venerdì 22 ottobre 2010

Il rubinetto - Birmania

Photo by malla_mi (CC)
L'ultima cena a Pagan si è tenuta in un ristorantino affacciato su una strada sterrata, nell'area turistica. Pochi clienti, niente apostoli, soltanto qualche compagno di viaggio conosciuto di recente. Ma un Giuda birmano nascosto in cucina mi aveva già tradito.
Per fortuna la corriera si ferma in una rudimentale stazione di servizio, qualche altro chilometro e non ce l'avrei fatta. I passeggeri scendono con calma, si accendono le sigarette, stiracchiano la schiena, comprano qualcosa al bar. Io scivolo in posizione da discesa libera verso il bagno nel retro. Chiudo la porta in fretta, armeggiando impaziente con il chiavistello arrugginito. Mi strappo di dosso i pantaloni, squarcio i boxer e mi acquatto sulla turca. Osservo il legno della porta davanti a me, le grosse venature e i solchi levigati dagli anni: assomiglia alle porte delle stalle che vedevo da piccolo durante le settimane estive di villeggiatura nell'appennino calabro-lucano. Pensieri estemporanei da posizione scomoda. La distrazione è interrotta da un suono: come acqua che sgorga da un rubinetto e cade in un contenitore capiente o molto profondo, producendo un suono echeggiante. In effetti un rubinetto c'è: è quello che si usa per riempire il secchio dell'acqua con cui ci si pulisce e si "tira" lo sciacquone. Ma è chiuso, e sorprendentemente con ottima tenuta: di liquido non ne esce nemmeno una goccia. Che strano. Do un'occhiata rapida attorno ma non ne vedo altri, fino a quando una sensazione lieve dalle parti del fondoschiena mi fa venire un dubbio sorprendente: eccheccappio...il rubinetto sono io! La diarrea è talmente liquida e omogenea che faccio davvero fatica a sentirla uscire. Il flusso continua ancora per un po', dandomi l'impressione di essere un otre in pressione a cui è stata aperta la valvola. Poi - all'improvviso, senza prima diminuire di portata - si ferma. Quando mi alzo do un'occhiata alla porcellana su cui praticamente non è rimasta traccia.
Quando esco i conducenti hanno finito di riparare un guasto al mezzo (ce ne saranno vari prima dell'arrivo a Rangoon, per la disperazione di tutti i passeggeri stranieri, tranne me, per ovvi motivi di tornaconto personale).
Facciamo altre due soste a causa di qualche nuovo danno e io puntualmente apro il rubinetto e do sfogo alla pressione che mi gonfia la pancia.
La crisi successiva sfortunatamente non coincide con un problema all'autobus. Io tengo duro, stringo i denti, come dice il manuale del viaggiatore mai scritto, ma dopo un po' non ce la faccio più. Chiedo all'autista se si può fermare. Questi non capisce l'inglese ma un monaco di mezza età mi viene in aiuto. In un paese di devoti buddhisti come questo il suo intervento è perentorio e l'autobus viene così parcheggiato al bordo della strada. La folla si disperde su di un prato ombreggiato dalle fronde brillanti di alberi tropicali enormi. Mentre tutti cercano un tronco o un cespuglio per fare pipì, io mi infilo in un angolo nascosto e riapro la valvola. Sono diventato una celebrità tra i passeggeri, che mi hanno osservato mentre chiacchieravo con il monaco. Durante il tragitto mi consiglia di stare attento a quel che mangio. Mi si avvicina anche un uomo d'affari thailandese che bisbigliando per non farsi riconoscere - i siamesi, pur essendo passati secoli dalle devastanti invasioni birmane, sono ancora molto diffidenti - mi confida che certi ristoranti da queste parti hanno condizioni igieniche pessime, come se questo fosse un segreto.
A metà del viaggio - che durerà quasi dieci ore più del previsto - all'improvviso sto bene. Riesco persino a dormire, svegliandomi nel cuore della notte quando siamo di nuovo fermi e l'autista sta prendendo a martellate qualche pezzo di metallo. I birmani subiscono in religioso silenzio, gli altri turisti si svegliano e sbuffano. Finalmente posso concentrarmi su questi particolari senza che ogni cinque minuti le mie viscere mi strattonino l'attenzione: mi giro verso il finestrino, osservo la luna che illumina le risaie, le palme e lo squallore della stazione di servizio, appoggio la fronte oleosa sul vetro, lo appanno con un lungo sospiro e poi, senza farmi sentire, comincio a ridacchiare con grande gusto.

