venerdì 3 ottobre 2003

Birmania: sogni con la cravatta. Kuala Terengganu, Malesia

Seduto in un comodo autobus che scorre via lungo un'autostrada della Malesia, anche i drammi dei popoli e dei paesi più vicini sembrano problemi di un altro continente.
Mi ero preparato ad un lungo e noioso tragitto, da trascorrere leggendo ed ammirando, di tanto in tanto, la stupenda costa orientale della penisola. Come spesso accade invece, è il caso a riservarmi gli incontri più interessanti. Quello che mi attendeva oggi in quest'autobus cambia il sapore della mia comodità, strappa me e la Malesia dall'ovattata illusione dello sviluppo tecnologico e sociale, e ci riporta nel complesso contesto regionale in cui siamo inseriti.
Viaggia sul mezzo un folto gruppo di ragazzi che, a giudicare dall'aspetto e dalla lingua che parlano, non sembrano del posto. Durante una sosta presso una stazione di servizio faccio due chiacchiere con un cinese di Kuala Lumpur, il quale mi spiega che sta accompagnando il gruppo di stranieri nello stato di Terengganu, dove c'è già un impiego che li attende.
Sono birmani, appena arrivati da Rangoon. Ognuno porta al petto un tesserino identificativo. Indossano camicia e cravatta. L'unico di essi che parla un po' di inglese mi mostra orgogliosamente un foglietto su cui ha appuntato l'indirizzo della sorella che vive in California. Poi mi porge il suo passaporto e mi chiede se posso mostrargli il mio.
Il libretto che ho tra le mani mi fa tornare alla mente tante conversazioni avute in Birmania - a volte al tavolo di una "tea house", altre in uno scomodo autobus notturno. Quante volte a Rangoon, a Mandalay, al lago Inle ho sentito parlare di quel documento - apparentemente ordinario - come se fosse il simbolo del sogno di una vita, un tesoro tanto agognato, ma forse irraggiungibile.
Abituati ad averne uno tramite una semplice pratica burocratica, non immaginiamo nemmeno quanto prezioso possa essere un passaporto per il cittadino di un paese come l'Unione del Myanmar. Significa un lavoro all'estero - in Malesia, a Singapore, in Giappone -, significa un po' di denaro per sé e la famiglia, lo stomaco finalmente pieno, la possibilità di mandare il figlio o il fratello all'università o di aprire un'attività una volta tornati in patria. Con quel libretto in mano, mentre osservo il visto malesiano stampigliato sull'unica pagina utilizzata, penso alle probabili storie di quei ragazzi. Quanti sogni dietro a quel viaggio, a quella camicia e a quella cravatta - forse annodata dalla madre all'alba - che alcuni portano con l'aria di non averne mai indossata una.
Quanti sacrifici per pagare il mediatore che si è occupato di "oliare" tutti gli ingranaggi della macchina burocratica, nonché di far saltar fuori l'impiego all'estero. Lavori umili, nelle imprese di costruzione, in qualche fabbrica, i più fortunati in un ristorante. Lavori duri con cui nei paesi più ricchi nessuno più vuole avere a che fare ma che per questi ragazzi - e ancor più per le loro famiglie - valgono come l'oro.
Non hanno molte speranze a casa, in uno stato che al termine dell'occupazione britannica - in quanto a potenzialità - si collocava, in Asia, alle spalle del solo Giappone. Ricca di risorse, con un ottimo sistema educativo, un altissimo livello di istruzione e una diffusa conoscenza dell'inglese, la Birmania si preparava - alla fine della seconda guerra mondiale - a spiccare il salto verso lo sviluppo. E' invece caduta nel baratro della guerra civile, dell'involuzione, della dittatura e della povertà.
Per decenni il popolo birmano ha sopportato le angherie a cui la dispotica giunta militare lo ha sottoposto. A centinaia i dissidenti sono stati arrestati, torturati, mandati ai lavori forzati e uccisi. A volte anche solo per una battuta sui potenti, come successe a Par Par Lay, un componente del gruppo 'Mustache Brother' - i Beppe Grillo o i Roberto Benigni birmani - che andai a vedere una sera a Mandalay. Si esibivano - non essendo autorizzati a farlo in luogo pubblico - nel garage di casa, davanti a cinque o sei spettatori accomodati su semplici sedie da cucina. Durante lo spettacolo il fratello minore raccontò la triste storia di Par Par Lay, finito per sei anni in un campo di lavoro a Myitkyina - nel nord del paese - a causa di una battuta satirica all'indirizzo del governo.
Nonostante tutto i birmani hanno resistito, hanno piegato la testa e hanno continuato a vivere le loro vite, per quanto dure e umilianti queste potessero essere. Ora però devono far fronte ad un'ulteriore minaccia, forse la più tremenda: l'estrema povertà, e con essa la fame. L'incompetenza della giunta e le guerre che il governo centrale ha combattuto contro gli eserciti ribelli hanno messo in ginocchio l'economia del paese. Inoltre le sanzioni economiche internazionali applicate nei confronti della dittatura hanno avuto l'effetto di lasciare a casa migliaia di lavoratori, mandando le loro famiglie sul lastrico.
Mentre ero in viaggio nel paese lo scorso ottobre mi capitò spesso, troppo spesso, di ascoltare delle storie, tutte simili tra loro. Storie di uomini e donne, che si lamentavano per non essere ormai nemmeno in grado di comprare la quantità di riso necessaria a sfamare i loro figli. Storie raccontate solo per far sapere, senza secondi fini, con la dignità di chi non vuole l'elemosina.
Come quella di un tassista di Rangoon che incontrai sull'autobus che da Mandalay mi portava al lago Inle. Andava a trovare la famiglia che vive a Taunggy.
«Con il taxi riesco a mettere assieme una somma...che...qui da noi...è sempre stata più che sufficiente...sai...
«Ma c'è quella maledetta inflazione...e anche uno stipendio come il mio quasi non basta più a sfamare tutte le bocche che aspettano a casa...
«Il mio sogno è quello di raggiungere mia sorella a Singapore. Lì, potrei lavorare per qualche anno, poi tornare ed aprire la mia attività a Taunggy. Così potrei finalmente vivere con la mia famiglia...
«Lavorerei soltanto in un'autofficina...sai...solo lì, altrimenti preferisco continuare a guidare il mio taxi...»

