venerdì 25 maggio 2007

Guangzhou - Cina, 25 maggio 2007

Il posto che preferisco per trascorrere i pomeriggi a Guangzhou, in compagnia di un libro o del computer, è senza dubbio Shamian. Un isolotto a ridosso della sponda settentrionale del fiume delle perle. E’ come l’estensione di un’ampia ansa. Mi ricorda un po’ Gulang yu a Xiamen. Entrambe sono delle isole. Entrambe hanno un’atmosfera rilassata e coloniale. Soltanto biciclette e pedoni percorrono le deliziose stradine alberate. Ai lati bei ristoranti e caffè. E numerosi edifici antichi che hanno ospitato in passato consolati stranieri o sedi di banche e grandi corporation occidentali.
A Shamian oltre ai turisti che passeggiano e ai residenti che fanno jogging si incontrano in questo periodo numerose coppie di stranieri che spingono passeggini sui quali stanno seduti tranquilli, e spesso un po’ confusi, bambini e bambine cinesi.
Ho pensato subito a dei casi di adozione.
Il mio sospetto viene confermato quando una delle ragazze che lavorano nei negozi di souvenir mi ferma una sera per fare quattro chiacchiere. Non cerca nemmeno di vendermi qualcosa. In un ottimo inglese mi spiega che il negozio chiuderà a breve, e che non ha più voglia di lavorare. Aspetta soltanto l’orario di chiusura e si annoia un po’. Le chiedo come mai ci sono in giro tanti stranieri con bambini cinesi. Mi risponde che le pratiche di adozione dei bambini, provenienti da svariate province del paese, vengono tutte sbrigate qui a Guangzhou.
L’ufficio competente si occupa di un gruppo di famiglie per volta. Le invita tutte assieme e le fa alloggiare nello stesso hotel il tempo necessario per incontrare i bimbi e per portare a termine l’iter burocratico.
Le coppie che attualmente scorrazzano per le stradine di Shamian con i bambini da adottare alloggiano appunto tutte in un hotel dell’isola. I bimbi sembrano sempre tranquilli, non parlano l’inglese e i genitori adottivi hanno imparato qualche semplice frase in cinese per comunicare con loro.
Li ho osservati spesso mentre, in un mandarino un po’ stentato, li invitano a scendere dal passeggino e camminare, o domandano loro se hanno fame.
Dico alla ragazza che sto andando al Seven/Eleven a comprarmi qualcosa da bere. Lei mi saluta. Poi, quando ho già percorso una decina di metri, mi chiama. Mi giro, e lei sorridendo mi chiede di comprarle un gelato.
“Un gelato?”.
“Sì, alla vaniglia!”.
Forse non voleva soltanto chiacchierare. Ma un cornetto alla vaniglia non è un prezzo elevato per la curiosità che mi ha tolto.
Cornetto “Walls”: la multinazionale che si è comprata l’azienda italiana ha aggiunto il suo marchio ma saggiamente ha deciso di non cambiare il nome al famoso gelato.



mercoledì 23 maggio 2007

Guangzhou - Cina, 23 maggio 2007

Anche voi, come me, vi sorprendete spesso ad osservare a lungo alcune giovani donne? Quel tipo relativamente nuovo, al passo con i tempi.
Già, perché succede qui in Cina, a Bangkok, a Singapore. Ma mi risulta che la stessa scena la si possa osservare anche a Roma o a Londra.
Catturano il vostro sguardo quando escono dall’ufficio, e lo portano a spasso camminando affrettate e stanche verso la fermata della metropolitana, o verso il parcheggio.
Hanno un computer portatile che tengono in una borsa nera e sottile. Non la portano mai a tracolla. Stringono la maniglia con il pugno sciolto. Con il braccio sinistro teso e il gomito piegato verso l’interno. Il collo è inclinato nella direzione opposta, per fare da contrappeso, con i capelli ondulati che nascondono uno spicchio di volto. Spesso il telefonino è appoggiato all’orecchio destro, e vi discutono dentro i piani per la cena o il fine settimana.
I pantaloni o la gonna del teilleur lasciano trasparire le belle forme che seguono delle traiettorie vagamente rotonde al ritmo del passo svelto.
E voi le seguite facendo finta di niente, scordando le vostre tattiche un po’ subdole ipnotizzati dal ticchettio dei loro tacchetti.
Vorrei fare lo snob, l’anticonformista, il conservatore. Vorrei dichiarare la mia preferenza ed esaltare la bellezza delle ragazze semplici e meno moderne. Vorrei ma non ci riesco.
Il fascino che le donne esercitano su di me, al contrario di molti altri miei istinti, è flessibile, si adatta al cambiamento, corre al passo con i tempi e la globalizzazione. Va a braccetto o addirittura precorre le nuove tendenze.
Mi piacciono anche così. Moderne e accessoriate. Civette e proiettate verso il futuro, che forse immaginano diverso da quel che alla fine sarà.

lunedì 7 maggio 2007

Hua Hin - Thailandia, 07 maggio 2007

Il traghetto scivola senza rollio né beccheggio dall’isola di Koh Samui a Surat Thani. Ci troviamo nel profondo del golfo Siamese.

