglia vicino a me. Ad avere a che fare coi limiti imposti dalle dimensioni del mio bagaglio, sempre disfatto solo per metà, pronto per la prossima partenza.
Compro un nuovo paio di pantaloni solo quando mi sbarazzo di un paio di quelli vecchi. Fortunatamente per me certe cose non hanno mai avuto una grande importanza.
E proprio questo si è rivelato spesso la causa di attriti e discussioni con amici, parenti e conoscenti che non condividono o forse semplicemente non capiscono il mio punto di vista.
È sempre stato frustrante sentirsi inchiodati al muro dalle domande e dalle conclusioni di chi cercava di ricevere spiegazioni soddisfacenti per le mie scelte atipiche.
La verità è che utilizzando un processo logico che parte da presupposti generalmente condivisi certe cose effettivamente non risultano sensate.
Comportarmi così, muovermi un po' alla cieca, in modo apparentemente irrazionale, è il mio modo di sentirmi libero.
A volte mi sento come un marinaio in mezzo alla bufera. Non si vede niente, apparentemente non ci sono punti di riferimento. La scelta giusta per uscire dalla situazione critica, il marinaio la trova da qualche parte dentro di sé. La direzione da prendere gliela suggerisce l'istinto. A volte sente semplicemente che tutte le altre alternative sono sbagliate.
Non voglio dare lezioni a nessuno, non ne sono capace. Ma su certi punti ormai ho capito che con la razionalità non mi si convince.
Non importa se ad alcune domande dei nostri critici non sappiamo dare una risposta soddisfacente. Non importa se il silenzio che lasciamo seguire sembra sancire la vittoria dell'approccio logico. Chi è come me lo sa. Certi comportamenti e certe convinzioni non li cambieremo mai. Fanno parte di noi.
Ci sentiamo sereni quando li esprimiamo e ci troviamo estremamente a disagio quando per qualsiasi ragione ci comportiamo altrimenti.
Non mi preoccupo più quando non riesco a dare quelle risposte. E quei silenzi ho imparato a riempirli con il gusto che provo nell'affidare tutto all'irrazionale, al fiuto, all'istinto...
...fino al 26 dicembre 2004.
Perché? Cos'è cambiato dopo la catastrofe?
Il desiderio di raccontare questa storia nasce da considerazioni elaborate a freddo su temi antichi e iperdiscussi. Il fato, il destino, il rapporto con la morte.
Personalmente di solito ci penso per sfizio. Poi succede qualcosa, qualcosa di grosso e ci si ritrova invischiati in un vizio vecchio come l'uomo. Quello di voler dare, forse impropriamente, un senso a situazioni, circostanze e avvenimenti fino ad allora ritenuti casuali.
Facciamo un ulteriore passo indietro.
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Sono circa le undici della mattina di Natale quando arrivo all'aeroporto di Phuket con un volo proveniente da Kuala Lumpur. Ho ancora davanti agli occhi le immagini delle celebrazioni natalizie nella capitale malesiana. Non mi è piaciuto molto il modo in cui si festeggia da quelle parti. Tutti in strada fino a notte fonda a lanciare razzi. O a spruzzare bombolette di schiuma sui passanti e sulle auto, preferibilmente su quelle con i finestrini aperti. L'atmosfera assomiglia vagamente a quella del nostro carnevale. Ho proprio voglia di rilassarmi e distrarmi nella mia Thailandia.
La settimana che va da Natale a Capodanno è periodo di altissima stagione in questa perla del mar delle Andamane. Le code ai banchi dell'immigrazione sono più lunghe che mai. Ci sono anche molti italiani ma soprattutto turisti dal nord europa.
Ovviamente non ho nessun piano e men che meno una prenotazione. Come destinazione la mia prima scelta sarebbe Koh Phi Phi, dove potrei incontrare Richard, un amico inglese che non vedo da un pezzo. E' appena guarito da un tumore grazie ad una lunga cura di chemioterapia: fargli le congratulazioni e gli auguri di Natale sarebbe un gran bel modo di cominciare le vacanze. Phi Phi è però un'isola molto piccola che nei mesi invernali viene presa d'assalto da migliaia di turisti stranieri. A Phi Phi posso tornarci a giugno, quando è tranquilla e meno cara. Richard lo posso incontrare altrove.
Perché no?
Decido di ripiegare su Phuket. Telefono ad un hotel in cui alloggio spesso...purtroppo è pieno.
Salgo quindi su un minibus diretto a Patong beach, la spiaggia più gettonata e sviluppata dell'isola. Le abitazioni più vicine alla spiaggia in questo periodo sono tutte esaurite.
I prezzi sono da capogiro, non ci provo nemmeno. Mi dirigo verso alcuni alberghi di categoria inferiore sistemati a qualche centinaio di metri dal mare. Alla reception di un hotel usualmente abbordabile un baldanzoso ladyboy - ovvero un travestito - mi spara dei prezzi assurdi per delle stanze al limite della decenza. Lì per lì decido che questo posto in questi giorni non fa proprio per me. Tanto in spiaggia avrò l'occasione di tornarci in qualunque altro momento. Perché no?
Mi fermo in un ristorantino popolare e ordino qualcosa da mangiare. Poi telefono a Robert, un amico slovacco che insegna inglese in una scuola nella Thailandia centrale. Robert è in vacanza e alloggia a Phuket town, la capitale della provincia, qualche chilometro all'interno. Mi fa sempre piacere incontrarlo ed inoltre non mi sono mai fermato in città per più di un paio d'ore. Alcune aree del centro conservano ancora dei tratti architettonici di periodo coloniale. È una buona occasione per visitarla.
La faccio in barba ad un tassista che mi aspettava al varco e piglio al volo un autobus che per meno di mezzo euro copre il tragitto.
Poche ore più tardi sono a cavallo del mio Honda Dream diretto a Nai Han, una cala piccola e deliziosa incastonata sull'angolo sud-occidentale dell'isola. Ci metto un po' per imboccare la strada giusta. I thailandesi sono persone generose e si fanno in quattro per aiutarti. Con le loro informazioni però riuscirebbero a farmi perdere l'orientamento anche in una pista ovale. Recupero una mappa e mi raccapezzo da me.
Una mezzora più tardi incontro Robert ad una festa. Siamo in una bella villa con piscina, affittata da un inglese che non se la merita affatto. Dopo un paio d'ore ne abbiamo abbastanza e decidiamo di trascorre la notte a Patong. Oltre a noi due sul motorino c'è anche Daniel, un americano che insegna inglese nella stessa provincia in cui vive Robert. Di Honda Dream con tre passeggeri a bordo da queste parti se ne vedono parecchi, non c'è niente di cui preoccuparsi. Inoltre il mio amico slovacco è un ottimo pilota.
Percorriamo in tre quarti d'ora le poche decine di chilometri che separano la piccola cala dalla lunga lama bianca di Patong beach.
La sequenza delle spiaggie che si stendono lungo il litorale occidentale di Phuket è come una fila di perle sul collo di una bella donna. Nai Han, Kata Noi, Kata, Karon, Patong e poco oltre Kamala sono stupende anche a quest'ora della notte, sotto lo spruzzo di luce di una luna non più piena. Le ripide colline che le separano sono coperte da una vegetazione rigogliosa di cui il fascio di luce del fanale illumina solo un misterioso campione. Pochi chilometri più a nord vi è Khao Lak con le sue resorts di lusso. Al di là del ponte che collega l'isola alla terra ferma si sviluppa la baia di Pha Nga, punteggiata da rocce alte e strette che spuntano dall'acqua scura come degli smilzi panettoni verde-oro, lievitati male.
Verso sud-est si trovano invece le isole gemelle di Phi Phi e la rossa Koh Lanta, proprio davanti alla spigolosa costa di Krabi. Sono nomi che tuttora, mentre investito dalla brezza della sera osservo incantato il paesaggio, per molta gente sono sconosciuti. Fra poche ore invece si faranno spazio a spallate nei telegiornali di tutto il mondo.
Dopo una spruzzata di pioggia all'altezza di Karon, Robert fa arrampicare il motorino lungo l'ultima salita che ci separa da Patong.
Qui trascorreremo le prossime sette-otto ore tra bar, locali notturni, birre, drinks, chiacchierate, turisti, ragazze più o meno per bene, luci colorate e musica di ogni genere. Poi, tra le sei e le sette di mattina del giorno di Santo Stefano, risaliamo sul motorino e ce ne torniamo a Phuket town.