Birmania, settembre 2002

Questo pezzo fa parte della Saga della sciolta, gli altri episodi li potete trovare qui

domenica 3 ottobre 2010

È qui, con noi, tutto questo - Laos settentrionale

La Piana delle Giare è già alle nostre spalle. Il tragitto da Phonsavan alla direttrice Vientian-Luang Prabang a ovest dura parecchie ore. La distanza in realtà è breve: più o meno cento chilometri, ma per percorrerli l'autobus coreano ci metterà una giornata. Queste strade non sono ancora state asfaltate, sono fatte di un'argilla che con la pioggia diventa paludosa e si snodano a curve e tornanti attorno alla catena montuosa che increspa il corpo del paese. La carreggiata è molto stretta, come una normale corsia che però deve accomodare due sensi di marcia. Guardando fuori dai finestrini, a un lato lo sguardo si scontra con la parete scoscesa di un monte scavato, all'altro spazia attraverso il paesaggio che sovrasta un burrone ripido e profondo. Non ci sono protezioni e sembra che il terriccio possa cedere in qualsiasi momento. Quando incrociamo un altro veicolo l'autobus è costretto a procedere sul bordo della strada, con le ruote che giocano pericolosamente tra il ciglio e il vuoto. Spesso i passeggeri, un po' per sgranchirsi le gambe e un po' per la fifa dovuta alle manovre di equilibrismo, preferiscono scendere dal mezzo. L'autobus a volte procede talmente lentamente che è possibile seguirlo a piedi con un'andatura normale.
Il corridoio è intasato: sacchi, borse, ceste e scatole stanno accatastate sul pavimento. Io siedo in fondo e sto pensando che percorrerlo tutto è come avanzare sulle pietre del letto di un torrente in salita. Do un'occhiata attorno, poi apro il finestrino, mi arrampico e salto fuori. Dobbiamo procedere affiancando una fila di auto, scavatrici, camion: l'ingorgo durerà molto a lungo. Assieme agli altri passeggeri cammino su una sorta di sentiero che corre sul fianco del monte, a un metro dalla strada. Si chiacchiera, si passeggia e si osserva.
L'autista guida la corriera a bordo della quale sono rimasti pochi anziani e qualche donna. Gira il volante con cautela, sfiora gli altri mezzi, sfrutta gli spazi angusti tra metallo, terra e scarpata, facendo scivolare l'autobus come un'anguilla tra gli scogli. Si destreggia tra le difficoltà del percorso senza lamentarsi o fare smorfie, mentre mangia un cetriolo senza affettarlo, come se fosse una banana. Gli altri passeggeri avanzano lungo il sentiero con lo stesso tipo di fatalismo. Il cielo è brillante, bisogna abituare gli occhi per osservarlo dritto al cuore. Anche le nuvole sono di un grigio quasi fluorescente. Il paesaggio aiuta a combattere la noia, che comunque è - e dev'essere -  presente come eccipiente nella composizione del viaggio. 
Luang Prabang è ancora lontana, ma il Laos è anche qui, è con noi, è tutto questo. 

