domenica 8 luglio 2007

Kuala Lumpur - Malesia, 08 luglio 2007

Ancora sulle donne malesiane. E ancora sul mio studente iraniano-americano.
A ogni tanto sfodera dei numeri di alta scuola, che poi rovina con dei gesti dettati da quell’arroganza tipica dell’ambiente che frequenta.
Pranziamo al centro commerciale ai piedi delle Torri. Poi, prima di tornare in classe, facciamo quattro passi. Quando siamo sulle scale mobili noto una bella ragazza. Anche lei scende le scale, poco dietro a noi. La osservo sapendo bene che - come sempre - mi limiterò soltanto ad osservarla. La mia timidezza, un freno a mano tirato spesso sulle mie manovre sociali, non mi permetterà di tentare alcuna mossa d’approccio. Di certo non in queste circostanze. Se fossimo in un bar, forse. Qui di sicuro no. Me ne rendo conto e ci speculo soltando ora. Sul momento non ci faccio nemmeno caso. E’ una cosa che do per scontata.
A invece si ferma ai piedi delle scale mobili e attende. Quando la ragazza ci raggiunge lui le sorride e le chiede una stupidaggine qualsiasi, del tipo: “ Sapresti indicarmi l’uscita più vicina?”.
La ragazza si ferma, sorride, pensa, gira un paio di volte attorno ad un asse fisso. Prima in un verso, poi nell’altro. Sembra un po’ confusa. Poi indica qualcosa, in maniera non molto convinta. Muove due passi insicuri. A sorride, prima la segue e poi, continuando a camminare con passo deciso e distraendola dicendo qualcosa, la convince ad incamminarsi assieme a noi.
“Ma davvero non sai trovare l’uscita? Ma sei sicura di essere di qui? Di Kuala Lumpur?”. E ride. La ragazza sorride imbarazzata e si difende. Certo che è di qui.
Arrivati nei pressi di un’uscita la ragazza si ferma e la indica con sollievo, certa di essere finalmente riuscita a liberarsi di noi. Cioè di A, io sinceramente non l’ho disturbata affatto.
Invece A non molla. Ovviamente non molla. Mica era interessato a trovare l’uscita. Solo uno come me si arrenderebbe proprio ora, sempre che fossi riuscito ad arrivare fino a questo punto.
Inizia cercando di metterla a proprio agio.
“Ma lavori qui per caso? Cioè qui a KLCC?”.
La ragazza non si aspettava questo approccio insistito. E’ decisamente sotto shock. Non riesce nemmeno a trovare le parole per una risposta così semplice. Credo di ricordare che abbia persino cominciato a balbettare.
“Non è che ti andrebbe di bere qualcosa con me stasera? O qualche altra volta?”.
A utilizza un tono molto rilassato e suadente. Non lascia mai andare la presa su quel suo sorriso ruffiano. Parla lentamente, ma senza pause troppo lunghe. Spinge le vocali in avanti e verso l’alto, lungo una traiettoria iperbolica. Una tecnica rassicurante. In avanti e verso l’alto è una direzione che tende sempre a rassicurare. Io almeno sarei rassicurato.
Ma la ragazza no. E’ imbarazzata al punto dell’imbambolamento.
“Se vuoi puoi darmi il tuo numero di telefono”. E il cellulare sta già tra le sue dita, pronto per l’inserimento delle cifre.
La ragazza non risponde nemmeno più alle sue domande. Respira a fondo. Il suo petto si muove vistosamente dal basso verso l’alto. Guarda dappertutto, pur di evitare lo sguardo di A. La sua testa si muove a scatti, a destra e a sinistra, come quella di un gufo. Ci manca solo che la palpebra a tendina si abbassi su uno di quei suoi begli occhietti neri.
A la incalza. Ma sempre con un certo tatto. Devo ammettere che ci sa proprio fare. Non riuscirei nemmeno ad immaginare un modo di fare o delle frasi migliori di quelle che sta utilizzando lui.
Lei mi guarda. E mi rivolge un sorriso che è più che altro una supplica. Come se io fossi un amico o un familiare che può aiutarla in questo impiccio. Io le faccio capire che non deve guardare me, e che può rispondere come meglio crede alle proposte di A.
A ora gioca a carte scoperte.
“Io in realtà sapevo benissimo dov’era l’uscita. Volevo solo provare a parlare con te perché mi sembri una ragazza molto carina”.
Alla fine la ragazza gli detta il numero di telefono. La mossa più azzeccata per levarselo di torno. E A crede di avercela fatta. Non ha capito nulla. Ci saranno anche i grattacieli e le metropolitane su monorotaia, ma questo è l'oriente, non New York.
Una volta tornati al nostro edificio, A le invierà vari messaggi a cui lei risponderà con la solita cortesia. Ma ovviamente non riuscirà mai ad incontrarla.
Ne fa come al suo solito una questione d’orgoglio. E finirà per mandarle un paio di messaggi finali, dal tono definitivo. Molto aggressivi e permalosi. Come se fosse stata lei ad importunarlo.
Forse siamo tutti un po’ come A, o almeno forse lo sono io. Ma non tutti per proteggere il nostro orgoglio adottiamo le stesse tattiche. Io non riuscirei mai a ricevere un rifiuto continuando a credere di aver azzeccato tutte le mosse. Comincerei a trovare degli errori nel mio comportamento. Incolperei anche e soprattutto me stesso, non soltanto la ragazza.
Per questo mi metto al riparo lasciando quel freno a mano tirato per la maggior parte del tragitto.