Chissà se ce l'ha poi fatta...
Nel frattempo ce l'hanno fatta questi ragazzi, che si sbeffeggiano e ridono come degli scolari in gita, che sfogliano un dizionario per imparare un po' di 'bahasa Malaysia', che osservano curiosi il mio passaporto, con dignità, perché siamo alla pari, e anch'io sto osservando uno dei loro. E ce l'hanno fatta le loro famiglie, che presto riceveranno i primi 'interessi' sul capitale investito.
Non ce l'hanno fatta invece i sei birmani, tra i 20 e i 30 anni, che sono stati "pescati" in questi giorni dalla polizia malesiana dopo essere entrati illegalmente nel paese.
Non ce l'hanno fatta - non ancora almeno - altri milioni di famiglie, che continuano in Birmania la loro lotta quotidiana. Non già contro la dittatura, bensì contro le avversità, per portare a casa quel po' di riso che serve a tirare avanti.

domenica 28 settembre 2003

Il barbone colto - Kuala Lumpur, Malesia


Resto quasi tutto il giorno in albergo ma in serata esco per una passeggiata.
Cammino lungo le strade di chinatown, do un'occhiata agli edifici coloniali, simili nella forma a quelli di Singapore ma senza quella patina di nuovo che in quella città fa sembrare tutto finto. Voglio visitare Masjid Jamek, la più importante moschea in città. All'altezza del palazzo della corte suprema - illuminato come un albero di natale - vengo affiancato da un signore dal passo talmente veloce che quasi finisce addosso alle transenne che fiancheggiano il marciapiede.
Quando mi volto per osservarlo mi chiede che ne penso del palazzo. Andava di fretta per acciuffarmi e la domanda è soltanto una scusa per fermarmi.
"Non mi piace l'illuminazione, è un bell'edificio ma lo preferisco al naturale."
"Lo sai che è la sede della corte suprema? Vi si decretano le sentenze a morte."
Non so se sia esatto quel che dice. Comunque ora ne sono sicuro. E' un pretesto per attaccare conversazione. Si dimostra subito critico nei confronti dello stato e in particolare della sua componente islamica. Strano...dall'aspetto mi era sembrato malay, quindi musulmano egli stesso.
Ha la pelle ambrata e increspata sul viso magro. Il profilo è come un piano inclinato con il naso che segue l'angolo della fronte e il mento sporgente. Quando apre la bocca spuntano solo tre o quattro denti.
Gerald John Baptist non fa parte della maggioranza musulmana: è un eurasiatico, di discendenza in parte malay e in parte britannica. E' cristiano e da qui, a suo modo di vedere, nascono tutti i suoi problemi. La madre lavorò duramente per pagargli gli studi fino alla fine della scuola superiore. Al termine dell'ultimo anno si presentò a casa sventolando l'ottima pagella: su quattro materie aveva ottenuto tre A - il voto d'eccellenza - e una B. Per ottenere una sovvenzione statale per le spese universitarie bastava molto meno.
La madre lo sorprese con una risposta che lui giudicò ingenua: "Non capisci? E' finita! Non troveremo mai i soldi per l'università!"
"Sei un'idiota?" esplose con tutta la sua indignazione "Con questi voti ho diritto automatico ad una borsa di studio!".
Il giorno dopo presentò la sua domanda all'ufficio competente. Tre mesi dopo - non avendo ancora ricevuto una risposta - si ripresentò davanti all'addetto chiedendo informazioni.
"Se non ti è arrivata una risposta...significa che la tua domanda è stata respinta..."
Tornò a casa dalla madre e, in lacrime, le chiese scusa per averla offesa e per non averle creduto. Le borse erano state assegnate a richiedenti malay-musulmani che avevano ottenuto punteggi inferiori ai suoi agli esami di maturità. E lo stesso accadde con la maggior parte dei lavori buoni per cui - da allora in poi - fece domanda.
Gerald è un gran narratore. Il suo inglese è corretto e forbito. Sa accelerare e rallentare il ritmo della narrazione a seconda del frangente della storia e dell'emozione che vuole trasmettere. La storia si tinge di toni melodrammatici quando - descrivendo i momenti più toccanti - la voce gli si alza di tono e si rompe quasi come se stesse per scoppiare a piangere. Ma la commozione non dura più di un attimo e Gerald riparte con più rabbia di prima.