La barca rallenta. Sollevo la schiena appiccicosa dal sedile in finto velluto. Dal ventilatore giapponese si sviluppa l’unico cono in cui mi sono riuscito a rifugiare per sfuggire alle fauci di questo forno tropicale. Un’afa snervante. Nemmeno sul vasto ponte si riesce a trovare il sollievo di una brezza di crocera.

Il pilota manovra facendo percorrere allo scafo delle lente mezzelune di avvicinamento al legno del molo.

Una colonna di pneumatici riveste una delle travi della struttura. La gomma è sgualcita e ridotta a brandelli in vari punti. Sicuramente i copertoni vengono sostituiti con regolarità. Non riesco però a immaginare come, dal momento che il telaio in legno non fornisce vie di fuga.

Assieme ad altri passeggeri osservo dal parapetto la complessa manovra di avvicinamento. Calcolo a spanne la lunghezza dello scafo. Saranno circa quaranta metri.

La parete arrugginita del traghetto si adagia sul più malmesso dei pneumatici. La gomma viene compressa, spremuta e poi stirata. Alcuni frammenti di staccano e precipitano muti tra le piccole onde.

Facendo perno sulla colonna di legno e copertoni il traghetto si mette in linea col molo e approda. Si abbassa il portellone e le prime auto cominciano ad uscire. Sul pontile un blocco di juta e terriccio sbuffa nuvolette di polvere al passaggio di ogni veicolo. Tutto riflette il grigio del cielo. Le nuvole che lo affollano da una decina di minuti non alleviano le morse del calore.

Borse in spalla traballo sulla passarella, attraverso il pontile che cigola e percorro il corridoio coperto che ci porta al piazzale in cui risaliremo sull’autobus partito da Samui.

Passo dopo passo, senza volare, percorro a ritroso la penisola sud-est asiatica. Samui-Surat, Surat-Hua Hin, Hua Hin-Bangkok. Zig-zagando tra pomeriggio, palme, notte e baracche. Con l’acqua e la polvere sotto le scarpe. Il viaggio è noia, il viaggio è nuova linfa vitale.

mercoledì 4 aprile 2007

Inglese in Cina - Kunming, Cina

Mi sto dedicando ad uno dei miei passatempi preferiti.
Sono seduto ad un tavolo di un localino francese. Una tazza di caffè dello Yunnan e qualcosa da mangiucchiare davanti a me. Le mani su di un libro, il diario o il computer. In questi ultimi tempi il tardo pomeriggio scorre spesso a questo modo verso la fresca sera di Kunming. Non durerà per sempre, ma finché dura non mi posso lamentare.
Attorno ad uno dei tavoli vicino al mio c’è un gruppo di giovani cinesi. Alcuni fumano, altri si abbracciano, una coppia si apparta in un angolo un po’ lontano per sussurrare qualcosa che gli amici non devono sentire.
Tre ragazze si voltano spesso per rivolgermi un’occhiata incuriosita. Sono stato in Cina abbastanza a lungo da imparare a non sentirmi troppo lusingato per questo genere di attenzioni.

E’ passata un’ora da quando sto qui, e i ragazzi sono sempre allo stesso tavolo.
Le tre ragazze che mi osservano si riuniscono e parlottano per un po’. Seguo la scena con la coda dell’occhio. Ad un certo punto una di loro si fa coraggio e si avvicina al mio tavolo. Mi chiede di dove sono. Mi spiega che la sua insegnante di inglese le consiglia spesso di fare pratica con degli stranieri, e che vorrebbe chiacchierare un po’ con me. In meno di un minuto le sue amiche l’hanno raggiunta e mi rivolgono dei sorrisi un po’ imbarazzati. Io le invito a sedersi.