lunedì 2 luglio 2007

Kuala Lumpur - Malesia, 02 luglio 2007

Come sembrano lontani i giorni di Kunming, trascorsi tra caffè e tempo da buttare, speculazioni su temi qualunque e passegiate notturne.
Sono venuto in Malesia per insegnare uno dei miei vecchi corsi. Anzi due. Uno diurno e uno serale. Quest’ultimo mi tiene impegnato fuori orario per due o tre sere alla settimana, nonché il sabato. Per fortuna mi pagano con due contratti separati.
Inevitabile, a consuntivo di due settimane trascorse a Kuala Lumpur, mettere a confronto le donne cinesi e quelle malesiane. Per farlo mi servirò degli occhi, e dei commenti, di qualcun altro.
Uno dei miei studenti è un iraniano di 44 anni, che da più di venti vive a New York.
Ha deciso di diventare un consulente, per questo segue il corso. Il lavoro nel campo degli investimenti finanziari lo ha stancato. Un tran tran stressante. Svegliarsi nel cuore della notte per vedere che succede alla borsa di Londra. Poi tornare a letto, ma soltanto per qualche ora, fino che non apre quella di Singapore.
Sostiene di aver quasi perso la vista a causa delle ore trascorse a fissare i numerini che scorrono pedantemente sullo schermo di un computer. Cosa crederà di fare quando sarà diventato un consulente informatico?
A è uno che in campo sociale ci sa fare, come si suol dire. Una persona determinata, pronta a trovare soluzioni in fretta e a non fermarsi davanti alle prime difficoltà per raggiungere gli obiettivi che si prefigge.
Qualcuno gli ha spiegato che i consulenti senior impegnati in progetti internazionali guadagnano svariate centinaia di euro al giorno, che depositati nei loro conti Lussemburghesi dopo aver fatto un giro a Cipro, sono pure esentasse. E in più spese pagate, lusso, tempo libero. Vaglielo a spiegare che probabilmente sta parlando di qualche caso isolato.
Ricevuta l’illuminazione ha deciso di certificarsi e di proporsi immediatamente come consulente esperto. Ha un amico agente che gli fornisce i contatti e qualcun altro che provvede a munirlo di referenze, lettere di presentazione e interi paragrafi di curriculum. Ovviamente tutto falso.
Come dicevo è uno che ci sa fare. Uno, per dire, che non si ferma davanti alla prima barriera costituita da una segretaria, un portiere o un buttafuori che gli dicono di tornare più tardi. Uno che racconta storie, che ha sempre la risposta pronta. Un tipo anche generoso e simpatico, tutto sommato.
E che sicuramente, a differenza di me, non sa nemmeno che significato abbia la parola “timidezza”.
Pausa pranzo. In ascensore osservo due ragazze cinesi. Malesiane-cinesi. Carine, sexy, vestite bene. Del tipo che normalmente, causa timidezza, mi limito soltanto a osservare.
Arrivati al piano terra attraversiamo la lobby chiacchierando e usciamo dall’edificio per entrare nel forno umido del mezzogiorno equatoriale. “Scusami un attimo”, mi interrompe A. Con due passi rapidi raggiunge le due ragazze che stanno camminando proprio davanti a noi.
“Lavorate qui?”. Le ragazze rispondono ma sono evidentemente imbarazzate e assumono istintivamente un atteggiamento difensivo. Notate bene, “istintivamente”. Io mi farei probabilmente da parte, sempre che avessi trovato prima il coraggio di avvicinarle. A non si scompone e continua.
“Dove andate a mangiare? Noi siamo arrivati da poco e non conosciamo la città”. Col secondo tentativo ottiene la reazione più ovvia (cioè quella che soltanto ragionando a mente fredda mi sembra la più ovvia). Le ragazze sorridono, e cominciamo a chiacchierare. Pranziamo assieme. Torniamo all’edificio e ci salutiamo. Nessuno scambio di numeri di telefono. A è convinto che si tratti di una tattica vincente, che non mancherà di suscitare la loro curiosità. Io sono perplesso, non so se la sua scarsa dimestichezza con la società orientale giochi a suo vantaggio o meno. Se sono io quello che si comporta in base a un pregiudizio o se lui è un ingenuo un po’ presuntuoso che crede che tutto il mondo sia paese, cioè New York. Purtroppo finisco per dovermi dare ragione. E credetemi, in questi casi non ci tengo proprio.
A, dopo aver saltato brillantemente l’ostacolo della telefonista dell’azienda in cui lavorano le ragazze, è riuscito a lasciare un messaggio col suo numero di telefono. La più carina delle due, quella che lui aveva puntato, nonché la destinataria della sua nota, lo richiama. E per un paio di giorni A si illude che le sue sbandierate doti di psicologo abbiano fatto centro una volta ancora. E’ costretto a cambiare idea dopo tre o quattro scambi di sms.