Da lungo tempo vive senza una casa. Un amico - l'ultimo che ha avuto, un ragazzo di 27 anni che stava nella stessa sua situazione - un giorno sparì. Dopo un paio di settimane, quando lui già l'aveva cercato alla polizia e negli ospedali di tutta la città, il suo amico ricomparve più sano e contento che mai: si era convertito all'Islam. Quando gli promise che l'avrebbe messo in contatto con i suoi convertitori, Gerald si infuriò...per niente al mondo si farebbe musulmano.
L'unica via di salvezza in cui ancora crede è una "fuga" a Singapore, paese in cui - secondo lui - ci sono meno discriminazioni e in cui i cristiani dell'Esercito della Salvezza si prenderebbero cura di lui.
"Mi laverebbero, mi vestirebbero e mi darebbero da mangiare."
Purtroppo per ottenere il passaporto occorrono molti soldi. Gli dico che a Singapore ci sono stato e che a me non è sembrata una società migliore di quella malesiana. Lì l'accattonaggio e l'elemosina sono formalmente proibiti ma questo non significa che non ci siano i poveri e gli emarginati, e che essi vengano trattati come degli ospiti d'onore. A Singapore i malay e gli indiani si lamentano per i privilegi accordati ai cinesi.
Il governo malesiano non si diverte a tenere prigionieri quelli come lui. Se potesse risolvere il problema scaricando la patata bollente ai "cugini" lo farebbe. Ma non credo che in quell'isola asettica vedano di buon occhio una soluzione di questo tipo.
Gerald non sente ragioni, Singapore è il paradiso che lui cerca. A confermare questa tesi è lui stesso quando mi racconta come - quando la città si prepara ad entrare in scena sotto la luce dei riflettori internazionali - le autorità cercano di sbarazzarsi dell'imbarazzante "fardello" e di "nasconderlo" altrove.
Kuala Lumpur si sta avvicinando ad uno di quegli appuntamenti: a metà del prossimo mese la capitale malesiana ospiterà nel palazzo dei convegni di Putrajaya il summit dell'Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC). Sceicchi, presidenti, sultani provenienti da tutto il mondo islamico nonché i media internazionali convergeranno sulla città che per l'occasione dovrà sembrare un modello di pulizia. Le forze dell'ordine quindi setacceranno le vie del centro e le ripuliranno da qualunque soggetto che possa "rovinare" l'immagine della capitale.
Quelli come Gerald verranno caricati all'interno di un camion, portati a parecchi chilometri di distanza e verrà quindi loro intimato di tenersi a "debita distanza". Al mio amico è già successo una ventina di volte. I senzatetto musulmani possono sempre cercare ospitalità in una moschea. Come prova della fede questi "disperati" devono mostrare la carta d'identità che - oltre alle informazioni ordinarie - contiene anche l'indicazione della religione - un marchio a fuoco che qui pesa parecchio. Per chi non è un seguace di Maometto la casella è riempita con un paio di trattini (--). Nel modulo per la richiesta del documento Gerald indicò 'CRISTIANO CATTOLICO' con grandi caratteri in stampatello, ma le autorità non considerano valida qualsiasi entrata diversa da 'ISLAM'.
"E perché non chiedi ospitalità in chiesa?" Sorride con sarcasmo.
"Le chiese hanno chiuso le loro porte da quando alcune di esse hanno subito tentativi di incendio. E il governo ha puntato il dito sugli sbandati e sui tossico dipendenti. Ma andiamo! Lo sappiamo tutti che i colpevoli sono gli estremisti islamici! I drogati in chiesa al massimo rubano, perché dovrebbero appiccare incendi?"
Non insisto: sembra infatti intenzionato a difendere le chiese locali così come difende Singapore. La vera carta d'identità - o meglio il lasciapassare - di Gerald è invece una rispettabile borsa nera che si porta dietro - piena di cianfrusaglie senza valore - per ingannare le apparenze dando l'impressione di essere un "cittadino rispettabile" che va al lavoro.
Scoppio in una sincera risata al termine della spiegazione di questo trucco geniale da film del neorealismo italiano. Ride con me ma subito dopo, con la grande arte di pilota delle emozioni che fa di lui un ottimo oratore, passa al racconto della drammatica vicenda che lo costrinse ad aguzzare l'ingegno e ad escogitare quella geniale trovata.