Hanno tutte meno di vent’anni, frequentano le scuole superiori e non sono mai state all’estero. Una di loro continua a strofinarsi le mani e mi confida di essere molto nervosa. E’ solo la seconda volta che parla con un occidentale. Per le sue due amiche è invece la prima in assoluto.
Questo genere di incontri, che mi capitano spesso, in Cina ma anche in altri paesi dell’area, non finiscono mai di stupirmi e farmi riflettere. L’inglese di queste ragazze, considerata la loro età e le altre condizioni al contorno, è di livello sorprendentemente elevato. Fanno qualche errore di grammatica, ma utilizzano delle forme e delle strutture piuttosto complesse. Il loro vocabolario è molto ampio e la loro pronuncia è spesso accurata e piacevole da ascoltare.
Non frequentano una scuola internazionale o privata e non vanno a lezioni di ripetizione.

Non si può certo affermare che in questo paese il livello della conoscenza dell’inglese, considerando la totalità dell’enorme popolazione, sia ottimo. Anzi tutt’altro. La maggioranza della popolazione delle aree rurali e in generale quella al di sopra dei trent’anni l’inglese non lo parla affatto.
Ma tra le generazioni giovani e giovanissime, in particolar modo quelle delle città medie e grandi, il livello è soddisfacente e in continua crescita.
Ogni scuola (statale) assume degli insegnanti madrelingua che affiancano quelli cinesi durante le lezioni dedicate alla conversazione. E ovviamente le famiglie più abbienti mandano i loro figli a seguire lezioni private presso scuole di lingua.
Ogni settimana la TV (pubblica) trasmette qualche film straniero in lingua originale con i sottotitoli in cinese.
E le bacheche dei caffè e delle università abbondano di inserzioni per la ricerca di partner per scambio linguistico.

Nonostante le reali difficoltà che il visitatore straniero incontra quando cerca di comunicare con la popolazione locale, è evidente la grande importanza che le istituzioni e la società cinesi danno all’apprendimento dell’inglese.
E i giovani cinesi delle classi medie sono consapevoli delle opportunità che si affacciano all’orizzonte di chi parla l’inglese in maniera soddisfacente.

In Italia chi parla bene l’inglese lo ha imparato quasi sempre all’estero, a proprie spese e seguendo una strategia elaborata autonomamente. Pochi aiuti vengono dati agli studenti che vogliono imparare seriamente una lingua straniera.

Lo strumento più importante degli ultimi 15-20 anni è stato sicuramente l’Erasmus, o qualche altro programma simile. Alcuni studenti universitari, selezionati tra quelli che fanno apposita domanda, possono frequentare un semestre o un anno accademico presso un’università straniera. Una parte delle spese viene rimborsata e gli esami sostenuti all’estero vengono generalmente riconosciuti una volta ritornati in sede. Va sottolineato che questo programma è frutto di accordi stipulati in sede comunitaria e non di un’iniziativa del governo italiano.

Non tutti durante l’Erasmus imparano la lingua inglese, di certo non chi va a studiare in Francia o in Spagna. Ma soprattutto non tutti possono avere accesso al programma.
Gli altri devono accontentarsi di lezioni di letteratura inglese alle scuole superiori, tenute spesso in lingua italiana. O di un poco utile corso in un’aula universitaria affollata, in cui si impara a malapena qualche termine e un po’ di grammatica. Senza la minima possibilità di apprendere ciò che più conta. Gli strumenti più importanti della comunicazione: la comprensione e la scorrevolezza nella lingua parlata.
Chi vuole andare oltre questa inutile perdita di tempo impara l’inglese vivendo in qualche angusto appartamentino londinese. Guadagnandosi il soldi per pagare il costosissimo affitto friggendo patatine al Mc Donald’s o lavando i piatti in un ristorante italiano.

Ci sarebbero altre possibilità. Il governo australiano ad esempio offre l’opportunità ai cittadini di alcuni paesi di ottenere visti vacanza-lavoro di un anno. Essendo questo programma frutto di accordi bilaterali tra l’Australia e ognuno degli altri paesi coinvolti, il numero dei visti rilasciati ogni anno è variabile e dipende tra le altre cose dalle opportunità offerte in cambio ai cittadini australiani. Il governo italiano per anni non ha dato grande importanza a questa relazione e il governo australiano ha riservato spesso un numero limitato di posti ai cittadini del nostro paese, sospendendo pure il programma di collaborazione con l’Italia per lunghi periodi.

Di certo non tutte le soluzioni adottate da altri stati per agevolare l’apprendimento dell’inglese possono essere applicate in Italia. Difficilmente il Ministero dell’istruzione potrà promuovere l’assunzione di insegnanti madrelingua da collocare nelle nostre scuole pubbliche. E si può soltanto immaginare l’insurrezione popolare che si avrebbe in caso i film stranieri venissero trasmessi in lingua originale con i sottotitoli in inglese.
Ma sicuramente un gruppo che si sedesse attorno ad un tavolo con l’intenzione seria di migliorare la situazione potrebbe proporre qualche soluzione a basso costo e senza impatti sociali particolarmente negativi.