Laos settentrionale, dicembre 2001

martedì 28 settembre 2010

Ciò che fa la differenza - Angkor, Cambogia

Angkor Roads, di Un rosarino en Vietnam
60 dollari per un pass di una settimana. Una mazzata, beh almeno per uno che vorrebbe stirare la coperta del suo budget - modesto - su un letto di viaggi lungo due o tre anni. D'altronde non mi andava di visitare Angkor come fa la maggior parte dei turisti che ho incontrato. Uno, due o tre giorni e via. Sveglia all'alba, di corsa da una collina a un tempio, ansimando da una baracca a un monumento, ritorno a ora di cena con i ricordi confusi: dov'erano le radici degli alberi secolari che avviluppavano le mura e le statue? E i bassorilievi? Ma il tempio delle teste a quattro facce come si chiamava: Wat...Wat...Wat qualcosa...
Ecco, io l'esperienza del "Wat qualcosa" la lascio a qualcun altro. Il pass di una settimana mi permette di prendermela comoda - che tra l'altro è uno dei miei hobby preferiti. Di vedere i templi all'alba oggi e al tramonto domani. Concentrarmi soltanto su Angkor Wat un giorno, sul Bayon e il Ta Phrom un altro, sui circuiti dei templi minori in seguito. Tranquillo, rilassato o come dicono qui ...easy. Passando la mattina o il pomeriggio in guest house a leggere, studiare e programmare la prossima visita. O nel centro coloniale di Siem Reap a fare foto, scribacchiare, sbirciare, spiluccare, curiosare, chiacchierare, perdermi, osservare, fantasticare - che guarda caso sono gli altri miei hobby preferiti.
A dire il vero metterò in atto questa tattica soltanto al terzo-quarto giorno. All'inizio il fascino di Angkor si impossesserà di me e, vittima di un'irrefrenabile ingordigia di esperienza e atmosfera, anch'io mi immergerò per ore nella polvere e il caldo che soffocano questo posto. Il primo giorno seguo il procedimento standard: noleggio un motorino con pilota che mi deposita ai templi e mi riprende quando ho terminato. Ho l'impressione di essere un bagaglio con braccia, gambe, cappello e macchina fotografica, carente di cervello e totalmente privo di carattere. Alla fine della giornata mi sento a disagio: ho fatto un'indigestione di nozioni, senza il condimento di esperienza. 
La sera incontro un backpacker giapponese, bardato in maniera classica: occhiali da sole e asciugamano bianco avvolto in testa. Lo chiamerò Akira, in onore di un lungometraggio di animazione che mi affascinò anni or sono. Akira visita i templi in bicicletta. La noleggia in città, percorre di buon mattino il tratto di strada che porta al sito e poi si aggira tra i templi pedalando.
"Ma che differenza fa?"
"Prova e poi mi dici!"
"Allora domattina vengo con te..."
La bicicletta ovviamente costa meno del motorino, buone notizie per i miei risparmi. Sono fuori forma e il mezzo non è certo di quelli che si usano al Tour de France, così sono costretto a procedere piuttosto lentamente. Akira però ha ragione, rispetto al motorino è tutta un'altra cosa. Non me lo sarei aspettato ma ciò che fa la differenza è il sonoro. È come se mi trovassi in un vecchio studio di registrazione e un tecnico avesse abbassato la leva che opera sulla frequenza del motore, alzando le altre. E così ascolto gli uccellini che cinguettano, i bambini che giocano, un signore che sega un pezzo di legno dietro casa, un cane che abbaia alle talpe. Angkor, in pieno stile orientale, è un sito archeologico attorno al quale la gente continua a vivere, con abitazioni, piccoli negozi, scuole. È un'atmosfera magica che senza l'aiuto dei suoni mi sarei completamente perso. Ci metto molto per raggiungere ogni tempio, ma il tragitto è tutt'altro che noioso. Ho il tempo per osservare la vegetazione, la fauna, la vita, i colori, le sfumature. A volte sprofondo in questa nuova Angkor, in questa sua atmosfera ipnotica, a tal punto da non fare in tempo a riemergere prima di raggiungere un tempio, e proseguo quindi per quello successivo. 
Ritorno a Siem Reap in serata. Mi guardo allo specchio: è come se avessi attraversato il Sahara a piedi. Sono imbrattato alla stregua di un ridicolo spazzacamino delle fiabe. Invece di fuliggine la coltre che ho addosso è fatta di polvere di sterrato cementata dal sudore. La maglietta, che normalmente metterei in lavatrice, è irrecuperabile: me la tolgo e la getto direttamente nell'immondizia. La doccia dura quasi mezzora e devo grattare energicamente per rimuovere la crosta che mi avvolge.
Da domani niente più spedizioni di un giorno intero. Mi godrò i templi due o tre ore per volta. Ma la bicicletta, quella trovata semplice e geniale che devo ad Akira, non me la toglie più nessuno.