Un giorno fu fermato dalla polizia mentre passeggiava innocentemente in una via del centro. L'agente, insospettito dal suo aspetto e, forse, anche dal suo odore, gli chiese chi fosse e dove abitasse. Gerald non rispose e, un paio d'ore più tardi, si trovò in una cella a fare compagnia ad un indiano che gli confidò di essere lì per aver sterminato la sua famiglia. Poco dopo, da un altra cella, un altro recluso lo invitò ad abbassarsi i pantaloni. Quindi Gerald, con la voce di nuovo rotta dall'emozione, mi racconta di aver cominciato a pregare, e di essere quindi caduto in una sorta di trance da cui si risvegliò - senza ricordare nulla di quel terribile frangente - quando già stava fuori.
Ma Gerald nella sua vita sostiene di averne subite molte, e ha altre cartucce da sparare. Un giorno si presentò all'entrata di un ristorantino cinese e, con gli ultimi 3 ringgit che gli restavano in tasca, chiese qualcosa da mangiare. Sapeva che le pietanze più economiche costavano 5 ringgit ma sperava, essendo il ristorante in chiusura, di ricevere qualcosa che sarebbe stato altrimenti gettato.
"In questo locale non vendiamo cibo per cani..." gli rispose il rozzo cinese.
Gerald racconta di non averci più visto dalla rabbia, di aver afferrato il coltellaccio da cucina che stava piantato sul tagliere davanti a lui e di averlo sventolato in faccia allo zoticone. In quel momento un cameriere intervenne provvidenzialmente e lo mise fuori gioco colpendolo sulla schiena con una sedia. Porta ancora riconoscenza a quell'uomo che gli impedì di commettere un crimine della cui sola eventualità si vergogna tuttora.
Tramite dei giornali che pesca nei bidoni della spazzatura si tiene al corrente sulla situazione locale e internazionale. Interessante è la sua versione del caso Anwar. L'ex vice primo ministro nel '98 era ansiosissimo di fare le scarpe a Mahatir e cercò di attirarlo in una trappola mettendogli contro membri del partito e opinione pubblica.
Secondo Gerald, Anwar, che era al tempo anche ministro delle finanze, al fine di destabilizzare il paese stava cercando di alzare il costo del denaro a livelli proibitivi per gli investitori e di fare in modo che il Fondo monetario internazionale intervenisse con dei prestiti forzando in cambio il governo ad orientarsi verso una politica più trasparente e democratica.
Anwar sperava così di creare disordine nel partito e nelle piazze, forzando Mahatir al ritiro. Il cambio al vertice sarebbe stata la rovina del paese che sarebbe stato svenduto agli americani che potevano ricattare Anwar con le prove dei suoi peccati di sodomia - gravissimi agli occhi dei musulmani - commessi durante una sua visita negli USA.
Per "fortuna del paese" anche il premier Mahatir era in possesso di prove di quello e di altri reati e, non appena fiutato il pericolo, fece venire alla luce un dossier Anwar che mise in moto l'ISA e la macchina giudiziaria.
Non male come analisi per uno che non ha nemmeno i soldi per comprarsi un giornale.
Gli chiedo dove dorme e mi accompagna in una discesa che si infila sotto la Piazza dell'Indipendenza. C'è una piccola siepe. Lui estrae dei fogli di cartone e li stende sopra al muretto formando un "materasso", poi piega una tela e ricava una specie di guanciale.
Mi confida che uno dei problemi più fastidiosi glielo creano le zanzare. Ha capito che me ne sto per andare, e quindi passa all'ultimo atto del suo spettacolo: il giro in platea col cappello in mano.
Dalla borsa estrae delle mappe della città e del paese su cui ha annotato in inglese delle utili informazioni supplementari. Per suggerirmi il limite minimo dell'offerta si affretta a farmi sapere che qualche straniero si è "incredibilmente" rifiutato di pagargli il prezzo stabilito di 10-15 ringgit, circa 3 euro. Parecchio, considerando che le mappe sono distribuite gratuitamente dal ministero del turismo e - soprattutto - che in Asia chi fa l'elemosina accetta con un sorriso un decimo di quella somma, se non meno.
Ma non importa. Le sue storie, vere o no, esagerate o rigorosamente attinenti ai fatti, mi hanno intrattenuto per un'ora o più. Gli allungo una mancia, vi aggiungo una boccetta di lozione anti-insetti che avevo nella borsa e lo saluto.
Gerald mi benedice e mi augura la buona notte.