Qualche suggerimento. Un programma rivolto a volontari madrelingua - che vogliono imparare l’italiano e vivere un’esperienza in Italia - che potrebbero lavorare per qualche ora alla settimana nelle scuole pubbliche italiane.
Uno o due film alla settimana in lingua originale, con i sottotitoli in italiano, se non in inglese. Magari non in prima serata, ma in seconda o terza. O anche di pomeriggio.
E poi dei programmi per l’agevolazione degli scambi linguistici.

Insomma gli strumenti non mancano. Quel che manca è l’impegno serio delle istituzioni e delle varie componenti sociali.
E c’è forse qualcosa di ancor più grave. La mancata consapevolezza che senza saper parlare l’inglese i nostri giovani si troveranno sempre più in una posizione di svantaggio competitivo. E il timore infondato che la diffusione della conoscenza dell’inglese possa avere qualche effetto negativo sul patrimonio culturale italiano. Come se tale patrimonio non fosse invece già messo a repentaglio da altre, più pericolose, minacce endemiche.

Le mie tre amiche si sono scrollate di dosso imbarazzo ed emozione.
Mi chiedono di dare ad ognuna di loro un nome italiano. Facendo riferimento al loro nome cinese o a quello inglese (che spesso utilizzano quando hanno a che fare con gli stranieri), le chiamo Caterina, Monica e Giovanna.
Durante la conversazione rivelo loro qualcosa che le sbalordisce. Confesso che quando avevo la loro età il mio inglese era molto peggio del loro. Così come quello della quasi totalità dei teenagers italiani.
Non ci credono. Esclamano sbalordite: “Ma come, non è possibile, in Italia?”.
Già, in Italia. Da culla della mafia a modello da imitare. Da archetipo del malgoverno a esempio di stile. Penso alle idee completamente diverse che la gente nel mondo si fa del nostro paese, e mi scappa un sorriso.
La moda, le auto sportive, la cucina di casa nostra e i successi del calcio tengono alta la bandiera. Perlomeno la buona reputazione che godiamo da queste parti (pur non essendo sempre giustificata), ha saputo finora resistere all'effetto dei mali tipici italiani. Ma per quanto potrà ancora durare?