Angkor, Cambogia, marzo 2002

martedì 21 settembre 2010

Una nuova stirpe di samurai - Mae Hong Son, Thailandia

Ponte giapponese, Pai, di Fabio
È il settembre del 2001. Sono crollate da poco le Torri Gemelle e da poco è crollata anche la mia prospettiva di una carriera solida, un posto fisso, le promozioni, lo stipendio assicurato, la pensione alla fine, gli annessi e i connessi. Crollata nel senso che l'ho abbattuta io, non che se ne sia venuta giù da sola o che qualcun altro mi abbia dato una mano a demolirla. 
Ma non divaghiamo. È il settembre del 2001, dicevamo. Sono sbarcato in Asia da poco, deciso a visitarne la fetta più grande possibile prima di terminare i risparmi. La strada che collega Chiang Mai e Pai è lo stesso tracciato tortuoso e sottile segnato tra i monti e le valli della provincia di Mae Hong Son dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Pai sta cominciando a svilupparsi: ci sono varie guest house, qualche agenzia che organizza trekking e noleggia biciclette, dei ristorantini e un paio di bar con dei cowboy siamesi che suonano country e folk dal vivo. Le ondate di turisti thai cominceranno a inondare il paesino fra qualche anno, per ora arrivano soltanto poche decine di giovanotti stranieri al giorno. E lo fanno a bordo di uno sgangheratissimo micro-autobus costruito su misura per nani bambini, sgargiante di vernice colorata e ruggine, rumoroso, rovente e pieno come un budello costipato. I minivan ad aria condizionata non percorrono ancora la tratta, men che meno i piccoli aerei che atterrano lì vicino oggigiorno. Se non hai un'auto o una moto l'autobus dei Playmobil è l'unica alternativa che ti resta. I passeggeri stranieri si mescolano con un numero sproporzionato di thai, che poi thai nel senso stretto del termine non sono visto che appartengono quasi tutti alle minoranze etniche che popolano la zona: Shan, Karen, Akha, Lisu, Lahu. Li dividono - o li uniscono - sacchi di riso, cibo, scatoloni di elettrodomestici e utensili, pollame, prodotti ittici e altri oggetti misteriosi. I sedili da un posto e un quarto ospitano di media tre o quattro passeggeri, che nel caso siano occidentali di dimensioni standard devono trovare il modo di gestire la scomoda presenza delle loro ginocchia. Altri stanno accovacciati su un panchinone incandescente che copre gli elementi meccanici del mezzo, a lato del conducente. I restanti si accalcano nel corridoio.
Cedo il posto a una signora oberata da una pesante cesta che porta in spalla come fosse la cartella di uno studente. Sorrisi e complimenti mi inondano. È popolarità a basso costo, un lusso che ti puoi permettere soltanto in situazioni del genere. Poco dopo il mezzo comincia a scoppiettare, rallenta, poi riprende, grugnisce ancora, tossisce, sussulta e a metà di un pendio piuttosto inclinato si spegne. L'autista ci dà dentro con l'accensione, il congegno di avviamento lo asseconda lanciando urla strazianti nel tentativo di svegliare il motore ma non c'è niente da fare, costui è sordo. Bisogna scendere e considerati i problemi di temperatura, spazio e olfatto nessuno degli stranieri