Secondo i miei calcoli la tremenda scossa di terremoto sviluppatasi al largo della costa di Sumatra ha colpito mentre ci trovavamo in sella al motorino, ancora a Patong o sulla via del ritorno. Un paio d'ore più tardi la tragedia. Patong beach, le altre spiaggie thailandesi con i nomi ancora semi-sconosciuti e molte altre località dell'Asia meridionale non saranno più come le ho viste io questa notte - almeno per un bel pezzo.
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Seduto davanti al televisore accanto a Robert, a poche ore dal maremoto, mi sfreccia davanti agli occhi una sfilza di se.
Se fossi andato a Koh Phi Phi? Se avessi trovato posto in un bungalow delizioso ma deboluccio vicino alla spiaggia? Se mi fossi fermato a Patong? Se l'onda avesse colpito quando ci aggiravamo nei pressi della spiaggia con le birre calde in mano? O quando ci trovavamo all'interno di un affollato locale che si affaccia sul lungomare? E se stamattina invece di tornare in città ci fosse venuta l'idea di stenderci a riposare in spiaggia?
Parte di tutto ciò ha a che fare con scelte operate più o meno casualmente davanti a un paio di alternative. Oppure a circostanze che mi hanno costretto ad effettuare una mossa forzata, non una vera scelta.
Il resto ha invece a che fare con il mio atteggiamento, con il mio comportamento, con il mio modo di essere e di affrontare la vita. Con la mia abitudine di lasciare tutto al caso, con la mia avversione nei confronti di tutto ciò che sa di programmato e pianificato.
Sono un bambino di trenquaquattro anni. Uno che non prenota mai una stanza prima di arrivare in una località affollata. Nemmeno in alta stagione. Uno a cui non danno fastidio le sterzate brusche e che su due piedi decide di rimettersi il bagaglio in spalla e di salire su un autobus diretto in città, solo perché in spiaggia non tira una buona aria. Uno che si diverte a uscire la sera, a ballare, ad ascoltare musica, a bere, a gironzolare senza meta, a chiacchierare col primo che passa e a correre dietro alle ragazze. Uno che di mattine in spiaggia ne vede pochissime. E quando ne vede una, molto probabilmente lo fa solo per aggiungere un’appendice ad una notte di cui ha già nostalgia.
Non ho mai avuto niente da rispondere a chi mi chiedeva perché a trentaquattro anni continuo a comportarmi così...
...ora ce l'ho...
...se sono qui a scrivere questa storia lo devo sì alla fortuna, ma anche alla mia immaturità.
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E' la mattina del 27 dicembre, c'è un pensiero che continua a tormentarmi. Ho almeno tre amici di cui conosco nomi e nazionalità che con buona probabilità ieri si trovavano in zone a rischio.
Richard, il ragazzo inglese appena guarito dal cancro, il 24 dicembre aveva mandato ad una lista di amici una email di auguri di Natale. Aveva allegato una foto. Lui ed altri due biondissimi amici, apparentemente due scandinavi, stavano in riva al mare, con i piedi in acqua, in testa dei berretti da Babbo Natale, e reggevano uno striscione in cui avevano scritto "Auguri da Phi Phi". Terminava la lettera chiedendo scusa a chi si trovava in qualche località fredda e umida e implorava sarcasticamente di non odiarlo troppo. Ma chi ti odia Richard!
Ce l'ho davanti agli occhi quell'immagine, perfettamente a fuoco, il suo sorriso sincero e quello sguardo sveglio. Ero rimasto ad osservare la foto con attenzione, cercando di scorgere qualche traccia della recente malattia, o qualche segno lasciato dalla chemio. Non c'era niente, sembrava sano e forte, come sempre.
Jeff, un altro inglese, di origini italiane. Sapevo che si trovava in Thailandia e le ultime notizie che avevo ricevuto da lui risalivano ad un paio di settimane prima. Si stava spostando da Phuket a Phi Phi...come si suol dire: dalla padella alla brace.
Nuttiya, di soprannome Tip, una dolce ragazza thailandese che avevo conosciuto alla reception di un hotel di lusso a Bangkok. Stanca della vita nella grande città si era riavvicinata alla famiglia andando a lavorare in un hotel di Krabi.
Richard che nasce per la seconda volta e sceglie Phi Phi per ricominciare. E Tip che dopo anni trascorsi a Bangkok se ne torna a Krabi per riconquistare la serenità. Sembrano due chiamate alle armi. Arruolati con l'inganno nell'esercito del destino. Un destino chiamato tsunami.
Phuket, Phi Phi, e Krabi. Il numero dei morti aumenta ad un ritmo da battaglia campale. Devo cercare di recuperare notizie fresche sui miei amici. Ho controllato la mia casella di posta elettronica per vedere se erano arrivate loro notizie e per rassicurare chi mi scrive per sapere se sto bene. Non è arrivata nessuna email che metta un freno alle mie preoccupazioni. Non che nutrissi grandi speranze: pensare che a Phi Phi sia possibile usare internet proprio adesso è un'idea che riesce quasi a divertirmi persino in circostanze così drammatiche. L'unica email che avrei potuto ricevere era quella di Tip: nel genere di hotel in cui lavora potrebbero ancora disporre di un collegamento funzionante. Vorrei chiamare l'hotel ma non riesco a ricordarne il nome. Tento invano di raggiungerla al cellulare: le linee di telefonia mobile sono completamente intasate. E lo resteranno per i seguenti tre giorni. Anche i miei genitori mi avevano detto di essere riusciti a prendere la linea solo dopo numerosi tentativi.
Poveretti, me li posso immaginare. Davanti alla televisione che divulga notizie apocalittiche provenienti da un luogo lontano, in cui sanno si trova il loro figlio. Al telefono potevo sentire mia madre che nell'emozione del momento suggeriva ingenuamente a mio padre: "Digli che però dovrebbe farsi sentire in situazioni del genere". E mio padre che le rispondeva: "Ma dice che non ne sapeva ancora niente...".
Figurarsi se li avrei lasciati in pensiero sapendo quel che stava succedendo. Altri due o tre minuti e avrei letto la notizia sul sito di un giornale. Avrei quindi lasciato immediatamente una email rassicurante e avrei cercato di chiamarli. L'ironia della sorte ha voluto invece che mi telefonassero prima loro per raccontarmi da migliaia di chilometri di distanza quel che stava succedendo proprio attorno a me.
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Le autorità thailandesi hanno allestito un centro di coordinamento delle operazioni di emergenza presso il complesso che ospita la sede del comune di Phuket town. Mi ci dirigo a tutta velocità col mio ormai inseparabile motorino.
C'è un via vai continuo di mezzi attraverso lo stretto corridoio di ingresso. Sul grande giardino stanno seduti dei turisti, o meglio ex-turisti. Alcuni hanno formato un cerchio attorno ad un mucchio di borse e zaini, altri sembrano non avere niente appresso. Molti di loro reggono tra le mani un foglio di carta con una scritta. C'è chi cerca qualcuno e chi invece espone semplicemente il nome del proprio paese. Vogliono creare un gruppo di connazionali. Forse per farsi coraggio. Per organizzare il ritorno a casa.
Sono state montate delle tende. Alcune di esse servono ad organizzare la distribuzione di viveri, indumenti, bevande e qualsiasi altro genere di prima necessità.
Altre sono adibite a centro di prima assistenza. Ci sono vari banchi sopra ognuno dei quali è stato appeso un cartellino col nome di una nazione. Italia, Spagna, Svezia, Norvegia, Israele, Germania. C'è persino un'anacronistica Cecoslovacchia.
Ad ogni banco stanno appostate una o più persone. Sono in gran parte thailandesi, molti parlano la lingua del paese a cui si dedicano. Sono quasi tutti agenti dei numerosi tour operator presenti nell'isola, gente che si dà un gran da fare e che continuerà a lavorare per diverse ore.
Molte delle tende presso le quali si offrono cibo e bevande sono organizzate da ristoranti o aziende gastronomiche. Non so se vengano finanziati dal governo ma non mi stupirei se non lo fossero. Alcuni colgono l'occasione per farsi un po' di pubblicità con un'insegna discreta, altri non ci hanno nemmeno pensato.
