sabato 29 marzo 2008

La terra che "avanza". Malacca - Malesia, 29 marzo 2008

A Kuala Lumpur Chinatown è diventato ormai un quartiere troppo caotico, fasullo e pieno di turisti, di ogni razza e provenienza. In un posto come quello della comunità cinese in Malesia, dei suoi usi, delle sue tradizioni, non si riesce più a capirci molto.
Meglio pigliare un autobus o un taxi e con un viaggio lungo nemmeno tre ore venire a Malacca.

Anche qui ci sono due o tre vie - in particolare Jonker walk - con i negozietti per i turisti, i ristoranti finto-antichi, e alcuni palazzi riverniciati con toni vivaci un po’ sospetti. Ma è una zona ristretta e usualmente nemmeno troppo affollata e sofisticata. Persino la maggior parte dei turisti che prende d’assalto le bancarelle del mercato, allestito lungo queste vie nelle sere del fine settimana, è cinese. Li riconosci subito, cinesi locali o stranieri, ma senza dubbio cinesi. Si potrebbe dire che l’atmosfera che avvolge Jonker walk in questa circostanza è quella di una sagra di paese o di un mercato rionale, più che quella così comune altrove di un enorme specchietto per le allodole, dove le allodole sarebbero ovviamente i turisti stranieri.

Svoltando a destra al primo angolo e poi a sinistra dopo un altro paio di incroci, proseguendo un po’, ci si perde tra le maglie di un quartiere cinese piuttosto autentico. Ma essendo Malacca una città malese, questa chinatown è cinese in un modo tutto suo. La comunità che si è andata formando grazie alle ondate di immigrazione che nei secoli partendo dalla Cina hanno investito lo stretto di Malacca (che comprende tutta la zona circostante, Penang e Singapore incluse), è quella dei Baba Nyonya, ovvero i “discendenti”, dove il primo termine identifica gli uomini e il secondo le donne.

Il fine settimana, dalle sette della sera fino a mezzanotte, Jonker walk si riempie di bancarelle, presso le quali ambulanti del posto vendono per lo più specialità culinarie dello stretto di Malacca. Basta sedersi ad un tavolino provvisorio, aperto davanti al marciapiedi per l’occasione, e si possono assaggiare prelibatezze che svariano dai noodles fritti in varie salse a tutte le varietà di zuppe Laksa, dagli involtini a base di tofu e rapa fino al dessert di ice kacang, ovvero granatine con frutta fresca e secca, su cui vengono colati sciroppi dalle tinte sgargianti. C’è pure una bancarella che vende il Dim Sum e un’altra che offre un dolce secco, talmente duro che il venditore, per tagliare le porzioni, picchietta con un martello su uno scalpellino, che ad ogni colpetto si conficca, poco e a fatica, nell’impasto color crema.

Ma la vera specialità di Malacca è sicuramente il Chiken Rice Ball, o meglio, utilizzando il buffo accento locale, il Chik’ice’ballllll, pronunciato all’inizio comprimendo la frase, cercando di risparmiare al massimo sul numero di sillabe, per poi lasciar fluire sulla lingua un getto di aria interminabile, bando alle spese, per strascicare una L finale che sembra continuare a scorrere anche quando il malesiano ha chiuso ormai la bocca da un pezzo.
Ci sono numerosi ristoranti che offrono questa presunta prelibatezza, alcuni con nomi cinesi e altri persino con nomi latineggianti, legati all’antica tradizione coloniale portoghese. Ma non bisogna farsi trarre in inganno da insegne colorate e edifici restaurati. Come consiglia Raymond, il simpatico signore che ci affitta la stanza, il Chicken rice ball va provato soltanto da Ho Kee, ristorante dalla tradizione garantita e dal prezzo modico. E bisogna assolutamente evitare di mangiarlo per cena, quando gli ingredienti, preparati la mattina presto, hanno ormai perso la freschezza e la caratteristica fragranza. Dritta che ovviamente l’ospite straniero dimostra sul momento di aver inteso ed apprezzato. Per poi lasciarsi andare ad un “mah!” carico di perplessità, non appena si è avviato dubbioso verso il rinomato ristorante.
Ma come? Questo piatto consiste grosso modo in quello che in veneto chiamano gaina ‘esa. Né più né meno che una semplice e piuttosto povera portata di pollo lesso, con un accompagnamento di un riso cotto al vapore e insaporito con un po’ di brodo. Che differenza potranno mai fare il ristorante che lo serve e un paio d’ore in più o in meno?
Siete d’accordo, no?
E avete torto! Così come ce l’aveva chi scrive, che ha dovuto ricredersi dopo aver messo in bocca la prima cucchiaiata di carne e riso. Squisito!
La conclusione affrettata era dovuta ad una svista madornale. Così come nella cucina di qualsiasi altro posto, il segreto sta quasi sempre nella qualità degli ingredienti, ma soprattutto nella procedura utilizzata per la preparazione delle salse. Da Ho Kee il pollo è tenero, e il riso, compresso in sfere della dimensione di una palla da ping pong e tenuto assieme dal grasso del brodo, è di una consistenza che si lascia addentare con piacere estatico. Ma è il contenuto del pentolino in alluminio che sta al centro del tavolo il vero segreto della ricetta. Questo preparato a base di brodo, con un pizzico di zenzero, il giusto quantitativo di aglio e peperoncino abbondante, dopo essere stato mescolato con un’aggiunta di una varietà scurissima e densa di salsa di soia, va versato a volontà su carne e riso, e fa la differenza tra il Chicken rice ball di Ho Kee e le “expensive imitations” che ad ascoltare Raymond vengono servite negli altri ristoranti di Chinatown.