la prende male. I locali, come spesso accade in Asia, subiscono gli eventi senza particolari cambi di espressione facciale. Dopo una mezzora però il sollievo della sosta lascia spazio a qualche sbuffo, che in pochi minuti si trasforma in irrequietezza dichiarata. Poi accade qualcosa. Passa un pick-up giapponese, l'unico turista thai presente (col senno di poi lo definirei una sorta di pioniere) lo ferma, chiede un passaggio e poi fa un cenno verso il resto della truppa. Una decina di stranieri trova posto a bordo del mezzo che pochi secondi dopo è già sparito dietro un tornante. Chi è rimasto a terra ha capito il trucco e si organizza per fermare la prossima auto. Io sono stordito da caldo e crampi e non ho ancora deciso se restare o accodarmi. Come al solito rimando e aspetto che qualcosa o qualcuno arrivi a darmi un suggerimento. L'oracolo si presenta sotto le sembianze di Makoto, un ragazzo giapponese tutto sorrisi, energia e idee chiare. Dieci secondi in sua compagnia funzionano meglio di un bottiglione di Redbull.
"Io resto, guarda come si stanno dando da fare per riparare il mezzo e portarci a Pai. Non li posso abbandonare così..."
Per un attimo non reagisco, poi la forza della frase e del proposito mi colpisce come un pugno di Mike Tyson. Penso che sarebbe bello mettersi a piangere di fronte a certe manifestazioni di umanità, ma non mi sembra la situazione più appropriata e opto quindi per un sorriso.
"Ma sì, resto anch'io! E poi che fretta c'è, mica mi stanno aspettando..."
Non ci mettono molto a riparare il guasto e nel giro di un paio d'ore siamo a Pai.
Di solito quando pensiamo agli stereotipi ci vengono subito in mente immagini negative. Italiani-furbacchioni, tedeschi-antipatici, francesi-snob, giapponesi-creduloni che fanno foto. Ecco, Makoto è l'esemplificazione di uno stereotipo del Giappone che a me invece fa impazzire. L'aderenza a un'idea, a un principio, non necessariamente politico o nazionalista ma come in questo caso di solidarietà umana, di buone maniere, di riconoscenza, di comprensione e compassione. La resistenza alla tentazione, il rifiuto della via semplice, il non campare scuse, nemmeno con se stessi. Forse è un retaggio della cultura samurai, o almeno a me piace vederla così. E il tutto condito da sorriso e positività. Ecco perché dopo i cinque secondi di sbigottimento la commozione ha provato a farmi venire gli occhi lucidi.
Il grande Makoto. Proseguiremo il viaggio assieme per qualche giorno. Sarà lui a organizzare una mini-festa per il mio compleanno in un ristorantino, coinvolgendo anche le cameriere che contribuiranno con un succulento e coreografico piatto di frutta in omaggio. E sarà lui a farmi ridere di nuovo quando tornando da una corsa al bagno di una stazione degli autobus, trafelato, ansimante, con la fronte imperlata di sudore e reggendosi la pancia mentre contorce la bocca in smorfie di sofferenza, per scusarsi del ritardo se ne uscirà con: "Sorry Fabio...it waaas an e-me-ru-gen-cyyy!"
Il Grande Makoto, stereotipo d'eccezione. Rappresentante per il sud est asiatico di una nuova stirpe di samurai.