Anche loro si impegnano alacremente per mettere a proprio agio almeno un po' chi non ha più alcun punto di riferimento. La mattina stessa avevo fatto colazione in un ristorantino nei pressi del mio albergo. C'era lì una squadra dedicata a tempo pieno alla preparazione di razioni da campo. Un cuoco indaffaratissimo spadellava chili di frittata a ritmi da caserma. Due donne ne sistemavano poi una dose sopra ad una porzione di riso versata precedentemente in una scatola di polistirolo. La scatola veniva quindi chiusa e fissata con un elastico da mani velocissime. I pacchi infine venivano periodicamente caricati su un furgoncino che provvedeva a portarli al municipio ancora caldi.
Sono stati allestiti dei centri per le telefonate internazionali a beneficio dei sopravvissuti. Ci sono inoltre dei computer per l'accesso ad internet. Ovviamente ogni servizio è gratuito, bisogna soltanto mettersi in coda.
L'edificio in fondo al cortile è il centro nevralgico delle operazioni. Sul pianerottolo d'ingresso c'è il banco della reception. Accanto al banco cinque o sei persone si danno il turno al microfono per impartire istruzioni in varie lingue.
Noto in particolare una signora thailandese dall'aria vagamente sessantottina e un signore francese che si muove con efficienza e ordine. Si comporta con estrema serietà. Mi dà comunque l'impressione che in un altro contesto sarebbe in grado di sfoggiare simpatia e senso dell'umorismo. Trasmette sicurezza, una caratteristica fondamentale in una situazione del genere. E' decisamente la persona giusta al posto giusto.
Davanti all'edificio sono sparpagliati dei volontari che reggono dei cartelli con le istruzioni per chi ha perso tutto, compreso il passaporto. Bisogna farsi prendere le impronte digitali, rilasciare i propri dati alle autorità locali, registrarsi presso i banchi della propria ambasciata, ecc.
Quando si sono completate le operazioni di riconoscimento, se non si è fisicamente impossibilitati ci si può imbarcare in uno dei frequenti voli per Bangkok da dove partono i charter organizzati dalle ambasciate.
Alla destra dell'entrata c'è un grande tabellone su cui vengono affissi degli elenchi con dei nomi. Sono i nomi dei feriti, suddivisi per località e ospedale di ricovero. In momenti come questi anche le più banali regole dettate dal tatto e dalla sensibilità non sempre possono essere rispettate.
Sopra ad alcune delle liste c'è la parola Morti, cancellata con una semplice riga di pennarello e corretta con Feriti.
Sullo stesso tabellone sono appese delle foto agghiaccianti. Sono quelle dei primi cadaveri recuperati che non sono ancora stati identificati. Sono volti sfigurati dal gonfiore, dalle ferite e da quell'ultima espressione di stupore e terrore che deve aver preceduto il decesso. Considerando le proporzioni che ha assunto la catastrofe credo abbiano smesso da un pezzo di affiggere quelle foto.
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Entro nell'edificio. Al piano inferiore ci sono i bagni. Al piano terra è stato allestito un pronto soccorso provvisorio. In tutta l'area si incontrano infatti persone con bendaggi, cerotti e ferite evidenziate dal rosso del mercuro cromo.
Al piano superiore c'è una sala molto grande all'interno della quale sono stati sistemati i banchi per gli addetti delle ambasciate. Anche qui ogni nazione è indicata da un foglio di carta appeso ad un muro o semplicemente appoggiato sul tavolino.
Gran parte della gente fa con umiltà e calma quel che gli è stato detto di fare. Al banco del nostro paese scambio qualche parola con una coppia che si trovava a Khao Lak, una località spazzata via dalla serie di onde. La ragazza, che nonostante l'accento slavo parla un'ottimo italiano, mi racconta che qualcuno durante la fuga ha trovato il tempo di bussare alla loro porta per avvertirli. Hanno fatto appena in tempo ad uscire prima che l'onda demolisse la loro casetta.
Chiedo ad uno degli addetti, una signora bionda, se sa qualcosa della situazione a Phi Phi. Mi dice che per ora si sa soltanto che mille persone stanno arrivando dall'isola. Sono dirette a questo centro di accoglienza.
In questa sala però comincio anche percepire le prime note stonate di una situazione che fino a questo momento mi ha sinceramente riempito il cuore di emozione.
Alcune persone al banco della ambasciata italiana pretendono senza troppe cortesie di essere imbarcate sul volo di ritorno organizzato dal governo. Li ascolto e li osservo.
Hanno un biglietto da qualche migliaio di euro - ci tengono a far sapere - per un volo di ritorno che però parte solo fra qualche giorno. Hanno tutto con loro: bagagli, soldi e passaporto. Hanno semplicemente fretta di levarsi dai piedi.
Tengono impegnati gli addetti - che tempo da perdere non ne hanno molto - con le loro spiegazioni contorte e indignate. La signora bionda con cui avevo parlato poco prima è convinta che questo tizio stia chiedendo all'ambasciata di cambiare la data del suo ritorno con la Thai Airways. Gli fa quindi notare che quella non è un'agenzia di viaggi. Il suo collega, più anziano e navigato, capisce immediatamente di cosa si tratta. Domanda dunque al signore se sta chiedendo di anticipare la partenza con la Thai Airways o se vuole invece trovare posto nel volo del governo.
Alché quel signore petulante comincia ad annuire con ampi cenni del capo, sottolineando la propria propensione per la seconda alternativa con dei fragorosi "Ehhh...ehhhh...". Ci sarebbe di che ridere, sembra un personaggio da commedia. Mi fa invece una certa rabbia. L'addetto dell'ambasciata lo calma spiegandogli che se la situazione nelle prossime ore non peggiora potrebbe trovare posto nell'aereo. Non promette però niente di concreto. Probabilmente ha già pensato quello a cui sto pensando io. Tra quei mille sopravvissuti che arrivano da Koh Phi Phi quanti italiani ci saranno? E dalle altre località ancora più remote, Koh Lanta per esempio, quanti ne arriveranno? E quanti staranno in una situazione peggiore di questo individuo? In ogni caso poi, è corretto dare la precedenza ad un italiano che sta bene lasciando magari sull'isola uno sloveno o un austriaco che hanno perso tutto? Io non ne so molto di protocolli e regolamenti però il buon senso, se non la solidarietà o la generosità, consiglierebbe di adottare un atteggiamento diverso. Come quello che adottano altri connazionali che se ne stanno in fila, aspettando il proprio turno. Alcuni di essi hanno perso tutto, ma non alzano la voce. Scontano il proprio disagio rispettando al contempo quello altrui.
Mi ricordo ad un tratto dei miei amici inglesi e mi metto alla ricerca dell'ambasciata del Regno Unito. Faccio il giro della stanza ma non riesco a trovarla.
Nel frattempo qualcuno al microfono annuncia che è finalmente arrivato un addetto dell'ambasciata Sudafricana. No! Lo speaker si scusa per l'errore. E' l'ambasciatrice in persona. Tanto di cappello! Mi chiedo quanti altri ambasciatori si siano scomodati. A me non sembra ancora di averne visti.
Alcuni giorni più tardi, su un volo da Bangkok a Kuala Lumpur, viaggerò seduto accanto all'ambasciatore della Colombia in Malesia, responsabile anche per Vietnam e Thailandia. Lui e la moglie erano per caso in vacanza a Bangkok. Non si sono mossi dalla capitale. Hanno seguito la situazione attraverso internet.
Attraverso internet?...ma che significa? Se loro figlio fosse stato a Koh Phi Phi avrebbero seguito la situazione attraverso internet? Quali sono le responsabilità di un ambasciatore?
In realtà, mi confessa la moglie, i colombiani in vacanza da queste parti erano proprio pochi...ah beh, signora, se erano pochi allora...non vorremo mica cancellare la visita al Wat Pho e al Jatujak - il mercato del fine settimana - per quattro cittadini colombiani in ferie, vero? In fondo siamo soltanto l'ambasciatore e signora!
Mi fermo al banco dell'ambasciata degli Stati Uniti e chiedo ad un giovane addetto dove sono i britannici. Questi si guarda attorno, disorientato come lo sono io, mormorando "the British...hmmm...the British...". Poi sembra ricordarsi qualcosa e mi spiega che i suoi colleghi britannici si sono sistemati fuori, sull'erba davanti all'edificio. Il loro banchetto sta sotto ad una bandiera, la Union Jack.