domenica 4 marzo 2007

Kunming - Cina, 4 marzo 2007

Sto seduto al French café quando mi arriva una chiamata di HLN (iniziali del nome cinese), una ragazza che ho conosciuto tempo fa, che ho incontrato soltanto due volte, e che da tempo non si faceva sentire.
Mi invita a raggiungerla per bere un te. Le chiedo se è lì con qualche amico. Mi risponde che non è da sola, quindi decido di invitare Aviv.
Con lui al mio fianco le conversazioni in cinese (quando non si tratta di dialetto locale, che qui parlano tutti) saranno meno imbarazzanti. E ci potremo dare i turni per chi deve piantare la faccia da babbeo, quando non capiamo qualcosa nemmeno dopo la seconda o terza spiegazione al rallentatore.
Ma Aviv non vuole accompagnarmi, è impegnato con una delle sue amiche dalla vita complicata. Le facce da babbeo oggi le ho vinte tutte io. Tornerò a casa con i crampi alla mandibola.
La serata invece si rivelerà piuttosto vivace. Arrivo al locale elegante in cui HLN ed un amico stanno giocando a carte mentre bevono un te.
Ci restiamo per poco, poi ci spostiamo in un ristorante Hui Zu (una minoranza etnica musulmana) in cui consumeremo una buona cena.
E da lì via verso un Karaoke. Qui trascorro alcune ore giocando a dadi e chiacchierando con HLN mentre i suoi amici storpiano una canzone dopo l’altra.
HLN è estremamente carina.
Fila tutto liscio fino a che non mi imbatto nell’unica nota stonata della serata (a parte ovviamente le grida da gatto in calore di quei cantanti da strapazzo).
E che nota stonata!
Impiegherò parecchio tempo (e un bel po’ di birra) per digerire il rospo e smaltire la rabbia.
Quasi tutti i personaggi che incontro questa sera con HLN sono musulmani, tutti tranne lei.
E si comportano quasi tutti molto bene.
Fino a che il capoccia del gruppo del Karaoke (c’è quasi sempre un capo riconosciuto all’interno dei gruppi di cinesi) mi spiega con una razionalità da gallina le sua agghiaccianti linee guida
“Di dove sei?”.
“Italia”.
“Ah, mi piace l’Italia. Invece non mi piacciono gli Stati Uniti, Israele ed il Giappone.
E poi segue la spiegazione che si sente in dovere di darmi. Da analizzare parola per parola.
“Essendo musulmano, ovviamente odio gli americani e gli israeliani. Essendo cinese poi, ovviamente odio anche i giapponesi”.
Quegli “ovviamente” sono come due pungiglioni nel costato.
Lo so che la tattica che ho adottato, quella di non dire niente e di fare in modo che al più presto si cambi discorso (o meglio ancora che si cambi posto), è quella giusta.
Non servirebbe a niente, ma proprio a niente, litigare con questo gibbone.
Quante parole sprecate in passato. Quanti inutili travasi di bile.
Ma per un bel po’, per non so quanti altri bicchieri di birra, non riesco a scrollarmi di dosso l’imbarazzo per non aver detto niente.
E devo buttarne giù ancora di bicchierini, e concentrarmi sulle altre note stonate, quelle vere, quelle che raggiungono l’orecchio ma non il cuore, per cercare di allontanare dalla mia testa le immagini di A e di Y, i due israeliani che frequento qui a Kunming. E degli altri amici israeliani, americani e giapponesi, che solo nella mia mente reclamano giustizia.
Già, perché lo so già che Y, quando glielo racconterò, liquiderà la faccenda sentenziando semplicemente qualcosa che in italiano suona come “La madre degli scemi è sempre incinta”.
Pochi minuti più tardi non riesco a trattenermi e racconto tutto ad A in un SMS. E anche lui mi risponde con intelligenza e un senso dell’umorismo tutto ebraico.
Per fortuna la birra, un ulteriore cambio di locale e la presenza della sempre più graziosa HLN a poco a poco allontanano quella fastidiosa sensazione.
Ma lo so bene che purtroppo non sarà l’ultima volta che la proverò.
Dopo l’ultimo locale mi portano in un altro ristorante Hui Zu.
Siamo in molti. A noi si è aggiunto un altro gruppo di uomini musulmani.
Due ragazzi, uno per ognuno dei due gruppi, inscenano un pietoso germoglio di rissa.
Gli altri uomini dei due gruppi, tutti ubriachi fradici, si barcamenano tra atti di machismo e tentativi di riportare la calma nella piccola sala della povera famiglia di ristoratori, musulmani anch'essi, che a quell’ora di mattina, invece di tornare a casa, sono costretti ad fronteggiare inermi un’eventuale distruzione del loro locale.
Le donne ed io, per nascondere l’imbarazzo, non stacchiamo le labbra dalle bacchette e continuiamo a succhiare i tagliolini piccanti.
Sedata la rissa e spolverati i piatti usciamo.
Il capoccia di turno, probabilmente innamorato di HLN, spinge lei in un taxi e me in un altro.
HLN se ne va senza nemmeno salutarmi, io aspetto che si siano allontanati, mi scuso con il tassista, esco dall’auto e ritorno a piedi.

