lunedì 31 marzo 2008

L’isola delle sorprese. Tioman - Malesia, 31 marzo 2008

La procedura di imbarco sul ferry che da Mersing, sulla terraferma, porta all’isola di Tioman, è da raccontare nel dettaglio.

Dopo aver prenotato il viaggio, dall’agenzia ci portano al molo con un furgoncino. All’uscita dal mezzo l’autista ci chiede di esibire il biglietto per la barca, strappa il talloncino più piccolo e se lo mette in tasca. Restiamo un po’ sorpresi ma accettiamo in silenzio, prendiamo i bagagli e ci avviamo. Ci presentiamo allo sportello dell’operatore, dove una ragazza, che per colmare le lacune del suo inglese sorride in continuazione, ci controlla nuovamente il biglietto (la parte che abbiamo conservato) e ci fa compilare un modulo con i campi del nome, della nazionalità, il numero di passaporto e le altre generalità.

“Nel caso affondassimo...” commenta ironicamente un turista inglese.

Quando arriva l’ora dell’imbarco il cancello si apre e una fila di tre addetti si apposta per controllare nuovamente i biglietti. O almeno così ci sembrava.

Scopriamo invece che ad ognuno dei tre è stata affidata una mansione diversa. Il primo effettivamente controlla il biglietto e ci consegna un tesserino giallo valido per una tratta semplice. È la stessa ragazza che ci ha fatto compilare il modulo, a cui tocca quindi controllare il biglietto due volte nel giro di cinque minuti.

Il secondo intercetta nuovamente il foglietto che ognuno, credendo che ne abbiano abbastanza, sta per rimettersi in tasca, e ne strappa un lembo per invalidarlo.

Il terzo infine, in piedi ad un solo metro dalla ragazza che ci aveva consegnato il talloncino giallo, ce lo ritira per certificare l’avvenuto imbarco. Il cedolino ci è rimasto tra le dita per un tempo talmente breve che viene quasi voglia di tenerlo stretto tra le dita un altro po’, senza consegnarlo.

Dopo le tre fasi di questa sequenza, i turisti si incamminano sulle assi di legno del pontile, con un sorriso incredulo tra le labbra.

Riassumendo: l’agenzia vende il biglietto composto da due parti. L’autista del furgoncino lo controlla e strappa il cedolino più piccolo. Allo sportello il biglietto viene verificato nuovamente al momento del riempimento del formulario. Al cancello dell’imbarco una fila di tre addetti si occupa 1) di verificare per la terza volta il documento di viaggio, consegnando in caso di riscontro positivo un ulteriore talloncino, 2) di strappare un lembo al biglietto, e 3) di ritirare il tagliando appena consegnato.

Non male, ricorda la procedura da seguire per salire in un treno nella Cina Popolare. Lì uno se la spiega con l’esigenza del governo di dare un lavoro, o meglio uno stipendio, a qualche centinaio di milioni di cittadini. Ma in Malesia? Chissà...

Sbarchiamo alla spiaggia ABC, uno spiritosissimo acronimo per il nome malay della località. I malesiani, come i singaporiani, sono dei grandi amanti di acronimi, sigle e abbreviazioni. Probabilmente più degli stessi americani, che cercano costantemente di imitare.

ABC è solo l’ennesimo di una lunga lista. KL è ovviamente Kuala Lumpur, la capitale. JB è Johor Bahru, la città che fronteggia Singapore sul lato malese dello stretto. KLCC è il complesso del Centro conferenze, che comprende anche le torri Petronas, a cui spesso ci si riferisce con la stessa sigla. KLIA è l’aeroporto internazionale principale, ma LCCT è quello utilizzato dalle compagnie low cost, la più importante delle quali è Air Asia, la Ryan Air d’oriente. E così via.

Qui si cerca di abbreviare tutto. I nomi originali sono alle volte un po’ lunghetti e non c’è tempo sufficiente per pronunciali interamente. Come dare torto ai poveri malesiani? Provate per esempio a dire: Kuala Lumpur convention centre. Quando ce l’avrete fatta la conferenza potrà nel frattempo essere già terminata.

Qualcosa di ancor più fastidioso potrebbe capitarvi poi se al check-in per il vostro volo vi salta in mente di pronunciare per intero Kuala Lumpur International Airport o Low Cost Carriers Terminal.

Ma a parte tutto l’isola di Tioman è davvero bella.

L’acqua è calma e limpida e persino sporgendosi dal parapetto del molo a cui ha attraccato la nostra barca è possibile restare incantati ad osservare i variopinti branchi di pesci che sfrecciano, avanzano, si voltano tutti assieme e tornano indietro, fuggono spaventati da chissà cosa, o procedono stancamente, senza mai rompere le fila, con movimenti sincronizzati, comandati da un solo cervello, rimodellando di volta in volta con armonia la forma della loro “bolla”.

La marea è bassa, non vale la pena nuotare ma si può comunque restare immersi a pancia in su, fluttuando dolcemente, con lo sguardo rivolto verso l’isola, da principio per controllare la borsa lasciata incustodita in riva, ma poi scordandosene facendosi catturare dalla bellezza della foto che, dal basso verso l’alto, si sviluppa con una striscia di arena luccicante, seguita da una fila di palme e altri alberi a foglia larga, dalle fronde di un verde talmente vivido da sembrare saturato in maniera artificiale. Fila interrotta qua e là dal riquadro rosso-marrone di un bungalow, che da queste parti chiamano chalet. Un po’ più in alto scorre la fascia frastagliata e fuori fuoco delle colline retrostanti, avvolta dalla schiuma delle nuvole color panna che macchiano il cielo opaco, gonfio di umidità.