Ringrazio ed esco dalla sala dove non si riesce quasi più a respirare. Il banco degli inglesi sta proprio davanti al tabellone con le liste dei feriti e le foto dei defunti.
Chiedo se sanno qualcosa dei loro connazionali a Phi Phi. Mi rispondono che le notizie sono frammentarie. Faccio il nome di Richard. Non gli suona familiare. Poi quello di Jeff. Nemmeno questo. Non so cosa pensare, in un certo senso in queste situazioni vale la regola "nessuna nuova, buona nuova".
Ascolto gli speaker che si alternano al microfono. Parlano thailandese molto velocemente, colgo qualche parola qua e là e mi sembra di capire che stiano cercando persone che parlano varie lingue, tra cui l'italiano. "Phuut Pha saa Italii daai".
Mi offro volontario. Mi chiedono di aspettare un attimo. Poi si fa avanti una volontaria e mi spiega che se voglio darmi da fare come traduttore devo recarmi alle tende di prima accoglienza, quelle che avevo visto all'inizio, con i banchetti e i cartellini indicanti i nomi dei paesi.
Attraverso nuovamente il cortile, al centro del quale sta una grande fontana, e torno all'area indicatami. Al banco per gli italiani mi sembra che le attività procedano in modo ordinato. I traduttori thailandesi sono tutti impegnati, non li voglio disturbare. Mi passa vicino un ragazzo occidentale con un cartellino appeso al petto che dice ‘traduttore’. Gli chiedo se c'è bisogno di volontari. Questo comincia a parlarmi lentamente e mi chiede in quale lingua ho bisogno di una traduzione. Mi ha evidentemente scambiato per un sopravvissuto che sta cercando aiuto. Dev'essergli subentrata una sorta di deformazione professionale da attività di emergenza. Ripeto la domanda, questa volta capisce di cosa si tratta e mi suggerisce di recarmi al banco degli italiani.
Chiedo ai volontari thailandesi. Mi spiegano che dovrei presentarmi alle persone che parlano al microfono, vicino all'edificio. Esattamente quelli che mi hanno mandato qui. Catch 22! Ovvero Circolo vizioso! Credo di aver capito che sia meglio arrangiarmi.
Mi guardo attorno per vedere se c'è qualcuno che ha bisogno di aiuto. Cerco di individuare gli italiani. Molti di essi infatti non capiscono le istruzioni che vengono impartite in inglese, men che meno quelle in thailandese.
Mentre cerco di rendermi utile a chi ha bisogno di informazioni che non è finora riuscito a comprendere, mi imbatto in varie situazioni, conosco gente di ogni tipo. Alcuni di essi si rendono protagonisti di ulteriori scene deludenti.
Tra i molti che sopportano la sorte che gli è toccata con dignità e rispetto, ci sono altri personaggi che non perdono l'occasione per lasciarsi andare a slanci di esibizionismo o di ipocrisia. Ce ne sono di ogni nazionalità. Personalmente però colgo meglio le sfumature nei dialoghi e negli atteggiamenti dei miei connazionali.
Ci sono degli uomini, alcuni nemmeno troppo giovani, che raccontano urlando la loro esperienza. Si trovavano a Patong beach,. Evidentemente non dovevano stare molto vicini alla riva, considerando che con una veloce corsa sono riusciti ad arrivare sulla collina che domina la spiaggia, ben più di un chilometro all'interno, lungo una strada per gran parte in salita. E si lamentano perché per ben sei ore nessuno è andato a soccorrerli. Stavano in salvo, in un'area residenziale. Un posto in cui probabilmente ristoranti e negozi non hanno mai chiuso. Cosa pretendevano? Che fosse inviato un elicottero a prelevarli? Uno di quei preziosi elicotteri che tuttora stanno cercando di mettere in salvo i feriti gravi, rimasti direttamente coinvolti dall'arrivo dell'onda. Sono preoccupatissimi perché non riescono ad utilizzare il loro telefono cellulare, mi aspetto che da un momento all'altro si lamentino per l'inefficienza delle compagnie telefoniche locali. Sembrano non rendersi assolutamente conto di quello che i volontari thailandesi - e non - stanno facendo attorno a loro.
C'è poi una giovane donna che si sposta da gruppo a gruppo con fare da damigella da ricevimento. Sembra che si sia preparata per una serata di gala. Dove avrà trovato il tempo per vestirsi e truccarsi in quel modo? Lo tsunami ha colpito di mattina, non può averla colta agghindata così, in assetto da cocktail. Abbraccia un gran numero di persone, mi sembra che ritenga fondamentale dimostrare di essere una figura notoria.
Ho osservato altra gente sprizzare felicità per aver reincontrato qualcuno di conosciuto, nessuno però la sbandiera in modo così teatrale.
Mi ritornano alla mente le parole di un amico pittore che vive a Madrid. Nella grande marcia antiterrorismo che aveva seguito l'attentato dell'11 marzo, aveva notato in alcune persone una punta di ipocrisia, di esibizionismo.
Penso anche ad un email che ho ricevuto oggi stesso dall'Italia. Con sagace ironia tutta toscana un altro amico mi spiega che la TV intervistava spavaldi eroi che hanno dovuto resitere per ben tre ore senza soccorsi! Senza peraltro trovarsi in situazioni particolarmente critiche.
Fortunatamente per ogni esempio negativo ce ne sono numerosi di rincuoranti. Continuando ad aggirarmi nel cortile, dove ormai è calato il buio, all'altezza della grande fontana centrale incontro quello che nella mia memoria resterà il piccolo grande eroe della giornata.
L'avevo già incontrato in precedenza, al banchetto di prima accoglienza. Un giovane italiano, mingherlino, basso di statura, con la faccia da secchione, i ricciolini arruffati, il nasone sproporzionato, le labbra distorte in un sorriso perennemente cortese, che nemmeno queste dannate onde sono riuscite a spazzare via. Al banchetto gli avevano fornito le informazioni necessarie per le operazioni di riconoscimento e l'avevano mandato all'edificio delle ambasciate.
Lo incontro di nuovo mentre ritorna. Cammina al fianco di due madrelingua inglesi che, come spesso accade, non si rendono conto di quando è il caso di rallentare la parlata. Il mio amico capisce forse una parola ogni cinque di quelle pronunciate dal suo interlocutore. Sulle prime non lo riconosco, questa zona del cortile non è ben illuminata.
Ascolto distrattamente quello che l'altro gli sta dicendo.
"Prosegui in questa direzione e poi trovi una grande tenda" gli spiega con un accento britannico abbastanza stretto "ci sono tavoli per ogni nazionalità: Spagna, Germania, Italia...".
Sulla parola Italy il mio simpatico amico si scompone.
"Italy! Italy!" esclama emozionato.
Mentre l'inglese si defila mi faccio avanti io.
"Sei Italiano?"
"Sì...sei italiano anche tu?"
"Certo, cosa cerchi?"
"Il banco in cui si compilano i moduli..."
"Ah, è proprio lì, vedi?" e indico le tende per la prima accoglienza che stanno davanti a noi, a non più di venti metri di distanza.
"No...non vedo niente, ho perso anche gli occhiali, questo è tutto quello che mi è rimasto..." e con un gesto lento si fa passare le mani davanti al corpo, dal petto alle coscie.
Una magliettina rossa, un paio di boxer da spiaggia e delle ciabattine infradito, le flip flop. Stava a Khao Lak, come la coppia che ho incontrato al banco della nostra ambasciata. Una località completamente rasa al suolo dall'acqua.
Non c'è niente da fare, ci vuole ben altro che una serie di devastanti cavalloni che gli distruggono il bungalow e gli portano via tutto, pure gli occhiali, per togliergli quello splendido sorriso dal volto. Non sono mai riuscito, nemmeno per un instante, a scorgere un segno di vittimismo nelle sue risposte. Nessuna nota teatrale nel suo atteggiamento. L'avrete già notato, sono uno che fa parecchia attenzione a questi particolari, forse sono anche troppo severo. Ma questo ragazzo passa l'esame della dignità a pieni voti.
Ha proprio l'aria di quegli studenti che in un celebre film americano venivano soprannominati Nerds. Forse a casa lo chiamano sfigato. Evviva gli sfigati! Proprio come nel film alla fine il Nerd risultava il vero eroe della storia, alla faccia delle smorfiosette sexy e dei biondoni muscolosi che l'avevano perseguitato lungo tutto il corso della pellicola.