Provincia di Mae Hong Son, Thailandia, settembre 2001

venerdì 17 settembre 2010

Turista cronista, Corriere della Sera - Viaggi

Little India, Kuala Lumpur, di Fabio
Questo post è diverso dai soliti, mi scuso subito per il cambio di stile e per il sordido intento auto-pubblicitario.
Ho partecipato a un'iniziativa del Corriere della Sera Viaggi dal titolo "Turista cronista", inviando un diario. Ci sono foto e brani tratti perlopiù da questo blog. È impaginato un po' male ma si legge lo stesso. Se vi va dateci un'occhiata e se vi piace cliccate sulle stelline in alto, sopra le foto, grazie. Lo trovate qui.

martedì 14 settembre 2010

Impantanato - Muang Ngoi, Laos

Bombe americane inesplose, di Fabio
Poggi un piede e controlli i muscoli per mantenere il corpo in equilibrio nel caso scivolassi. Ma hai fatto male i conti. Quella delle vie di Muang Ngoi è un'argilla particolare: dopo settimane di piogge monsoniche si trasforma in colla. Una miscela che qualche laboratorio chimico, se non l'hanno già fatto, dovrebbe analizzare. 
Il problema non si presenta al momento del contatto tra suola e terra, quando la poltiglia si avvinghia alla gomma della tua calzatura come il cemento quasi asciutto di un nuovo marciapiedi. L'equilibrio in quel momento è assicurato, il piede non scivola di un solo millimetro. La situazione cambia quando effettui il secondo passo e sposti il baricentro del corpo per avanzare. Avanza la testa, avanza il petto, il bacino li segue, pure la coscia e il ginocchio si muovono a rimorchio. Ma a livello della caviglia qualcosa va storto. Il primo piede è ancorato, incagliato, saldato, termofuso. Tu non ti rendi ancora conto della forza di quel legame e dai un piccolo strattone convinto di farcela, come ce l'hai fatta un po' ovunque fino ad ora, monsone o non monsone. L'unica cosa che sembra cedere è però la struttura della calzatura. È evidente che il corpo della scarpa ha più probabilità di separarsi dalla suola di quante questa ne abbia di scollarsi dalla strada. Temi il peggio. Sai che la mossa di violenza ti lascerà scalzo, quindi mantieni i nervi saldi mentre metti in atto una manovra di aggiramento, qualcosa che hai imparato tempo fa su una poltroncina da dentista: una serie di dolci movimenti circolari, nella speranza di allentare la presa prima di procedere con l'estrazione. 
La sensazione di cadere nel ridicolo te la sei già scrollata di dosso quando ti sei dato un'occhiata attorno. Di laotiani incagliati non ne vedi: o se ne stanno tutti a casa o hanno scoperto il metodo per pattinare sul mastice. Ma la strada è piena di stranieri nella tua stessa situazione. La scena ti fa pensare alla sala di un museo in cui una qualche Fata Turchina con degli abili tocchi di bacchetta ha portato in vita le statue, giocando loro però un brutto scherzo: uno dei piedi è rimasto pietrificato, saldato al piedistallo. E tutte si dimenano, impazzite per la gioia di poter finalmente muovere le membra dopo tanti secoli ma al contempo nel panico per quell'ultimo vincolo che le inchioda sul posto. 
Alla fine ce la fai, la suola si scolla, il piede si alza e finalmente muovi un passo. Ma sai che non andrai lontano, che prima o poi le cinghie del sandalo cederanno. La tua intuizione è confermata dal cimitero delle calzature che hai davanti: suole di altri sandali, ciabatte, scarpe da tennis e persino da trekking spuntano qua e là, piantate su tumuli fatti di un materiale che sembra gelato al cioccolato artigianale, ma con una consistenza e un potere adesivo mille volte più forti.
A Muang Ngoi c'ero già stato anni fa, durante la bella stagione: tutta un'altra storia. È un villaggio che si sviluppa attorno a poche strade sterrate, senza traffico, dove si arriva soltanto in barca da Nong Khiaw, un paesino poco lontano. Un piccolo paradiso, forse un po' rovinato dal turismo, che mantiene comunque la sua atmosfera. Ora è invivibile. Complesso aggirarsi tra le case costruite con le ogive delle bombe americane, impensabile andare a visitare le grotte e le colline nei dintorni. Domani ci si imbarca e si torna a Luang Prabang. 
Sfruttando dei sentieri erbosi e procedendo spesso a piedi scalzi arrivo a un tempietto: dei pulcini razzolano nel cortile e in un angolo c'è una campana-gong costruita con i resti di un ordigno. Incontro dei simpatici bolognesi che dopo un paio di chiacchiere mi convincono a restare un altro giorno. Ma sì, pensandoci bene in buona compagnia questo posto non è così male.
La mattina dopo mi sveglio e vado a cercarli per fare colazione. Hanno già fatto il check-out. Mi guardo attorno e vedo solo nuvole plumbee, foglie grondanti di pioggia e una distesa infinita di fango a presa rapida. Mi sforzo ma non riesco proprio a ricordare quale fosse il lato positivo che riuscivo a vederci ieri sera. 
La prossima barca parte domattina, mi toccherà restare qui un altro giorno, impantanato in tutti i sensi, in compagnia di un libro e una brocca di caffè, mentre i bolognesi che mi hanno convinto a restare se la spassano tra i comfort e l'atmosfera franco-coloniale di Luang Prabang.  
Qui invece di francese mi resta soltanto un detto vagamente beffardo: c'est la vie!