sabato 27 settembre 2003

Kuala Lumpur - Malesia, 27 settembre 2003

Abdul Hadi Awang - il leader del governo locale dello stato di Terengganu - ha dichiarato che il 'Terengganu syariah criminal enactment' (la legge islamica) verrà ufficializzato il prossimo ottobre - prima del ritiro di Mahatir - ed entrerà in vigore immediatamente. Ho deciso di recarmi a Kuala Terengganu e di scrivere un pezzo a riguardo.
Per la giornata di oggi scelgo invece di seguire il consiglio di un cinese di Malacca che alloggia, come me, al Pudu hostel. Il suo nome è Michael, commercia in diamanti grezzi. Li compra dai venditori africani e li rivende in tutta l'Asia. Ha vissuto per 7 anni in Belgio, ad Anversa (Antwerp) - la capitale mondiale del diamante. Mi spiega come funziona il commercio. Gli operatori più affidabili sono iscritti alle borse del diamante. Lui è iscritto alla sede di Kuala Lumpur.
Di solito quando ha bisogno di un fornitore si rivolge ad aziende accreditate e spesso chiede consiglio ai suoi amici di Anversa. Le banche fanno da garanti con delle lettere di credito. Il fornitore spedisce la merce tramite un corriere specializzato (Briks) e il denaro per il pagamento resta congelato fino a che la merce non viene consegnata e accettata.
Michael mi consiglia di recarmi a Genting highlands. Di questa località so che è la sede del più grande centro divertimenti del paese e di molti casinò. Lui me lo conferma ma aggiunge che il tragitto in funivia attraverso la giungla è molto suggestivo.
Nell'autobus incontro un altro cinese con cui faccio conversazione. Quando gli dico che ho la passione della scrittura mi dice che gli piacerebbe che mi dedicassi alla stesura di un libro sul tema "amore e vitalità". Gli chiedo perché non lo fa lui.
«Non ho studiato e non riuscirei mai a scrivere un libro»
«Ma lei parla un ottimo inglese...»
«È perché ho lavorato per un ex-capitano inglese per il quale mia madre prestava servizio. L'ho seguito anche in India e a Londra»

Parliamo un po' della politica malesiana. Proprio lui - un cinese - sostiene che i cinesi hanno in un certo senso rovinato il paese con le loro pratiche di corruzione. A proposito del PAS mi dice che alle prossime elezioni potrebbe aggiudicarsi un altro stato.
«Quale?»
«Johor Bharu...» risponde lui provocando la mia sorpresa.

Poi mi confida che gli piacerebbe che Bush cogliesse l'occasione del summit dell'OIC (Organizzazione della Conferenza Islamica) a KL che si terrà in ottobre per dialogare con i paesi musulmani alla ricerca di una soluzione al problema del terrorismo. Secondo lui una profezia cinese prevede una terza guerra mondiale e questo summit sarà l'ultima opportunità per evitarla.
La vista sulla giungla e sulle montagne ricoperte da una insolita nebbiolina vale in effetti il prezzo del biglietto e il viaggio. Per non parlare della fresca temperatura...un sollievo dopo l'aria soffocante e calda della metropoli.
Continuiamo la conversazione bevendo un caffè a Genting. Comincia a parlarmi delle sue idee sull'amore, che va dato e ricevuto. E che la maggior parte della gente non sa di preciso che cosa sia... Non lo seguo più molto bene, un po' perché le sue teorie mi sembrano un po' confuse e un po' perché mi concentro su altri particolari. Ha un viso interessantissimo. Dice di avere 66 anni ma ne dimostra 10 o 15 in più. Ha pochissimi denti. Un lunghissimo incisivo gli sbarra la bocca quando ride mentre le labbra si piegano verso l'interno avvolgendo le gengive ormai spoglie. La pelle abbronzata si corruga in un disegno complesso che avvolge il viso scarno. Gli occhi sembrano scoloriti dal tempo e dagli eventi. Finalmente mi ricordo dove avevo già annusato l'odore emanato dalla sua pelle. È lo stesso profumo che hanno addosso alcuni vecchi del paese di mio nonno. Un profumo vagamente aspro che nel mio immaginario sa di semplicità, di campagna, di lunghe e lente camminate in collina. Di camicia, giacca nera e cappello di feltro indossati ad agosto. E ancora di enormi forme di pane tagliate con un coltello tascabile, di stalle e conigli, di somari ed escrementi, di campi e di frutta.
Scopro due ennesimi record della Malesia. La funivia è la più lunga e veloce del sud-est asiatico. L'hotel First World ha il banco della reception più lungo del mondo! Non me lo posso perdere e, lasciato il cinese che va al casinò con le sue teorie di metodi e capitali, seguo le insegne per l'albergo del record. È una passeggiata incredibilmente lunga attraverso ristoranti, sale giochi, parchi giochi all'aperto e al coperto, otto volanti e sale per spettacoli.
Arrivo alla 'Lobi' (questa e' la grafia del termine malese) e mi scappa da ridere: il banco sarà lungo almeno 50 metri e ci lavorano decine di persone. Per alcuni servizi è necessario ritirare il bigliettino col numero, per altri bisogna accodarsi a file lunghissime: è sabato e i malesiani arrivano a frotte al loro "centro di divertimenti". Soprattutto cinesi ma anche indiani e un bel po' di musulmani. Mi imbatto, non senza sorpresa e un filo di delusione, anche in una donna coperta - ad eccezione dei soli occhi - dal velo nero del 'purdah'. E' accompagnata dal marito - con la barba lunga e il copricapo musulmano - e dai figlioletti. Ma che ci viene a fare in un posto cosi' una famiglia religiosa islamica?