L'incontro di questo grande personaggio cala il sipario sopra le stravaganze della giovane mondana abbracciatutti e del pedante ciccione del volo Thai Airways.
Lo accompagno al banco e gli auguro in bocca al lupo. Lo osservo mentre conversa con i volontari. Impeccabile come l'addetto di un call-centre. La sua cortesia potrebbe far credere ad un osservatore distratto che sia lui il volontario e gli altri le vittime. Chi se lo aspetterebbe da uno che è rimasto - non poi tanto metaforicamente - in mutande! A diecimila chilometri da casa! Questa sì che è una bella lezione di stile. Chissà se io stesso, così criticone, sarei in grado di fare altrettanto.
Mentre sta sbrigando le pratiche necessarie trova il tempo di voltarsi e mi ringrazia rivolgedomi l'ennesimo sorriso. Lui a me!
Mi raccomando. Non conosco il suo nome. Ma se in Italia incontrate un ragazzo che assomiglia alla descrizione che ne ho tracciato e che stava a Khao Lak al momento del disastro, stringetegli la mano, e non dimenticatevi di porgergli i miei saluti.
Nel frattempo arriva Robert. Gli faccio da guida all'interno del centro. Scambia due parole con gli addetti del sedicente banco cecoslovacco. Assieme assistiamo qualche altra vittima e raccogliamo ulteriori testimonianze. Più tardi, quando ci sembra che le autorità e i volontari controllino abbastanza agevolmente la situazione, ce ne andiamo.
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Nei due giorni che seguono ricevo le buone notizie che cercavo disperatamente.
Ho cercato di chiamare Tip un centinaio di volte almeno, senza mai riuscire a prendere la linea. Scoprirò che anche lei ha fatto lo stesso. Il 24 dicembre, prima che partissi, ci eravamo ripromessi di incontrarci a Krabi tre giorni dopo. Poi la tragedia.
Ricevo la sua telefonata quando sono a Chumpon, sull'altra costa, quella che dà sul golfo del Siam, dove le linee telefoniche funzionano regolarmente. Tiriamo entrambi un sospiro di sollievo. Tip era tanto preoccupata per me quanto io lo ero per lei. Mi racconta emozionatissima che il giorno prima la spiaggia davanti al suo hotel era ancora punteggiata di cadaveri.
Siamo vivi entrambi, avremo ancora l'opportunità di mantenere quella promessa.
Il giorno dopo, quando sono a Hua Hin, sulla via di Bangkok, controllo la posta e tra le tante email ne trovo due che apro con ansia. La prima è di Jeff, l'anglo-italiano. Avrebbe dovuto essere a Phi Phi per Natale. Poi però ha incontrato una bella ragazza che lo ha trattenuto a Pai, duemila chilometri più a nord. Mannaggia a lui! Io stavo in pensiero e lui si stava innamorando. Per fortuna anche lui corre dietro alle donne.
Serviamo entrambi da lezione per i bacchettoni.
A proposito, a Hua Hin il re di Thailandia ha la sua seconda residenza. Anche la famiglia reale è stata direttamente interessata dalla tragedia. Un nipote del re è morto a Phuket mentre guidava una moto d'acqua travolta da un'onda.
Manca Richard, l'inglese guarito di recente dal cancro. La seconda email è la sua, è indirizzata a tutti quelli che avevano ricevuto la sua foto da Phi Phi il 24 dicembre e tenevano il fiato sospeso. La riporto così come l'ha scritta lui.
dear all luckily i was over on ko lanta for 2 days seeing my dad for christmas. lanta got hit badly, but pp was 70% flooded/destroyed & reports vary from 70 -200 dead so far.
unfortunately i sadly suspect some of my friends will be on the list as they had bungalows 1st row off the beach.
as for me, i was on the beach with my dad watching a 10M tsunami roll down the coast when the manager standing with us saw a 5M tsunami directly out to sea 100M off shore. he shouted "RUN!". we did, but the speed of it was incredible & before we had taken 10 steps it hit the beach, exploding through the trees sweeping me up & crushing me against the beach restaurant wall. I went under water, but held onto the railing as every sun-louger, beach chair & bit of tree, wood & everything smashed against me.
when I surfaced I popped my dislocated finger back in & ran to help my dad, who was battered & bruised as was the manager, but no bad gashes. i wasn't so lucky & had to lay in the ambulance next to a dead guy for 40 mins, but still consider myself fortunate I only needed 12 stitches, bad cashes all over & head concussion.
in 1 month it will be a "story to tell". until then I'm in pain, but that is only a little problem. PP was devastated.
I'll stay on long beach lanta at best house until I can walk properly again & the ferries to PP start again. hope you are all ok & have a happy new year
Rich
Per chi non capisce l'inglese, Richard spiega che fortunatamente si trovava a Koh Lanta, dove si era recato per trascorrere due giorni col padre. Lanta è stata colpita violentemente dalle onde ma non tanto quanto Phi Phi, dove teme che tra le vittime ci siano dei suoi amici, giovani che abitavano in bungalows sistemati in prima fila sulla spiaggia.
Quella mattina lui e il padre stavano in riva al mare quando qualcuno ha gridato: "Scappate!". Si sono voltati e hanno cominciato a correre per sfuggire ad un'onda che però era ben più veloce di loro. Richard è stato travolto e sbattuto contro la parete di un ristorante. Si è aggrappato a qualcosa per sfuggire alla risacca ed è stato colpito da ogni sorta di oggetti trasportati dall'acqua. È sopravvissuto. Un dito slogato, qualche botta qua e là, alcune ferite, ma è vivo. Non c'è riuscito il tumore a portarcelo via e non c'è riuscito nemmeno il maremoto. Non altrettanto fortunato è stato il ragazzo morto accanto al quale Richard è dovuto restare disteso per quaranta minuti.
Tre dei miei amici si sono salvati. Ma chissà quanta gente con cui in passato ho scambiato quattro chiacchiere o semplicemente un sorriso non è più tra noi. O quanti altri sono stati toccati in qualche modo dalla tragedia. Forse alcuni dei turisti incontrati l'altra notte a Patong. Oppure chi gestiva dei bungalow in spiaggia, chi noleggiava lettini o moto d'acqua. Chi vendeva bibite o collanine. Chi lavorava in un ristorante. A proposito che fine avrà fatto quel bel locale italiano in riva al mare a Phi Phi? E che sorte sarà toccata al proprietario e alla sua famiglia? Luciano di Firenze, non conosco il cognome. La moglie è tedesca. Le ricerche che ho condotto non hanno finora prodotto alcun risultato. Il figlioletto, Raul, a quell'ora del mattino di solito passeggiava nell'acqua bassa raccogliendo conchiglie...
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A Phuket town, dopo aver lasciato il centro di accoglienza, incontriamo un inglese appena arrivato da Koh Phi Phi.
Alloggiava in una guest house ben all'interno dell'isola, in un posto che ricordo bene. Nonostante la distanza ragguardevole dalla costa, l'acqua è riuscita comunque a bagnargli i piedi.
Assieme ad altri sopravvissuti hanno allestito un rudimentale ospedale da campo nel dormitorio. Ci racconta delle operazioni di soccorso. I feriti arrivavano con degli enormi e netti squarci provocati da pezzi di lamiera trasportati dall'acqua. Alcune vittime giacciono esanimi sulla spiaggia, trafitte da un palo metallico o da un tronco. Si parla di trecento morti sulla piccola isola ma lui non ci crede, sono sicuramente molti di più. E ci persuade quando ci mostra le foto e il video che ha girato prima di partire. A centinaia di metri dalla spiaggia restano in piedi solo gli scheletri in muratura di alcune costruzioni.
Alcuni giovani thailandesi che stazionavano nelle vicinanze si raccolgono attorno a noi per osservare le immagini del video. Ridono divertiti quando scoprono che sono immagini girate a Phi Phi. Ci sono tra noi e loro delle differenze culturali che dopo tanto tempo in Asia faccio ancora fatica ad interpretare.
L'inglese ci spiega alcuni dei problemi legati alle operazioni di salvataggio e assistenza. Ha fatto l'infermiere e sa che per prestare aiuto a qualcun altro bisogna innanzitutto essere in forma. Sul posto c'è tanta gente con un gran cuore ma senza esperienza che agisce ancora in stato di shock e con la forza della disperazione. Nessuno riposa. Non vengono organizzati turni, nemmeno di notte. Ritiene che operando in quel modo non dureranno a lungo. Lui dopo meno di due giorni non ce l'ha più fatta ed è tornato. Lo ammette onestamente.