giovedì 1 marzo 2007

Kunming - Cina, 1 marzo 2007

Incontro Jennifer (nome inglese, quindi falso, quello vero, cinese non lo ricordo) al Prague café. Ho letto il suo annuncio in una bacheca alcune settimane fa.
Cercava un insegnante di spagnolo o qualcuno con cui fare scambio linguistico.
L’ho chiamata, mi ha risposto che l’insegnante l’ha già trovato, uno spagnolo che è arrivato in città da poco.
Per alcuni giorni abbiamo continuato a scambiarci qualche SMS e poi abbiamo deciso di incontrarci per un caffè ed una chiacchierata. Ed eccoci qua.
Parliamo inglese, di spagnolo conosce soltanto poche parole.
“Perché ti interessa studiare lo spagnolo?”.
E’ l’ovvia domanda con cui rompo il ghiaccio.
Perché le piace la Spagna, un giorno vuole visitarla, magari trovare un lavoro, viverci.
“E poi lo spagnolo lo puoi usare in molti altri posti”.
E’ abbastanza ferrata in geografia e per un po’ ci intratteniamo con una interessante conversazione sul sud America, che probabilmente non si riuscirebbe a mettere su nemmeno con molti occidentali.
Però in sud America non ci vuole andare. Anzi all’inizio sentenzia convinta che “non le piace”.
Incalzata dalla mia curiosita si spiega meglio e mi dice che in realtà non è che non le piaccia, il suo inglese non è perfetto e non ha scelto bene il termine. Semplicemente non le interessa.
Le piace il calcio. Ma quello italiano, a differenza di molti suoi connazionali, non è il suo preferito.
Segue con interesse quello francese e quello spagnolo.
“E perché?”.
“Perché mi piace il calcio offensivo, gli italiani giocano solo in difesa”.
Solo gli italiani? Il solito clichè, ma se si tratta soltanto di calcio, chi se ne frega.
Mi viene in mente un’altra stranezza però.
“Ma come, se ti piace il calcio offensivo. Beh, allora il Brasile è la squadra che fa per te”.
“No, no. Francia e Spagna”.
Niente da fare, con il sud America non vuole proprio aver niente a che fare.
Abbandonato l’argomento calcio parliamo di molte altre cose.
Non è decisamente una bella ragazza, ma è molto sveglia e preparata.
La cosa che mi colpisce di più me la dice più tardi, quando Wen Lin Jie, la via dei caffè occidentali, si è già tinta del giallo intenso del tramonto Yunnanese.
“La vedi quella scuola, dall’altra parte della strada?”.
La conosco bene quella scuola elementare, ci passo davanti tutti i giorni.
E riconosco le divise e i fiocchi rossi al collo dei ragazzini che la frequentano.
Tutti con le scarpe firmate e le mamme che li aspettano all’interno di costose auto straniere.
Appartengono tutti a famiglie benestanti.
“E’ una delle scuole elementari più prestigiose di Kunming”.
“Ma è privata?”.
“No, lo sai che le scuole private in Cina sono generalmente quelle di qualità inferiore”.
Non ne sono sicuro. Ma so per certo che alla maggior parte dei cinesi piace pensare che sia così.
“Ma allora come si spiega che i ragazzini che la frequentano sono tutti ricchi? Qual’è il criterio utilizzato per il diritto all’iscrizione? Vi accedono soltanto i bambini appartenenti alle famiglie del quartiere? (Ci troviamo nei dintorni del parco del Cui Hu, un’area per gente benestante). O vengono utilizzati criteri basati sui meriti scolastici?”.
“No. Vi accedono soltanto i figli dei cinesi che si possono permettere la costosa retta d’iscrizione”.
“Quanto?”
“Alcune migliaia di RMB per quadrimestre”. (Un euro vale all’incirca 10 RMB).
In Cina il governo traccia una netta linea di demarcazione tra le scuole pubbliche di serie A e le altre.
E per l’accesso a questi istituti fa pagare rette degne di alcune scuole private occidentali.
Sembra che non ci siano nemmeno programmi per il conseguimento di borse di studio rivolti agli studenti meritevoli appartenenti a famiglie meno abbienti.
Programmi del genere vengono lanciati soltanto per l’accesso alle università (e anche per queste i livelli qualitativi sono molto variabili, e ben noti a tutti).
Un altro bell’esempio di come il comunismo in Cina sia ormai soltanto una parola vuota.