La ragazza si dimostra sempre molto educata e a modo, ma non asseconda nemmeno una delle avance del mio studente. Il quale nel frattempo ha tentato qualsiasi cambio di modulo strategico, dal quattro-tre-tre, alla bi-zona, passando per il più moderno albero di natale. Le ha provate tutte quelle tecniche di cui si professa esperto. Una risposta breve, un po’ permalosa e avvelenata seguita da una ritirata apologetica. Poi un invito velatamente romantico e l’immediata battuta innocente a bilanciare.
Niente da fare. La ragazza ha una cena con i colleghi. “Facciamo un’altra volta?”. A la punzecchia e lei sparisce per un giorno. Lui ritorna docile come un agnello, ma la ragazza ha un impegno con alcuni familiari.
Io incontro per caso le ragazze un paio di volte, in un ristorante in cui vado spesso a pranzare. Mi invitano a sedermi con loro. I primi minuti trascorrono tra tra un paio di battute da mestierante e qualche silenzio imbarazzato (più che altro da parte mia). Poi loro cominciano a parlare in cinese e io mi sorprendo a intervalli regolari a contemplare sovrappensiero la skyline di Kuala Lumpur, o le fontane coi giochi d’acqua delle Torri Petronas. Alla fine attendo soltanto che loro si alzino per tornare al lavoro, così potrò estrarre dalla borsa il mio romanzo, ordinare un flat white con due biscottini, e godermi l’unico pomeriggio all’aria aperta della mia settimana malesiana. Meglio stare in compagnia silenziosa di se stessi a un tavolo da uno, che sentirsi soli e osservati, seduti a una tavolata di estranei. Suonerà come (e sarà pure) la consolazione di un “loser”, ma è esattamente così che mi sento in circostanze come queste.
Passiamo al secondo tentativo. Come dicevo il mio studente è una persona coriacea. Una sera A ed io siamo andati a mangiare un panino e bere un paio di birre dopo la fine della lezione. Nel disco-bar una banda di Tanzanesi suonava qualche famoso motivo in inglese e spagnolo. Era lunedì ma il locale era comunque pieno di gente giovane. A ha incontrato una ragazza di qui. Hanno ballato. Lui ci ha provato, lei gli ha dato corda, ma fino a un certo punto. Poi ha deciso di tornare a casa. A, memore del fallimento della tecnica utilizzata in precedenza, le ha chiesto il numero di telefono. Lei gli ha allungato un biglietto da visita, come avrebbe potuto fare un rappresentante di mobili da ufficio. A ha intascato il biglietto. Io avevo appena estratto dalla tasca dei pantaloni il pacchetto delle mie mentine preferite. Forti, verdi, piccole e piatte. La scatola è un rettangolino bianco, della dimensione di una carta di credito, soltanto un po’ più spessa. La ragazza mi porge le mani a conca, dove io faccio cadere un paio di mentine, e mi consegna con cortesia un suo biglietto da visita. Rimane un po’ sorpresa, con le mentine in mano, poi se le mette in bocca e mi sorride. Credeva che il bianco contenitore di plastica fosse il mio biglietto da visita.
Da queste parti hanno digerito a loro modo la ricetta occidentale del progresso. Persino un incontro in discoteca segue i dettami e i formalismi di un “meeting d’affari”.
A ha cercato inutilmente di contattare anche questa ragazza.
“Con questa vedrai che ci divertiremo. Assicurato, credimi”. Con l’uso della prima persona plurale probabilmente intendeva “io e lei”, non “io e te”.
La donna per un paio di volte ha fatto rispondere la segretaria o una collega dell’azienda in cui lavora. Ma abbiamo già detto che davanti a ostacoli del genere A non si arrende mai. Quando è riuscito finalmente a parlare con lei è cominciato il solito gioco del lavoro ai fianchi. Non i fianchi di lei, quelli di A. Mai una frase di troppo, mai un rifiuto netto. Giri di parole, appuntamenti annullati o rimandati, e tante tante scuse.
Ma non è finita qui. Entro la fine della prima settimana del corso, al centro commerciale delle Torri Petronas, A ci riprova. Avvicina una donna molto elegante. Camicetta bianca, scarpe di marca con tacchi alti, minuscola borsa del portatile, luccicanti monili e gioielli costosi. Pelle curata e liscia del color del Sahara, e capelli ondulati. A l’aggancia con la solita scusa dei pivelli appena sbarcati in città con la diligenza arrivata in mattinata. Alla ricerca di un saloon accogliente dove mangiare una bistecca alta tre dita e il miglior piatto di fagioli “in town”. Ma chi glielo fa fare a continuare così?
Pur di scrollarselo di dosso la donna fa di tutto per apparire cordiale e disposta a risentirlo.