Testimonianze sull'accaduto se ne possono ascoltare ovunque. In un supermercato a Chumpon il giorno seguente Robert ed io incontriamo una ragazza che vive a Patong beach. E' tornata a Chumpon dalla famiglia in seguito alla tragedia. Una sua cugina lavorava in un grande magazzino sul lungomare, a pochi metri dal locale affollato in cui noi ci trovavamo la notte precedente il disastro. Ha avuto la sfortuna di trovarsi al piano sotteraneo che è stato completamente allagato dalle onde.
E' il tristemente noto Ocean di Patong, il supermercato diventato la tomba di un numero imprecisato di dipendenti thailandesi e clienti di varie nazionalità. La ragazza non ce l'ha fatta a mettersi in salvo. Sembra non si sia salvato nessuno.
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I racconti di Tip, di Rich, della ragazza di Chumpon, dell'infermiere di Phi Phi, della coppia di italiani di Khao Lak e del mio simpatico eroe sfigato sono solo alcune delle storie che ci si sente raccontare un po' dappertutto in questi giorni in giro per l'Asia. Per trovare una circostanza simile in Europa, con una concentrazione così elevata di situazioni drammatiche e di persone coinvolte in una qualche tragedia, bisogna andare indietro ai tempi di guerra.
Per quanto mi riguarda resto convinto di essermi salvato principalmente per due motivi. In parte perché il caso ha voluto che davanti ad una combinazione di alternative apparentemente innocue optassi per la sequenza di scelte più fortunata. Ed in parte perché il mio stile di vita non è compatibile con la serie di eventi che mi avrebbe portato ad essere nel bel mezzo del pericolo quando l'onda ha spazzato via tutto. Sono più un tipo che da quelle parti ci si aggirerebbe il pomeriggio o la notte, non la mattina alle 9:00.
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E' passato un po' di tempo da quei giorni tormentati. Nel frattempo ho scoperto che Luciano, il ristoratore di Phi Phi, è salvo. Della sua famiglia non so niente, spero che non fossero nemmeno sull'isola. Si sa invece che alcuni membri del personale del ristorante sono scomparsi, e sono ormai da considerarsi tra le vittime. Per quanto ne so potrebbe esserci fra loro una delle cameriere col sorriso più dolce che abbia mai visto. Oppure quel ragazzo che amava intrattenere i clienti con le sue storie strane sui gatti di Phi Phi.
Nel frattempo inoltre, un'orda ci cronisti, cameramen e reporter è arrivata nei posti per portare a casa vostra immagini e parole da questi luoghi remoti. Sapete ormai quasi tutto di quello che è successo. In termini di cifre, fatti e testimonianze ne sapete probabilmente molto più di me.
Personalmente in questi giorni le notizie non riesco proprio a seguirle. Onestamente non vedo l'ora che qualche altro argomento prenda il sopravvento e che anche lo tsunami, come ogni altra tragedia, vada a finire nel dimenticatoio dei media.
Nessuno però potrà riuscire a raccontarvi l'aria che si respirava in quelle prime, surreali ore. Nemmeno, ovviamente, queste mie poche pagine. La tensione di quei momenti, soprattutto quelli precedenti l'arrivo dei mass media e delle organizzazioni internazionali. Quando ancora tutti erano lì a cercare di rialzarsi, dopo un K.O. arrivato senza segni premonitori. A rialzarsi e a capacitarsi dell'accaduto, da soli, senza ancora l'ausilio delle spiegazioni degli esperti e dei piani di emergenza.
Nessuno potrà trasmettervi in maniera adeguata l'idea di quella miscela strana di sconforto e speranza, di opportunismo e solidarietà, di emozioni forti e delusioni scottanti. Io continuo a pensarci, resto sveglio fino all'alba davanti a questo file, a cercare di mettere assieme tutti i miei ricordi, i più piccoli dettagli, a tentare di rivivere quei momenti. Mi accorgo però di inseguire una chimera. Certe cose mi sembra di averle soltanto sognate. I dettagli di certe scene appartengono ad un sogno che sembrava così minuziosamente reale e che ora invece si nasconde dietro ad una nube che non riesco a soffiare via.
Mi rendo conto che alla fine dei conti solo un paio di considerazioni emergono concretamente, come picchi di montagne che sbucano da un manto di nuvole fitte. In primo luogo una nuova interpretazione - un po' metafisica - che riesco a dare a certi lati della mia personalità. Quei lati che mi hanno permesso di restare in quella spiaggia fino a poco prima che tutto cambiasse irrimediabilmente. E di levarmi dai piedi appena in tempo.
In secondo luogo una conoscenza più profonda di alcuni aspetti della natura umana. Le reazioni delle persone in situazioni estreme. Il contrasto netto tra la vita e la morte.
Ora riesco a capire cosa cercavano di trasmettere scrittori come Hemingway, Remarque e Rigoni Stern nelle loro tristi storie ambientate sui campi di battaglia.
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Ci si vergogna quasi a dirlo, ma essere circondati dalla morte dopo averla scampata è una esperienza che inorridisce, emoziona, eccita e intriga al tempo stesso.
Non so cosa mi stia succedendo, più il tempo passa e più sono ossessionato dal ricordo di quei fatti. Il pensiero della violenza che la natura ha rovesciato su quei luoghi tanto cari mi strattona tra dolore, rabbia e malinconia.
In uno dei pochi servizi televisivi che sia riuscito a seguire per più di qualche secondo, un corrispondente della CNN appena tornato dallo Sri Lanka spiegava che mentre si trovava sul posto l'adrenalina, l'eccitazione, gli impegni e le scadenze non gli lasciavano íl tempo di riflettere su ciò che stava accadendo attorno a lui. Sono d'accordo, soltanto a casa, lontano dai luoghi del disastro, la mente e il cuore cominciano a riconsiderare quelle scene che fino a poco prima erano sembrate la sequenza di un thriller d'azione.
Mi sento asfissiare dalla nostalgia. Non già per gli avvenimenti, ovviamente, quanto per le emozioni provate. Col dolore, la morte e la sofferenza tutto attorno sembra che la vita acquisti un’intensità doppia. Virtù e difetti, nostri e degli altri, vengono amplificati. Paradossalmente li amiamo entrambi. Preferiamo questa dicotomia al piattume dell'equilibrio quotidiano.
La tragedia serve anche a farci capire quello di cui l'essere umano può essere capace. Riscopriamo un potenziale di vitalità ed emozioni che avevamo da tempo dimenticato, di cui non sapevamo più nemmeno di essere capaci.
Ci resta solo un desiderio. Vorremmo essere dotati di un qualche effetto memoria. Non come individui, bensì in quanto membri di un gruppo, di una comunità.
Non possiamo, non dobbiamo esprimerci a questi livelli di umanità solo in caso di un simile dramma.
Ci eravamo assopiti, vivevamo in modalità energy-saving. Poi ad un tratto qualcuno ha premuto il tasto di avanzamento rapido. Ritornando a procedere a velocità di crociera ci sembrerà di non muoverci affatto.
La gioia dei sopravvissuti, la felicità, la gratitudine nel ricevere aiuto e il senso di realizzazione nel prestarlo sono come il sapore di un bicchiere d'acqua dopo giorni trascorsi nel deserto. Come la luce di una candela che si accende nell'oscurità.
Ora il deserto è lontano, l'acqua è insapore e la luce del sole soffoca la candela.
Ci eravamo drogati di emozioni, ora ci resta solo la dipendenza. Il gradiente di intensità provoca un vuoto doloroso in mezzo al petto. Ci assale un senso di sconforto. Di impotenza.
Come fanno a pretendere che torniamo ad essere esattamente come eravamo prima? Come se niente fosse successo? Eppure lo sappiamo, è proprio quello che ci chiederanno di fare, che ci stanno già chiedendo di fare. Ripartono dal punto in cui ci eravamo lasciati. Gli sguardi cortesi non rivelano traccia alcuna dei recenti avvenimenti.
Dopo lo tsunami restano soltanto distruzione, morte e dolore. Le gare pietose di donatori vanitosi e la banalizzazione dei servizi in TV.
Tip, dove sei? Ho una voglia matta di abbracciarti.