giovedì 25 settembre 2003

Kuala Lumpur - Malesia, 25 settembre 2003

Sono sul moderno e comodo treno che mi porta a Putrajaya, la nuovissima cittadella amministrativa voluta dal premier Mahatir. Il treno sfreccia attraverso il 'super corridoio multimediale' che collega la capitale malesiana al bellissimo (e costosissimo) aeroporto.
In un posto con un nome del genere ci si aspettano chissà quali prodigi della tecnologia. In realtà ad entrambi i lati della linea ferroviaria è la bellezza quasi finta della natura tropicale a dominare il paesaggio. Sotto un pesante cielo gonfio di nuvole grigio-bianche si estende un paesaggio dolcemente ondulato, ricoperto da una vegetazione di un verde molto intenso, interrotta qua e là da macchie brulle color caffellatte. Le piantagioni di palme da olio sono in quest'area soltanto una discreta presenza.
Nella zona residenziale di Putrajaya le case sono tutte color pastello: rosa, beige, noce, giallo paglierino. Estese sono le aree dedicate al verde pubblico. Mi ricorda vagamente Canberra, la capitale australiana.
Scendo al grande piazzale rotondo su cui si affacciano la moschea 'Masjid Putra' e il palazzo in cui ha sede l'ufficio del primo ministro. La moschea ha una stupenda cupola rosa con decorazioni chiare e sta come distesa sulle rive di un laghetto, sulle cui acque "poggia" romanticamente il capo. A poche decine di metri l'edificio che ospita l'ufficio di Mahatir è più grande della Masjid Putra e, con le tre cupole verdi che lo sovrastano, è un esempio perfetto del miscuglio di stile moderno e tradizione islamica che caratterizza un po' tutta l'architettura recente di Kuala Lumpur.
Faccio una passeggiata nei dintorni, il centro nevralgico di Putrajaya è un complesso di edifici moderni e sofisticati - ma sempre con qualche tocco ''moresco" -, belle strade pavimentate, piazze architettoniche, sotterranei ad aria condizionata. Il tutto "ricamato" con un arredamento urbano sofisticato e funzionale - panchine e fontanelle d'acqua potabile sono ad ogni angolo - e decorato con piante e alberi.
Il governo qui non ha certo badato a spese. «L'opera fu completata poco dopo la crisi del '97, la gente a quel tempo era molto preoccupata e in molti non gradirono le spese "folli" dell'amministrazione» mi spiega un ragazzo di Kuala Terengganu che incontro sotto la provvidenziale ombra di un albero davanti alla moschea. Mi torna alla mente la storia di Ibrahim Anwar che, anche per aver criticato spese come questa, si trova da allora in carcere.
Scopro un altro record di questo incredibile paese. Il sistema di trasporto metropolitano LRT di KL è il più lungo al mondo tra quelli automatizzati, senza pilota a bordo.