Muang Ngoi, Laos, agosto 2007

venerdì 10 settembre 2010

La linea di demarcazione - Bangkok, Thailandia

Traffico di Bangkok-Pahonyothin Rd. in una notte di pioggia, di Fabio
Sono in autobus, in piedi, con una mano stretta attorno a un palo. Sono l'unico straniero a bordo, come sempre su questa linea. Le prime volte provavo un vago senso di imbarazzo. Ero conscio degli sguardi dei thailandesi puntati su di me, potevo quasi sentire i loro pensieri: "Ma che ci fa quel farang su questo mezzo? Perché non prende un taxi, o guida, o abita in centro?" È vero che spesso questo è ciò che qui pensano degli stranieri, ma di sicuro una leggera brezza di paranoia soffiava sui miei pensieri facendomi sentire più sguardi addosso di quelli che effettivamente mi venivano dedicati: la maggior parte dei passeggeri continuava infatti a sonnecchiare dopo una lunga giornata di lavoro, o a leggere, chiacchierare, ascoltare musica. Ora comunque i miei sensori hanno sviluppato un filtro per questo genere di sensazioni e non ci faccio quasi più caso.
Il semaforo è rosso, siamo in coda, in terza corsia. La mia fermata sta poco dopo l'incrocio ma io mi conosco bene e so che ora comincerò a fantasticare, a farmi trasportare e distrarre da una catena di pensieri, numerosi, arrugginiti e ammaccati come i suoi anelli, dimenticandomi di scendere. Mi avvicino alla porta e premo il pulsante in anticipo. La bigliettaia mi osserva e così fa anche qualcun altro, e questa volta non me lo sto immaginando. Vuoi vedere che...ma no, non può essere...poi l'autista preme un tasto e la porta si apre. Un diabolico, inaspettato esempio del principio di causa-effetto: io ho premuto il pulsante e lui ha aperto la porta. Proprio così, apposta per me. Era quello che temevo, anche se la mia mente non ha fatto in tempo a sviluppare un'immagine precisa. Normalmente uno suona il campanello per prenotare la fermata successiva, non per farsi aprire le porte seduta stante. Tra l'altro c'è scritto dappertutto che gli autobus possono raccogliere e depositare i passeggeri soltanto alle apposite fermate. Questo è un incrocio, trafficato e pericoloso. Ma io ho premuto il pulsante e il conducente ha aperto quella maledetta porta. Aspetto un secondo, magari qualcuno scende e mi cancella dalla scena come un omino in un fumetto in lavorazione. Com'era prevedibile nessuno si muove. Ora che faccio? Io scendo. Meglio che restare a bordo, abbozzare un sorriso scemo per far capire che non miravo a tanto e fare quindi la figura del babbeo. Un saltello, op-là, attenzione ai motorini e sono già sul marciapiedi, camuffato con un discreto velo di proposito e determinazione. Come a dire: "è esattamente quel che volevo fare!" 
Ora i thailandesi staranno pensando: "Ma guarda questo farang, come si destreggia bene, ha imparato a muoversi con disinvoltura tra le varie sfumature dei costumi locali." Così o con parole loro lasciamoglielo pensare. Non possono nemmeno sospettare quale sia il laido retroscena.
Vedi però, chi l'avrebbe mai detto, la linea di demarcazione tra una figuraccia da sfigato e un figurone da figo a volte può essere molto sottile!