mercoledì 1 dicembre 2004

Clapham - di William Stabile

Questo articolo é stato iniziato a Londra, Gran Bretagna e finito a Tarifa e Marbella, Andalusia, Spagna. AD 2004.

Abbiamo visto passare ogni cosa e continueremo a vedere. La gran cosa é resistere e fare il nostro lavoro e vedere e udire e imparare e capire; e scrivere quando si sa qualcosa; e non prima; e, porco cane, non troppo dopo.
Salvi pure il mondo chi vuole, purché voi riusciate a vederlo con chiarezza e nell’insieme. Poi, qualunque parte ne rendiate, se é resa veramente lo rappresenterá tutto.
Si tratta di lavorare e di imparare a renderlo. No. Non é ancora un libro, questo, ma qualcosa da dire c’era pure. Poche pratiche cose da dire.

Ernest Hemingway 

Questa é Clapham Junction. Poche pratiche cose da dire.

Vivere in un posto, conoscerlo e sapere di poter scrivere é bellissimo.
Ed é ció che volete fare.
Avete viaggiato molto e sapete che ogni posto vi lascia qualcosa e voi lasciate qualcosa in ogni posto; non vi é ancora chiaro cosa sia di preciso. Ma siete sicuri: questo avviene; perlomeno a livello inconscio.
Avete capito, finalmente, che vi siete preparati a scrivere fin da sempre, quando da ragazzini leggevate tutto ció che potevate leggere, rinchiusi nella vostra stanza per lunghe ore; o quando, e ne eravate colpevoli ma fieri, avevate rubato Robinson Crusoe ad un amico.
A quei tempi, il momento piú bello della giornata era quando arrivava la sera, e se stavate bene, vi infilavate il pigiama e poi, sotto le coperte, sentivate le lenzuola ruvide di flanella e i calzini di lana doppia e prendevate un libro e la luce restava accesa nella notte sul comodino fino a quando la voce di un uomo che amavate vi chiedeva: ``Guli, sei ancora sveglio? Dai, vai a letto, chiudi la luce. ´´
E questo era stato per voi il massimo piacere per molti anni.
Avete imparato a riconoscere bene, ora, quel sentimento che vi fa sentire che ogni posto vale un altro, perché tutti i posti dove siete stati sono importanti per voi. Forse, eravate voi che non davate la giusta importanza e non eravate abbastanza buoni.
Ma ce li avete dentro e nessuno ve li puó togliere.
Siete molto buoni, ora; piú di prima. E questo lo dovete allo scrivere, che é il compagno che amate e tradite tutti i giorni.
Non provate piú quella paura che avevate una volta, perché siete diventati voi stessi.
Avete superato la linea d’ombra.

venerdì 29 ottobre 2004

Lauren Dalrymple: la dea nera di Brixton - di William Stabile

Questo articolo é frutto della stupiditá umana.
E´ stato riscritto, e si presenta quindi non nella forma originaria.
Dopo un mese di lavoro e molti giorni di pensieri, lo scrittore, con un semplice gesto del dito, lo ha cancellato.
La morte, che sia delle cose o degli uomini, é sempre la cosa piú facile e veloce che possa esistere.
E´ stato perduto qualche giorno prima di essere pubblicato. Mi convinco nel tempo che uno scrittore serio dovrebbe oggi, come in passato, solo scrivere su carta e con la sola penna. Nient’altro.
Ció dovrebbe avvenire almeno nella prima stesura di ogni cosa che produce, o almeno di quelle che ritiene siano buone.
Purtroppo anch’ egli é un debole. E´vittima dei tempi moderni dove ci si affida in tutto alle macchine.
E quando continua a essere una persona superficiale, é pieno di sé e non é umile di fronte alla pagina bianca, allora ne paga lo scotto.
Perdonalo Lauren per il ritardo. Perdonalo!
Egli ama la tua voce e tutto ció che gli dá .
Ha dovuto riscriverlo, e con i tempi che corrono, é da molto che ha deciso che i suoi tempi sono lunghi e lenti, e diversi da quelli che gli impongono.
Da oggi in poi sá che di ogni cosa che scriverá e riterrá importante ne fará sempre una copia.

venerdì 6 agosto 2004

Il "Prospect" di Fulham - di William Stabile

Il giovedi` a Londra, un bar dove andare? Fate la cosa giusta: andate al Prospect di Fulham.

State lavorando ad una cosa che per voi e` importante e ci tenete che esca bene e che duri nel tempo, ma la vostra testa si e` ingolfata, perche` questa estate Londra e` calda, ma sopratutto perche` sono giorni che siete bloccati sulla stessa cosa, e non ne venite a capo.