E a tal proposito che cosa decide di fare? Ma ovvio: gli consegna un elegante biglietto da visita, di quelli con i caratteri luccicanti stampati in rilievo su un sottile cartoncino patinato. Firmato Cisco, project manager.
Per non essere fraintesa, rischiando invece di essere fraintesa due volte, ne consegna uno pure a me. Purtroppo in serata deve tornare a Singapore, bisognerà quindi rimandare l’immaginario seguito della storia a dopo il fine settimana. Ma è come se A l’avesse azzannata alla caviglia, e non la lascia andare facilmente. Si volta verso di me e mi rivolge un sorriso che sotto la maschera della sorpresa cerca soltanto di rosicchiare secondi. Nella mia mente lo immagino che mi dice: “Hai capito Fabi? Ma pensa te...”. Poi lo sento completare dal vivo la frase con uno squillante: “...Cisco!”. E mi continua a fissare mentre annuisce lentamente e in maniera studiata, con quel suo sorrisetto furbo e gli occhi strizzati a tre quarti. Io mi accorgo della tensione innaturale sulla pelle attorno alle mie labbra, mi specchio istintivamente tra me e me, e vedo chiaramente la mia faccetta da babbeo. Non solo non sono versato negli approcci di questo tipo, al centro commerciale. Ma non me la cavo nemmeno a posare come spalla per chi ci sa fare. Mi affretto a cancellare quel sorriso ebete dal mio volto, cambiando espressione. E in silenzio cerco di comunicare ad A che è meglio se si arrangia da sé.
Quando è convinto di aver lasciato un segno indelebile sulla memoria della donna, che con più di metà del corpo ormai già da un pezzo si è preparata a incamminarsi, si decide a lasciarla andare.
Dal lunedì seguente comincia la solita sequenza di tentativi che si susseguono con un grado sempre crescente di disperazione. E di delusioni scottanti. Dal progressivo deteriorarsi del tono usato negli sms, fino allo strappo finale. Mi riferisco ovviamente allo strappo del biglietto da visita, finito in pezzettini finissimi nell’elegante cestino delle immondizie che posa discreto in un angolo dell’appartamento executive in cui alloggia A, all’Ascot di Kuala Lumpur.
A questo punto A sbotta. All’inizio se la prende con i formalismi inutili. “Che sono ‘ste cazzate professionali? I biglietti da visita, le segretarie che rispondono al telefono, le maniere da bon-ton. Io vivo in America, so cosa significha comportarsi in maniera professionale. Tutte queste stronzate non hanno alcun senso se poi il fine ultimo è quello di evitare ipocritamente chi cerca di mettersi in contatto con te”. Infine si spinge anche oltre.
Si trova in un locale esclusivo all’interno di un lussuoso hotel. La sua mano entra accidentalmente in contatto con quella di una ragazza mentre entrambi stanno ballando. Questa si ritrae seccata e gli rivolge un’occhiataccia. “Ma che cazzo vuole questa? Siamo in una pista da ballo o no? Mica l’ho fatto apposta. E poi chi lo dice se sono stato io a urtarla o lei a urtare me?”. Ha ormai completamente perso l’ottimismo che accompagnava i suoi tentativi di socializzare con le ragazze malesiane durante la sua prima settimana a Kuala Lumpur.
In un certo senso lo capisco. Ho provato anch’io spesso lo stesso fastidio quando ad esempio una ragazza, soltanto perché il tuo sguardo ha incrociato il suo e vi si è soffermato per più dell’occasionale attimo, si è ritratta come se le si fosse parato davanti un grizzly arrapato. Rivolgendoti poi lo sguardo schifato di chi ha appena stretto la mano a un tizio che l’aveva prima immersa in un bidone di catarro. Ci si arrabbia, e spesso si resta pure senza parole, increduli e incapaci di pretendere almeno un civico rispetto.
La Malesia, se osservata attraverso il filtro della sua popolazione femminile, appare soltanto come una versione più sofisticata e falsamente progredita della Cina. Bisogna capire che, sia qui che lì, per comunicare un rifiuto non si dice mai chiaramente di no. Soltanto i metodi sono in apparenza diversi.
In Cina la rubrica telefonica si riempie ogni mese di decine di numeri. In Malesia è invece il portafoglio a gonfiarsi sotto la pressione di variopinti biglietti da visita. Gli uni e gli altri non porteranno nella maggior parte dei casi a stabilire alcuna relazione duratura. Sono soltanto una versione un po’ ipocrita di un messaggio d’addio.
Alla fine, quando si cercano di comprendere le dinamiche sociali di un posto alieno basta soltanto imparare a interpretare dei segnali. Purtroppo però, in questo compito apparentemente semplice, né dizionari né frasari vi saranno d’aiuto alcuno.