martedì 23 settembre 2003

Malacca - Malesia, 23 settembre 2003

Faccio un salto all'area coloniale. Il cimitero olandese - che contiene anche le tombe di alcuni coloni inglesi - non è molto grande. Molto più piccolo di quello, sempre olandese, a Cochin nel sud dell'India o di quello inglese a Dharamsala, sempre in India ma molto più a nord, nell'Himalaya.
La storia della vicina chiesa di San Paolo riflette le vicende coloniali della città. Fu costruita nel 1521 dal capitano portoghese Duarto Coelho che le diede il nome di "Nostra Signora della collina". Nel 1548 fu consegnata ai gesuiti che la chiamarono "Annunciazione", la ampliarono e infine la dotarono di un campanile. Quando gli olandesi si insediarono a Malacca si impossessarono della chiesa e le assegnarono il nome attuale, nonché il credo protestante. La abbandonarono nel 1753 quando terminarono la costruzione della vicina "Chiesa di Cristo".
Con l'arrivo degli inglesi l'edificio fu adibito a polveriera, perse il campanile ma acquistò in compenso un faro che ancora oggi si erge davanti alla facciata. La chiesa ospitò per nove mesi la salma di San Francesco Saverio che, proveniente da Macao, dove il missionario era morto, e in rotta verso il suo definitivo luogo di sepoltura a Goa, ha continuato fino ai nostri giorni a resistere agli effetti della decomposizione - seppur mutilata dai furti dei cacciatori di reliquie.
Francesco Saverio, "l'apostolo d'Asia", durante i suoi spostamenti in oriente soggiornò, predicò e convertì anche a Malacca. Si narra che un giorno una tempesta investì l'imbarcazione su cui stava navigando. Il crocifisso che il frate estrasse per invocare l'aiuto divino gli scivolò in mare. Più tardi, in una spiaggia, Francesco Saverio notò un granchio che teneva tra le chele il crocifisso smarrito e decise di benedire il crostaceo. Secondo la leggenda da allora i granchi di quella specie hanno il guscio marchiato da una croce.
Meno famoso è invece un altro personaggio che ha trovato sepoltura in questa chiesa: la moglie di John Van Riebeck, l'olandese che fondò la colonia che ora è Città del Capo in Sud Africa. La salma fu portata in Africa nel 1915 e qui a Malacca è stata installata una pietra in memoria.
Dei ragazzini entrano rumorosamente nella navata diroccata, e vengono attratti da un ambulante che cerca di vendere loro dei fischietti a stantuffo. Un uomo si è sistemato su un seggiolino all'interno dell'edificio. Ha una chitarra e un'armonica e comincia a cantare una vecchia canzone di Bob Dylan. I ragazzini, con la curiosità multiforme di quell'età, si voltano per ascoltarlo ma lo scaltro venditore, che non è disposto a farsi sfuggire l'occasione, li richiama con un urlo, estrae anch'egli un'armonica e riprende le note del musicista. È veramente troppo per i bambini, che non resistono alla tentazione e comprano uno strumento a testa, prima di correre strimpellando fischietti e armoniche a circondare l'uomo che sta ora suonando "Blowing in the wind".

domenica 21 settembre 2003

Malacca - Malesia, 21 settembre 2003

Sono seduto ad un tavolo di un ristorante Mama, dal nomignolo con cui vengono identificati, da queste parti, gli indiani-musulmani. I tavoli sono tutti occupati ed un signore decide quindi di accomodarsi accanto a me. È un uomo di mezza età, i suoi capelli - brizzolati con qualche tocco di bianco qua e là - si diradano sulla fronte alta e abbronzata. Il suo bel viso è una composizione ordinata in cui le linee dritte delle rughe e i volumi di carne morbida di orbite, guance e mento si sostengono e si tendono a vicenda in armonioso equilibrio funzionale. Porta dei baffetti grigi fini e curati.
Ha un pallino nero tatuato sopra il naso, tra le sopracciglia. Altri disegni più complessi sporgono da sotto la scollatura e dalle maniche avvolte della camicia di raso color granata. Il viso è quello di un cinese ma le effigi di un Buddha e di due monarchi siamesi appesi ad una lunga catena che porta al collo ne tradiscono la provenienza thailandese. Infilato al dito medio della sinistra porta un anello su cui grava una complessa e pacchiana figura metallica mentre una pietra che assomiglia ad un occhio castano fa da contrappeso sull'altra mano. Una specie di bracciale d'argento a maglie grosse e pesantemente decorate gli avvolge una caviglia, sopra al calzino di cotone che si infila in una moderna scarpa da ginnastica.
Sta aggiornando un quadernetto su cui tiene della contabilità. All'improvviso si volta verso di me e mi porge, con un inglese eccellente, una domanda strana: «Mi scusi, il monte Everest si trova in Nepal o in Tibet?».
«Senza dubbio in Nepal» gli rispondo io (in realtà l'enorme massiccio si estende attorno al confine tra Nepal e Tibet, ma la maggior parte dei turisti vi accede dal versante nepalese). Rimette il quadernetto al suo posto in un'ordinatissima ventiquattrore, ne tira fuori un altro e ci appunta qualcosa.
«Di dov'è?» gli chiedo.
«Thailandia».
«Lo sospettavo, ho notato la medaglietta di re Rama V. E pure degli ideogrammi cinesi sul suo quaderno».
«In effetti sono thai-cinese». L'uomo comincia a parlarmi del Siam, di re Chulalongkorn che abolì la schiavitù nel suo regno, della saggezza del padre, il protagonista del film "Anna and the king". Del fatto che, per preservare le tradizioni siamesi, ai cinesi veniva proibito l'uso della propria lingua ed imposta la scelta di un nome locale.