E´giovedi..., allora avete deciso di prendere una boccata d`aria, di fare una passeggiata per distrarvi, perche` dopo un po` d`anni d`esperienza e di tentavi e di volte che avete sbattuto la testa, avete capito che e` l´unico metodo, per un uomo pensante, efficace per uscire dagli imbuti mentali.

Indossate una fresca camicia a righe, tipicamente British, uscite e incominciate a camminare con passo svelto verso Battersea Park.
Percorrete la Falcon Road e vi accorgete che siete in pieno Afghanistan (molte strade hanno nomi come: Afghan rd, Cabul rd, manca solo il Mullah Omar e Osama e qualche bombardamento made in USA... e che qualche barba lunga esca dal centro islamico urlando: Allah e´ grande).

venerdì 3 ottobre 2003

Birmania: sogni con la cravatta. Kuala Terengganu, Malesia

Seduto in un comodo autobus che scorre via lungo un'autostrada della Malesia, anche i drammi dei popoli e dei paesi più vicini sembrano problemi di un altro continente.
Mi ero preparato ad un lungo e noioso tragitto, da trascorrere leggendo ed ammirando, di tanto in tanto, la stupenda costa orientale della penisola. Come spesso accade invece, è il caso a riservarmi gli incontri più interessanti. Quello che mi attendeva oggi in quest'autobus cambia il sapore della mia comodità, strappa me e la Malesia dall'ovattata illusione dello sviluppo tecnologico e sociale, e ci riporta nel complesso contesto regionale in cui siamo inseriti.
Viaggia sul mezzo un folto gruppo di ragazzi che, a giudicare dall'aspetto e dalla lingua che parlano, non sembrano del posto. Durante una sosta presso una stazione di servizio faccio due chiacchiere con un cinese di Kuala Lumpur, il quale mi spiega che sta accompagnando il gruppo di stranieri nello stato di Terengganu, dove c'è già un impiego che li attende.
Sono birmani, appena arrivati da Rangoon. Ognuno porta al petto un tesserino identificativo. Indossano camicia e cravatta. L'unico di essi che parla un po' di inglese mi mostra orgogliosamente un foglietto su cui ha appuntato l'indirizzo della sorella che vive in California. Poi mi porge il suo passaporto e mi chiede se posso mostrargli il mio.
Il libretto che ho tra le mani mi fa tornare alla mente tante conversazioni avute in Birmania - a volte al tavolo di una "tea house", altre in uno scomodo autobus notturno. Quante volte a Rangoon, a Mandalay, al lago Inle ho sentito parlare di quel documento - apparentemente ordinario - come se fosse il simbolo del sogno di una vita, un tesoro tanto agognato, ma forse irraggiungibile.
Abituati ad averne uno tramite una semplice pratica burocratica, non immaginiamo nemmeno quanto prezioso possa essere un passaporto per il cittadino di un paese come l'Unione del Myanmar. Significa un lavoro all'estero - in Malesia, a Singapore, in Giappone -, significa un po' di denaro per sé e la famiglia, lo stomaco finalmente pieno, la possibilità di mandare il figlio o il fratello all'università o di aprire un'attività una volta tornati in patria. Con quel libretto in mano, mentre osservo il visto malesiano stampigliato sull'unica pagina utilizzata, penso alle probabili storie di quei ragazzi. Quanti sogni dietro a quel viaggio, a quella camicia e a quella cravatta - forse annodata dalla madre all'alba - che alcuni portano con l'aria di non averne mai indossata una.
Quanti sacrifici per pagare il mediatore che si è occupato di "oliare" tutti gli ingranaggi della macchina burocratica, nonché di far saltar fuori l'impiego all'estero. Lavori umili, nelle imprese di costruzione, in qualche fabbrica, i più fortunati in un ristorante. Lavori duri con cui nei paesi più ricchi nessuno più vuole avere a che fare ma che per questi ragazzi - e ancor più per le loro famiglie - valgono come l'oro.
Non hanno molte speranze a casa, in uno stato che al termine dell'occupazione britannica - in quanto a potenzialità - si collocava, in Asia, alle spalle del solo Giappone. Ricca di risorse, con un ottimo sistema educativo, un altissimo livello di istruzione e una diffusa conoscenza dell'inglese, la Birmania si preparava - alla fine della seconda guerra mondiale - a spiccare il salto verso lo sviluppo. E' invece caduta nel baratro della guerra civile, dell'involuzione, della dittatura e della povertà.
Per decenni il popolo birmano ha sopportato le angherie a cui la dispotica giunta militare lo ha sottoposto. A centinaia i dissidenti sono stati arrestati, torturati, mandati ai lavori forzati e uccisi. A volte anche solo per una battuta sui potenti, come successe a Par Par Lay, un componente del gruppo 'Mustache Brother' - i Beppe Grillo o i Roberto Benigni birmani - che andai a vedere una sera a Mandalay. Si esibivano - non essendo autorizzati a farlo in luogo pubblico - nel garage di casa, davanti a cinque o sei spettatori accomodati su semplici sedie da cucina. Durante lo spettacolo il fratello minore raccontò la triste storia di Par Par Lay, finito per sei anni in un campo di lavoro a Myitkyina - nel nord del paese - a causa di una battuta satirica all'indirizzo del governo.
Nonostante tutto i birmani hanno resistito, hanno piegato la testa e hanno continuato a vivere le loro vite, per quanto dure e umilianti queste potessero essere. Ora però devono far fronte ad un'ulteriore minaccia, forse la più tremenda: l'estrema povertà, e con essa la fame. L'incompetenza della giunta e le guerre che il governo centrale ha combattuto contro gli eserciti ribelli hanno messo in ginocchio l'economia del paese. Inoltre le sanzioni economiche internazionali applicate nei confronti della dittatura hanno avuto l'effetto di lasciare a casa migliaia di lavoratori, mandando le loro famiglie sul lastrico.
Mentre ero in viaggio nel paese lo scorso ottobre mi capitò spesso, troppo spesso, di ascoltare delle storie, tutte simili tra loro. Storie di uomini e donne, che si lamentavano per non essere ormai nemmeno in grado di comprare la quantità di riso necessaria a sfamare i loro figli. Storie raccontate solo per far sapere, senza secondi fini, con la dignità di chi non vuole l'elemosina.
Come quella di un tassista di Rangoon che incontrai sull'autobus che da Mandalay mi portava al lago Inle. Andava a trovare la famiglia che vive a Taunggy.
«Con il taxi riesco a mettere assieme una somma...che...qui da noi...è sempre stata più che sufficiente...sai...
«Ma c'è quella maledetta inflazione...e anche uno stipendio come il mio quasi non basta più a sfamare tutte le bocche che aspettano a casa...
«Il mio sogno è quello di raggiungere mia sorella a Singapore. Lì, potrei lavorare per qualche anno, poi tornare ed aprire la mia attività a Taunggy. Così potrei finalmente vivere con la mia famiglia...
«Lavorerei soltanto in un'autofficina...sai...solo lì, altrimenti preferisco continuare a guidare il mio taxi...»

Chissà se ce l'ha poi fatta...
Nel frattempo ce l'hanno fatta questi ragazzi, che si sbeffeggiano e ridono come degli scolari in gita, che sfogliano un dizionario per imparare un po' di 'bahasa Malaysia', che osservano curiosi il mio passaporto, con dignità, perché siamo alla pari, e anch'io sto osservando uno dei loro. E ce l'hanno fatta le loro famiglie, che presto riceveranno i primi 'interessi' sul capitale investito.
Non ce l'hanno fatta invece i sei birmani, tra i 20 e i 30 anni, che sono stati "pescati" in questi giorni dalla polizia malesiana dopo essere entrati illegalmente nel paese.
Non ce l'hanno fatta - non ancora almeno - altri milioni di famiglie, che continuano in Birmania la loro lotta quotidiana. Non già contro la dittatura, bensì contro le avversità, per portare a casa quel po' di riso che serve a tirare avanti.