giovedì 14 giugno 2007

Kunming - Cina, 14 giugno 2007

Percorro nel silenzio il marciapiedi di Wen Lin Jie, mentre strada, cielo, e osteria ambulante, passano attraverso diverse gradazioni di grigio, sempre più chiare. Il marciapiedi è sporco, ci sono tutti i rifiuti, gli sputi e gli altri fluidi di un giorno e di una notte cinesi. Gli spazzini non sono ancora passati a pulirlo. E’ presto ancora, le sei e qualcosa, di mattina. Non sono uscito per una corsetta prima della colazione. Sto rientrando a casa. La mia giornata finisce qui, mentre comincia quella di chi si siede sugli sgabellini del ristorante ambulante per mangiare focacce e frittate cinesi.
Faccio spesso mattina, quando non ho nulla da fare il giorno dopo. Non che la notte la trascorra sempre facendo qualcosa di molto interessante. E’ più che altro una questione di atmosfera.
C’è però qualcosa di vagamente oltraggioso in questi rientri all’alba, o anche più tardi.
Passare di fianco a questo signore di mezza età, che prepara il fuoco e sistema un tavolino con tre sgabelli, su cui serve la colazione a chi si sveglia presto per andare a lavorare. Osservare dalla finestra della mia camera, mentre mi spoglio, gli anziani che fanno esercizio sulle rive del lago. Ascoltare poi, mentre sto già sdraiato a letto, il plotone di soldati che corrono, sbattendo la suola del destro e cantando un coretto. E il frastuono, come una cascata d’acqua modificata dal Doppler, di un carrello spinto da un venditore diretto al mercato. Sedato dal mantra ipnotico del megafono di un arrotino, che si intreccia alla voce metallica che annuncia la prossima fermata dell’autobus mattiniero.
Sarà il fatto di essere stato educato da genitori che, come tutta questa gente, si svegliano molto presto per andare a lavorare. Sarà. Ma devo ammetterlo, mi sento molto fortunato, e un po’ in colpa.