venerdì 26 gennaio 2007

Kunming - Cina, 26 gennaio 2007

Oggi si sposa l’amica di A.
E’ tornata a casa da qualche giorno. Per trascorre le vacanze invernali (si avvicina il capodanno cinese), e per la cerimonia nuziale appunto.
La sua famiglia vive in una provincia a nord, ad un paio d’ore di volo da qui.
L’ultima settimana a Kunming l’ha trascorsa quasi interamente con A.
A è riuscito in qualche modo a scucire l’indirizzo email della ragazza ad un sito per scambi culturali, per l’iscrizione al quale bisognerebbe pagare.
A non si è iscritto, è un tipo tenace. Il sito pubblica gratis la foto e la descrizione autografa delle persone iscritte che vivono nella città selezionata.
Ma il numero di telefono è oscurato, così come parte dell’indirizzo email.
A è riuscito ad contattarla con le poche informazioni a disposizione.
Si sono incontrati una sera, e hanno bevuto qualcosa in un paio di locali.
La sera successiva la ragazza l’ha invitato a cenare in un ristorante nel quartiere in cui vive.
Poi si sono spostati a casa sua. Sono rimasti assieme fino alle 7 di mattina. L’ho sentito che rientrava a casa mezz’ora più tardi.
Hanno chiacchierato, tra di loro non è successo nient’altro. A non è un tipo che ci prova se non riceve il giusto input.
La sera successiva la ragazza è venuta a casa nostra.
Li ho incontrati che chiacchieravano in salotto quando sono rientrato dopo cena.
Era la sera del black-out. Tutto il quartiere senza luce per mezz’ora. Il nostro complesso, chissà perché, per un paio d’ore.
L’ho conosciuta al buio. Prima la sua voce, il suo accento, i suoi discorsi. Poi, dopo un’ora, quando gli elettricisti hanno risolto il problema, anche il suo volto.
Una ragazza abbastanza carina, molto sveglia e simpatica. Ad A piace molto, si capisce dal tempo che le dedica e da come la tratta.
Siamo rimasti a chiacchierare e a guardare la TV fino alle 6.30. Se fosse stato qualcun altro avrei temuto di disturbare, ma con A non è così.
La ragazza sta seguendo un corso post-graduate presso il dipartimento di scienze ambientali di una università di Kunming.
Un corso organizzato in collaborazione con un’università francese.
Alcuni studenti francesi studiano qui quest’anno. Lei ed altri studenti cinesi andranno in Francia l’anno prossimo.
Parla un buon inglese, e sta studiando francese.
Alle 6.30 io ho tolto il disturbo e sono andato a dormire.
Loro sono rimasti a chiacchierare sul divano fino alle 9.30.
Io ed A, da quando sono finite le lezioni a scuola, facciamo sempre mattina. Si chiacchiera, si guarda un film. Possibilmente non le serie americane che piacciono a lui.
O cerchiamo di migliorare il nostro cinese con le serie poliziesche locali, che i canali cinesi trasmettono con i sottititoli in mandarino.
Quando capirò cosa dicono non avrò più il coraggio di guardarle. Ovviamente sono peggiori di quelle americane.
Credo che prima che la ragazza andasse a casa, siano anche riusciti a baciarsi. Niente di più.
La notte successiva l’abbiamo trascorsa più o meno allo stesso modo. Ma con un finale leggermente diverso.
Sono finiti a letto assieme. Ma senza avere un rapporto sessuale vero e proprio.
Sono andati per gradi.
Per l’ultimo atto hanno aspettato un altro giorno.
E gli ultimi due o tre giorni che lei ha trascorso a Kunming prima di tornare a casa li hanno passati sempre assieme.
Ogni tanto però faceva scivolare qualche commento sospetto. Qualche nota stonata. Quasi volesse far capire ad A che c’era qualcosa che ancora non gli aveva detto. Qualcosa di importate. Che avrebbe potuto stravolgere il loro rapporto.
Alludeva ma non spiegava. Non ancora.
Il giorno dopo ha portato A a mangiare la “pizza più buona di Kunming”.
A si è scervellato per ore cercando di indovinare di quale pizzeria si trattasse. Le conosciamo un po’ tutte.
L’ha portato da Pizza Hut...
E lì A, senza fare commenti sulla pizza, l’ha messa alle strette.
E lei ha vuotato il sacco.
E’ stata fidanzata a lungo con un ragazzo della sua città.
All’inizio era innnamorata. Poi ha capito che non era la persona giusta.
Lei ha intenzione di studiare all’estero, di lavorare in una grande città. Lui non vuole lasciare il posto in cui vive. Non vanno d’accordo. E poi, per altri motivi, lei non lo ama più.
Tuttavia, oggi si sposano.
I genitori di lei amano il ragazzo. Il padre ha una grave malattia.
Lei teme che il dispiacere che gli causerebbe la cancellazione del matrimonio aggraverebbe la sua situazione.
Non ha detto niente a nessuno, si è tenuta dentro tutto ed è pronta a sacrificarsi.
L’incontro con A ha appesantito la tensione.
Da quando è tornata a casa si sentono spesso al telefono.
Lei dice che dopo il matrimonio tornerà a Kunming e vorrà continuare a vederlo.
Dice di volersi sposare soltanto per tranquillizzare il genitori.
Ha elaborato un piano che le permetterebbe di partecipare alla cerimonia senza però completare i documenti che ufficializzano il matrimonio. Vuole mettere in piedi una farsa.
Tranquillizare tutti campando scuse che tirano in ballo i requisiti per il visto francese che lei deve ottenere l’anno prossimo.