Alla qualità del cibo bisogna poi aggiungere quella del servizio. C’è una signora in particolare che oltre a prendere le ordinazioni in inglese si ricorda di tutti i clienti che vengono qui per la seconda volta. Mentre non smette per un attimo di chiacchierare e distribuire un amabile sorriso a tutta la tavolata, provvede a miscelare personalmente le giuste dosi di salsa piccante e soia, con movimenti comandati a memoria, senza mai guardare quello che sta facendo. Da imbambolarsi ad osservarla.

Tornati in strada e fatti un paio di passi ci si rende subito conto che durante il giorno il quartiere è semideserto. Chi se la sente di sudare sette camicie sfidando l’afa dei tropici può quindi armarsi di macchinetta fotografica e passeggiare indisturbato, fermandosi di tanto in tanto per approfittare di una gamma variegata di scorci e personaggi pittoreschi.

Sempre che dall’interno di un negozio qualcuno non vi ammonisca con un perentorio: “No picture!”, spesso senza nemmeno usare il please. Sembra quasi che portarsi via uno scatto del dettaglio di un edificio storico equivalga a mettersi in tasca di soppiatto uno degli articoli della paccottiglia dozzinale che questi ingordi ingrati cercano di vendere ai turisti.
I quali sono sempre “Welcome” e “Madam” o “Sir” se entrano nel negozio per lasciare qualche decina di Ringgit, ma si meritano una sgridata di quelle che potrebbe sentirsi urlare contro un cane se, pur restando coi piedi ben piantati all’esterno del locale, si avvicinano alla “zona ristretta” e puntano l’obiettivo non già sulla merce esposta bensì su un neutrale cornicione o una innocua colonna.
Alcuni esercenti della zona - non soltanto i cinesi proverbialmente noti per la loro ingordigia, ma anche i malay o gli indiani - sembrano essersi scordati che l’inclusione di questo bel centro storico tra i siti del patrimonio dell’Unesco non fu una disgrazia caduta dal cielo bensì l’esito positivo dell’apposita domanda presentata dalle autorità locali. Proprio questa qualifica si è infatti rivelata nel tempo un efficace strumento di marketing, attirando ogni anno su questa deliziosa città migliaia di turisti locali e stranieri, armati di spesse mazzette di banconote, di cui proprio questi signori sono i maggiori beneficiari. Non c’è certamente bisogno di ricordare loro che il proprietario dello stesso tipo di negozio in qualunque altra località del paese certi incassi se li può soltanto sognare. Ma, si sa, in casi come questi i diritti acquisiti vengono dati subito per scontati, mentre le responsabilità che questi comportano tendono a volte ad essere accantonate.
E passi se a impedirti di scattare una foto è uno smilzo vecchietto che vende noccioline, a cui spetta il diritto di difendere le proprie convinzioni culturali, religiose e, se crede, persino le proprie superstizioni, ma ci si sente trattati un po’ come dei salvadanai quando il proprietario di un prospero esercizio, arricchitosi proprio grazie all’afflusso costante dei turisti, ti chiede l’obolo di qualche ringgit per “lasciarti” scattare la foto ai brandelli di una bandiera affumicata, che ondeggia e si affloscia sopra la tettoia del negozio.

Usciti da Chinatown Malacca offre ai visitatori anche (e forse soprattutto) il complesso della città rossa, che si sviluppa attorno alla Chiesa di Cristo, nata protestante sotto il dominio degli olandesi e convertita all’anglicanesimo quando gli inglesi si sono insediati nell’area. Sul cucuzzolo e sul pendio di una dolce collinetta, che comincia a salire proprio dietro la Chiesa, si trovano i resti della Fortezza, della Cattedrale portoghese di Nostra Signora, della Porta di Santiago e del cimitero olandese.

Poco oltre si estende Melaka Raya, un’area nuova della città, costellata da edifici che ospitano attività commerciali di vario tipo. A definire “nuova” questa zona non si sbaglia di sicuro. Tutte le costruzioni sono più o meno dello stesso tipo e praticamente nessuna si eleva oltre il secondo piano. Non c’è una singola struttura che sia stata costruita più di qualche anno fa. Nemmeno una. Sorge un sospetto.
La spiegazione è semplice, e allo stesso tempo sbalorditiva. Nulla è stato edificato su questa lingua di terra prima degli anni novanta perché prima di allora qui c’era il mare. Queste poche centinaia di metri di terra sono state strappate o, per utilizzare il termine tecnico in inglese, reclaimed, al mare. Bonificate, seguendo un progetto che prevedeva appunto lo spostamento in avanti della linea costiera, anche se non per i normali scopi dell’agricoltura o di igiene, ma semplicemente per il beneficio dell’industria edilizia.

Che una pratica del genere venga adottata a Singapore, lontana un tiro di schioppo da qui, dove i cinque milioni di abitanti, a cui va sommata la folta comunità di expatriates, cominciano a vivere un po’ strettini, si può anche arrivare a capirlo.
Ma in Malesia! E proprio nella città dal profilo storico-architettonico più originale e di valore del paese! Giusto a fianco di uno dei complessi archeologici più importanti del sud est asiatico!

Questo resta davvero un mistero difficile da svelare.
Ma d’altra parte Malacca, come hanno già osservato altri visitatori illustri, il fascino della città misteriosa ce l’ha sempre avuto.


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