martedì 12 giugno 2007

Kunming - Cina, 12 giugno 2007

La storia tra A e J, la ragazza che gli procurava il lavoro da insegnante di inglese, ha avuto un seguito. Un triste seguito.
Riassunto delle puntate precedenti. J, quando già si frequentavano da un mese, svelò il suo segreto ad A. Ha un bimbo di tre anni. Il padre vive con lei. Lei non lo ama, e non ha accettato di sposarlo. Ha capito (e con che poteri di preveggenza!) che non era la persona giusta quando ancora era incinta. Decise comunque di tenere il bambino, ma non il fidanzato. Lui invece è pazzamente (aggettivo purtroppo estremamente appropriato) innamorato di lei. Ufficialmente vivono assieme per il bene del bambino. Perché cresca accanto ad entrambi i genitori. In pratica invece il bimbo è soltanto un pretesto. A volte sembra che del suo bene ai genitori non interessi poi molto. Già, pure a J, proprio lei che ha fatto di tutto per averlo. Soltanto a volte, è vero, ma purtroppo questa impressione la dà. Anche se, come cercherò di spiegare a breve, non è facile biasimarla.
Il motivo per cui hanno vissuto assieme tutti questi anni è quello di mantenere una specie di tregua. L’uomo, oltre ad essere innamorato, geloso e possessivo, è anche molto aggressivo e violento. Fino a che J se lo tiene in casa le esplosioni di rabbia di lui si limitano a qualche focosa sgridata e ad uno stressante interrogatorio, con l’aggiunta di un occasionale schiaffo, quando lei torna tardi la sera senza una spiegazione convincente.
La relazione tra J e A ha inevitabilmente fatto precipitare la situazione. J ha trascorso spesso la notte fuori casa. Molte volte lui non riusciva a rintracciarla nemmeno in ufficio, poichè J, essendo una dirigente, può assentarsi un po’ quando vuole senza problemi e senza spiegazioni.
In questi casi al suo ritorno allo schiaffo sono andati accodandosi spinte, pugni e mazzuolate varie. J ha provato a presentarsi alla polizia per spiegare la situazione, portando come prova i lividi sul volto o sul corpo. Gli altrimenti zelanti Ponzi Pilati della pubblica sicurezza cinese le hanno dato qualche generico consiglio, ma nulla più.
A spesso le ha offerto protezione invitandola a casa. Ma J, soprattutto a causa del bimbo, non può restare lontana dal suo appartamento troppo a lungo.
Per fortuna questa ragazza problemi di natura finanziaria almeno non ne ha. Ha deciso di affittare un nuovo alloggio e di trasferirvisi, ovviamente senza avvisare l’ex compagno.
Questa si è però rivelata soltanto una soluzione a breve termine. Il segugio infatti è riuscito a rintracciarla e l’ha convinta, con le buone e le cattive, a riprenderselo in casa. Inoltre è riuscito a procurarsi i numeri di telefono di A e dei colleghi di J, che ha cominciato a tempestare di domande indiscrete e di minacce.
Da questo punto in poi la vicenda è entrata in un loop in cui la stessa sequenza di eventi si ripete ad oltranza, saltando dalla fine di un ciclo all’inizio di quello successivo come un DVD rigato. Fino a che qualcuno non dà uno scossone al lettore.
J che sparisce per ore, l’ex che si lancia in una ricerca ossessiva, lei che torna la mattina campando scuse a cui lui non crede, lui che la riceve con pugni e calci, lei che cerca rifugio piangendo tra le braccia degli amici più fidati, lui che perserguita anche questi ultimi. A ripetizione, fino a che qualcuno dà finalmente lo scossone al lettore DVD, facendo uscire la storia dal loop, saltando un paio di scene incise sull’area del disco interessata dallo striscio.
Ecco lo scossone: un gruppo di ragazzi stranieri, capitanati da uno degli insegnanti della scuola di J, la raggiunge a casa, fa cerchio attorno a lei e costringe l’ex a farla finita e a cercarsi un altro alloggio. A saggiamente non è stato invitato. L’ex protesta ma alla fine cede. Poi ritorna, con un gruppo di amici cinesi. Sale la tensione. Se fossimo in Thailandia sarebbe già scoppiata la rissa.
Compaiono dei poliziotti. Costringono il gruppo di stranieri ad allontanarsi. Ma i cinesi sono misteriosamente autorizzati a restare. J decide si seguire i poliziotti fino alla stazione. L’ex e i suoi amici si accodano. Si accampano tutti al commissariato per alcune ore. I Ponzi Pilati cercano nuovamente di lavarsi le mani ma J questa volta non cede, e telefona anche ad un avvocato. Alla fine si giunge ad un accordo. Il ragazzo può restare nell’appartamento di J per un altro mese (chissà perché), poi dovrà andarsene, pena l’intervento delle autorità.
Il mese non è ancora trascorso. La situazione è in fase di stallo. L’ex se ne andrà senza sferrare alcun colpo di coda? Dopo aver combattuto come un leone per tutti questi anni? Tic, tic, tic, i giorni passano come i secondi di un conto alla rovescia. Presto si arriverà alla resa dei conti. Ma io e A, quando il timer segnerà lo 00.00.00, non saremo più a Kunming.