Poi comincia a parlare di zodiaco cinese. Mi spiega che io sono del segno del cane del tempio. Prima o poi quindi riceverò una chiamata spirituale e mi rivolgerò al buddismo per la ricerca della verità e dell'illuminazione.
Comincia quindi con una digressione sul buddismo, sulla rettitudine, sui mali da evitare e mentre sto scrivendo un appunto che mi ha appena dettato estrae di soppiatto dalla valigetta una cartolina raffigurante un bonzo seduto nella posizione del loto. Dopo averlo incensato per un paio di minuti mi spiega che posso avere una copia dalla cartolina e la benedizione eterna per "soli" 20 ringitt, circa 5 euro. Dopo aver incontrato il mio cortese rifiuto mi fissa per qualche secondo in silenzio da dietro un paio di occhiali scuri. Mi ricorda un venditore di enciclopedie porta a porta. Rilancia a 10 ringitt. Rifiuto proponendo una mia visita con relativa offerta al tempio del monaco presso Ubon Rachathani, nel nord-est della thailandia. Rispondendo ad una mia domanda di qualche minuto prima (inizialmente ignorata) mi indica il suo nome su un bigliettino da visita. Quindi si alza e si incammina dicendo: «Ti manca la saggezza».
«Come?» gli rispondo più per sorpresa che per curiosità.
«Ti manca la saggezza...» guarda il cielo come se vi cercasse le parole «...al 50%!».

venerdì 19 settembre 2003

Malacca - Malesia, 19 settembre 2003

Lungo la strada che porta a Malacca c'è la solita distesa di palme da olio che domina il paesaggio rurale malesiano un po' ovunque. Sarebbe una bella vista se gli alberi non fossero disposti lungo le file regolari delle piantagioni. Una studentessa di economia incontrata l'anno scorso sull'autobus per Taman Negara mi spiegava che per decenni la Malesia è stata un eccezionale produttore di gomma naturale, ma negli ultimi anni si è convertita quasi completamente all'olio di palma, sempre più richiesto un po' in tutto il mondo. Ricordo che Domenico, un cuoco friulano conosciuto tempo fa in Vietnam, mi spiegava che anche nei ristoranti italiani è ormai un prodotto molto utilizzato.
La sera passeggio tra gli edifici rossi dell'epoca coloniale. Speravo invano che a quell'ora tarda la chiesa, il palazzo del governatore, la porta di Santiago si scrollassero di dosso quell'atmosfera da museo che li avvolge durante il giorno. Di notte, con le porte chiuse, senza i bigliettai, senza i turisti alcuni posti offrono un viaggio indietro nel tempo. È il caso di Hoi An, in Vietnam, che di notte ridiventa Faifo, antico centro nevralgico dei commerci tra portogesi, cinesi, olandesi e giapponesi. Con le case dei mercanti che non sembrano i negozi di souvenirs in cui sono state convertite. E il bel ponte in legno costruito dai giapponesi che non fa da sfondo alle foto delle coppiette di turisti.
Faifo e Malacca al culmine del loro splendore erano contemporanee, anche per questo nutrivo la speranza di rivivere le emozioni di quelle passeggiate notturne. Purtroppo non accade: da un vicino bar arrivano le note stonate di un musicista da quattro soldi. Poi, improvvisamente, la piazza centrale viene invasa da un nugolo di rickshaw rumorosi e inghirlandati di fiori variopinti che portano a spasso un gruppo di cinesi dall'aria stordita.

Mi arrendo e mi incammino verso l'albergo. A metà strada mi si avvicina un'auto guidata da un cinese del posto che vuol fare conversazione. Fa molta propaganda gratuita e banale al suo paese ma mi lascia con un pensiero su cui riflettere. Gli abitanti di Singapore, a differenza dei malesiani, non possono investire i loro risparmi in terreni o case. Perciò spendono, spendono, spendono e basta...
L'albergo in cui alloggio è gestito da una famiglia di eurasiatici. «Il mio nome è Franco, sono un "portoghese locale". Parlo portoghese». L'ultima precisazione anticipa la domanda che probabilmente tutti gli rivolgerebbero. Potrebbe sembrare un malay ma alcuni tratti del volto sono effettivamente europei. Ancor più quelli di un suo amico con cui parla portoghese. «È una versione antica della lingua. Quella moderna la capisco a malapena». Mi racconta che "portoghesi" a Malacca e dintorni sono circa 2000.