A ha cercato di spiegarle il suo punto di vista.
L’errore che a suo modo di vedere lei sta commettendo nei confronti di se stessa e nei confronti del fidanzato. Che a quanto pare non sa che lei lo sta sposando senza averne intenzione.
Dopo le conversazioni con A, quando mancavano due giorni al matrimonio, lei ha deciso di aprire il suo cuore con i genitori e il fidanzato.
La sera stessa ha telefonato ad A.
Diceva di aver confidato a tutti il pensiero che la tortura.
Il risultato non cambia. Si sposeranno comunque.
Oggi.
A fa fatica ad accettare il fatto che i genitori vogliano che lei si sposi contro la sua volontà.
Credendo di fare del bene per il suo futuro quando invece il suo futuro è già garantito dal corso di studi che sta seguendo, dalla sua conoscenza delle lingue, dalla sua intelligenza e dalla sua ambizione.
Un castello di carte che potrebbe invece crollare sotto il soffio del cambiamento portato dal matrimonio-farsa.
A fa fatica ad accettare il comportamento dei genitori.
Ma non crede a quel che sente quando lei gli dice che anche il suo ragazzo non ha cambiato idea dopo aver saputo che lei, in fondo al cuore, non vorrebbe sposarlo.
Non capisce che cosa questa persona creda di ottenere.
Io ho detto ad A che non sappiamo di preciso che cosa veramente lei abbia detto loro.
Forse non è stata così chiara riguardo i suoi sentimenti.
E perciò nessuno sospetta che in fondo lei non ami il ragazzo.
Forse credono solo che lei sia confusa e spaventata. Un normale stato d’animo pre-matrimoniale.
Povero A, sembra che attiri donne cinesi con problemi di questo tipo.
Aveva già incontrato J. L’organizzatrice dei corsi di inglese per bambini che A insegna la domenica mattina.
Dopo averlo assunto, J ha cominciato ad invitarlo una sera ogni tanto, per bere qualcosa o per cenare.
E a poco a poco ha cominciato ad innamorarsi di lui.
Glielo ha detto chiaramente.
Ma gli ha anche confidato di non volersi impegnare con uno straniero che sa già che fra qualche mese partirà.
J ha una maniera strana di comportarsi. Decisamente poco cinese, tra l’altro.
Parla sempre di se stessa. Di quanto crede di essere bella. Di quanto crede di essere intelligente e brava nel proprio lavoro.
Tende ad utilizzare questo atteggiamento per far sentire l’interlocutore in inferiorità.
Lo utilizza anche con A. Vuole che lui capisca quanto è fortunato ad avere una ragazza come lei al suo fianco.
Per enfatizzare l’effetto di questa tecnica, utilizza nei suo confronti anche dei complimenti al contrario, che alle orecchie di A suonano quasi come degli insulti.
Gli dice che a lei lui piace, ma che non sa spiegarsi il perché.
Non è bello come gli occidentali che piacciono alla maggior parte delle donne cinesi. Cammina in modo buffo, parla in modo strano.
Ma a lei piace comunque. E al contempo continua ad incensare le proprie virtù.
E si confronta con le ragazze cinesi che gli altri stranieri misteriosamente scelgono come fidanzate.
Misteriosamente, visto che a suo modo di vedere sono tutte più brutte di lei.
J si è sempre comportata in modo un po’ ambiguo.
Se ne va sempre presto, mai dopo le undici e mezzo.
Si fa accompagnare a casa, ma non vuole che nessuno si avvicini troppo al suo palazzo.
Convive con un cinese che alcuni fa è stato il suo compagno. Ma con cui non ha più alcuna relazione (tranne quella di essere coinquilini) da lungo tempo.
A si è chiesto a lungo perché continuino a vivere questa imbarazzante convivenza.
J è la proprietaria dell’appartamento e non è apparentemente obbligata ad averlo come coinquilino.
Qualche settimana fa J ha confidato ad A il suo segreto.
Con quell’uomo, due anni fa, ha avuto un figlio.
Fin dai primi tempi della gravidanza, aveva capito che la storia tra loro due non avrebbe potuto funzionare, ma ha deciso comunque di avere il bambino.
E per il bene del bambino hanno deciso di continuare a vivere assieme.
Anche se spesso il bambino lo affidano alle cure dei genitori di lei, o di lui. Facendo così in un certo senso venir meno la ragione per cui convivono a forza.
Lei dice di volerla fare finita.
Ma la storia va avanti in questo modo da prima che nascesse il bambino. Quindi da più di due anni.
Negli ultimi tempi A e J si sono visti più frequentemente.
Non hanno avuto rapporti sessuali ma hanno dormito assieme.
Lei è decisamente innamorata.
Per convincere A a trattenersi a Kunming ha cominciato a pensare al modo di fargli trovare un modo per mantenersi ed ottenere un visto a lungo termine.
E quindi si è anche convinta a mettere fine alla convivenza forzata con l’ex fidanzato.
A cui ha detto chiaramente di trovarsi un’altra casa in fretta.
Ha paura però di perdere l’affidamento del bimbo, a cui dice di essere molto legata anche se continua a non prendersene cura. Mandandolo continuamente a casa dei suoi genitori, o di quelli di lui.
A, l'amico taciturno. Che sogna una vita regolare, che fa della razionalità un valore supremo.
A, l'uomo dalle donne con le vite complicate.