venerdì 25 maggio 2007

Guangzhou - Cina, 25 maggio 2007

Il posto che preferisco per trascorrere i pomeriggi a Guangzhou, in compagnia di un libro o del computer, è senza dubbio Shamian. Un isolotto a ridosso della sponda settentrionale del fiume delle perle. E’ come l’estensione di un’ampia ansa. Mi ricorda un po’ Gulang yu a Xiamen. Entrambe sono delle isole. Entrambe hanno un’atmosfera rilassata e coloniale. Soltanto biciclette e pedoni percorrono le deliziose stradine alberate. Ai lati bei ristoranti e caffè. E numerosi edifici antichi che hanno ospitato in passato consolati stranieri o sedi di banche e grandi corporation occidentali.
A Shamian oltre ai turisti che passeggiano e ai residenti che fanno jogging si incontrano in questo periodo numerose coppie di stranieri che spingono passeggini sui quali stanno seduti tranquilli, e spesso un po’ confusi, bambini e bambine cinesi.
Ho pensato subito a dei casi di adozione.
Il mio sospetto viene confermato quando una delle ragazze che lavorano nei negozi di souvenir mi ferma una sera per fare quattro chiacchiere. Non cerca nemmeno di vendermi qualcosa. In un ottimo inglese mi spiega che il negozio chiuderà a breve, e che non ha più voglia di lavorare. Aspetta soltanto l’orario di chiusura e si annoia un po’. Le chiedo come mai ci sono in giro tanti stranieri con bambini cinesi. Mi risponde che le pratiche di adozione dei bambini, provenienti da svariate province del paese, vengono tutte sbrigate qui a Guangzhou.
L’ufficio competente si occupa di un gruppo di famiglie per volta. Le invita tutte assieme e le fa alloggiare nello stesso hotel il tempo necessario per incontrare i bimbi e per portare a termine l’iter burocratico.
Le coppie che attualmente scorrazzano per le stradine di Shamian con i bambini da adottare alloggiano appunto tutte in un hotel dell’isola. I bimbi sembrano sempre tranquilli, non parlano l’inglese e i genitori adottivi hanno imparato qualche semplice frase in cinese per comunicare con loro.
Li ho osservati spesso mentre, in un mandarino un po’ stentato, li invitano a scendere dal passeggino e camminare, o domandano loro se hanno fame.
Dico alla ragazza che sto andando al Seven/Eleven a comprarmi qualcosa da bere. Lei mi saluta. Poi, quando ho già percorso una decina di metri, mi chiama. Mi giro, e lei sorridendo mi chiede di comprarle un gelato.
“Un gelato?”.
“Sì, alla vaniglia!”.
Forse non voleva soltanto chiacchierare. Ma un cornetto alla vaniglia non è un prezzo elevato per la curiosità che mi ha tolto.
Cornetto “Walls”: la multinazionale che si è comprata l’azienda italiana ha aggiunto il suo marchio ma saggiamente ha deciso di non cambiare il nome al famoso gelato.



mercoledì 23 maggio 2007

Guangzhou - Cina, 23 maggio 2007

Anche voi, come me, vi sorprendete spesso ad osservare a lungo alcune giovani donne? Quel tipo relativamente nuovo, al passo con i tempi.
Già, perché succede qui in Cina, a Bangkok, a Singapore. Ma mi risulta che la stessa scena la si possa osservare anche a Roma o a Londra.
Catturano il vostro sguardo quando escono dall’ufficio, e lo portano a spasso camminando affrettate e stanche verso la fermata della metropolitana, o verso il parcheggio.
Hanno un computer portatile che tengono in una borsa nera e sottile. Non la portano mai a tracolla. Stringono la maniglia con il pugno sciolto. Con il braccio sinistro teso e il gomito piegato verso l’interno. Il collo è inclinato nella direzione opposta, per fare da contrappeso, con i capelli ondulati che nascondono uno spicchio di volto. Spesso il telefonino è appoggiato all’orecchio destro, e vi discutono dentro i piani per la cena o il fine settimana.
I pantaloni o la gonna del teilleur lasciano trasparire le belle forme che seguono delle traiettorie vagamente rotonde al ritmo del passo svelto.
E voi le seguite facendo finta di niente, scordando le vostre tattiche un po’ subdole ipnotizzati dal ticchettio dei loro tacchetti.
Vorrei fare lo snob, l’anticonformista, il conservatore. Vorrei dichiarare la mia preferenza ed esaltare la bellezza delle ragazze semplici e meno moderne. Vorrei ma non ci riesco.
Il fascino che le donne esercitano su di me, al contrario di molti altri miei istinti, è flessibile, si adatta al cambiamento, corre al passo con i tempi e la globalizzazione. Va a braccetto o addirittura precorre le nuove tendenze.
Mi piacciono anche così. Moderne e accessoriate. Civette e proiettate verso il futuro, che forse immaginano diverso da quel che alla fine sarà.

lunedì 7 maggio 2007

Hua Hin - Thailandia, 07 maggio 2007

Il traghetto scivola senza rollio né beccheggio dall’isola di Koh Samui a Surat Thani. Ci troviamo nel profondo del golfo Siamese.

La barca rallenta. Sollevo la schiena appiccicosa dal sedile in finto velluto. Dal ventilatore giapponese si sviluppa l’unico cono in cui mi sono riuscito a rifugiare per sfuggire alle fauci di questo forno tropicale. Un’afa snervante. Nemmeno sul vasto ponte si riesce a trovare il sollievo di una brezza di crocera.

Il pilota manovra facendo percorrere allo scafo delle lente mezzelune di avvicinamento al legno del molo.

Una colonna di pneumatici riveste una delle travi della struttura. La gomma è sgualcita e ridotta a brandelli in vari punti. Sicuramente i copertoni vengono sostituiti con regolarità. Non riesco però a immaginare come, dal momento che il telaio in legno non fornisce vie di fuga.

Assieme ad altri passeggeri osservo dal parapetto la complessa manovra di avvicinamento. Calcolo a spanne la lunghezza dello scafo. Saranno circa quaranta metri.

La parete arrugginita del traghetto si adagia sul più malmesso dei pneumatici. La gomma viene compressa, spremuta e poi stirata. Alcuni frammenti di staccano e precipitano muti tra le piccole onde.

Facendo perno sulla colonna di legno e copertoni il traghetto si mette in linea col molo e approda. Si abbassa il portellone e le prime auto cominciano ad uscire. Sul pontile un blocco di juta e terriccio sbuffa nuvolette di polvere al passaggio di ogni veicolo. Tutto riflette il grigio del cielo. Le nuvole che lo affollano da una decina di minuti non alleviano le morse del calore.

Borse in spalla traballo sulla passarella, attraverso il pontile che cigola e percorro il corridoio coperto che ci porta al piazzale in cui risaliremo sull’autobus partito da Samui.

Passo dopo passo, senza volare, percorro a ritroso la penisola sud-est asiatica. Samui-Surat, Surat-Hua Hin, Hua Hin-Bangkok. Zig-zagando tra pomeriggio, palme, notte e baracche. Con l’acqua e la polvere sotto le scarpe. Il viaggio è noia, il viaggio è nuova linfa vitale.