Ad ammirare il profilo di Tioman ci si scorda quasi di essere immersi, fino a quando una scossa di nervi ci mette in allarme, ricordandoci che l’acqua, pur caldissima, ci ha sottratto calore per quasi un’ora. Ci alziamo, camminiamo con cautela cercando di evitare i ciottoli che riusciamo a scorgere attraverso la superficie trasparente, ma qualche ondina maligna ci sbilancia e cominciamo ad avanzare come su un letto di braci, emettendo urletti imbarazzanti ogni volta che un piede si poggia su una pietra o su un pezzo di corallo.

Arrivati in riva ci voltiamo e ci accorgiamo con meraviglia che è come se qualcuno avesse premuto sul telecomando il tasto “+” del controllo dei colori. La U della baia si esibisce in pose diverse cambiando abito ogni cinque minuti, mentre il cielo da celeste-grigio, seguendo una sequenza impensabile di tonalità sfumate, finisce per diventare nero-viola.

Ma a questo punto noi stiamo già seduti al tavolo del ristorante in riva, pronti a dare l’assalto al piatto succulento che il cameriere malay ci poggia davanti. Circondato da una collinetta di patatine fritte e da un altopiano di verdure cotte in una salsa di curry piuttosto piccante, sta steso a pancia in su un grande trancio di tonno, pescato in giornata.

In questo locale servono pure la birra, nonostante i divieti pubblicati su enormi cartelli che proibiscono ai malay di consumare, comprare o persino vendere birra, liquori o qualsiasi altra sostanza intossicante. Pena prevista un multa non troppo elevata e la somministrazione di un buon numero di frustate con il rotan. Una canna che provoca delle ferite a carne viva molto dolorose, come documentato dal video-shock di un’esecuzione, che venne pubblicato anche dai quotidiani italiani alcuni mesi or sono.

Allo stesso tavolo stanno seduti anche una ragazza giapponese e un canadese che insegna inglese a Nagoya.

Il proprietario del locale, un malay sveglio dalle orecchie lunghe, mentre passa a raccogliere i piatti sporchi coglie al volo un nostro commento su alcune pratiche sospette adottate dalle agenzie turistiche nella città di Mersing, da dove partono i collegamenti con l’isola.

Sia l’autobus proveniente da Malacca che quello partito da Kuala Lumpur con cui è arrivato il canadese si sono fermati a sorpresa davanti ad un’agenzia turistica, ben prima di arrivare al capolinea. Dopo una breve telefonata effettuata dall’autista malay, un cinese sorridente è salito ad annunciare che chi era diretto all’isola poteva fermarsi qui per sbrigare le pratiche di imbarco per il Ferry. Una volta che ci si rende conto di essere all’interno di un’agenzia e non alla biglietteria del molo, il sospetto si trasforma in realtà.

Questi furbi esercenti allungano una mancia agli autisti degli autobus provenienti dalle località più popolari del paese, ottenendo in cambio lo “sgancio” all’entrata del loro negozio dei turisti ignari, che confusi e stanchi si faranno magari convincere non solo a comprare il biglietto per il viaggio in barca ma pure a prenotare un bungalow presso una delle strutture “consigliate”.

Il proprietario del ristorante conferma la tesi e ci rovescia addosso tutta la sua frustrazione. Si rammarica per il fatto che le autorità non fanno nulla per evitare che queste “sanguisughe” intercettino una parte importante degli introiti del turismo che arriva sull’isola.

“Si prendono percentuali altissime per le stanze che riescono a far prenotare, facendo quindi lievitare i prezzi e costringendo per giunta gli operatori dell’isola a ridurre i propri incassi.

Io da loro non accetto nessuna prenotazione, ho solo pochi chalet e riesco quasi sempre a riempirli senza il loro aiuto. Ma sono in molti qui a rivolgersi alle agenzie di Mersing, le quali alla fine si accaparrano una fetta troppo grande della torta, senza peraltro contribuire, come facciamo noi qui, alla preservazione dell’ambiente e allo sviluppo delle strutture e della qualità del servizio offerto. Ma il governo dove sta?”

All’inizio abbiamo cercato di intervenire con qualche commento, ma il ristoratore è un fiume in piena e finiamo per trascorrere vari minuti ascoltandolo in silenzio. Alla fine si accorge di essersi lasciato risucchiare in un monologo. Sta in piedi, con una pila di piatti sporchi accatastati su un avambraccio, mentre l’altro si agita nell’aria. Si ferma e ci osserva in silenzio per qualche secondo.

“Scusate, a volte parlo troppo.”

“No, no. Si figuri. A noi interessa sapere anche queste cose.”

Ma lui, da bravo oste, sa che le chiacchierate con i clienti devono essere brevi e possibilmente divertenti, quindi ci sorride, si scusa di nuovo e torna in cucina.

Quando poche ore fa la barca stava per approdare a Tekek, la fermata che precede quella di ABC, mentre quasi tutti con le fronti incollate al finestrino ci eravamo lasciati andare ad ammirare la bellezza del paesaggio, l’apparizione da dietro le palme di un aeroplano in fase di decollo ci ha strappato dai nostri sogni di tramonti tropicali e nuotate tra pesci e coralli, lasciandoci di stucco.

Ebbene sì. Questo paradiso del golfo del Siam, senza una strada, in cui per andare da una spiaggia all’altra bisogna spesso salire su una barca, ha un aeroporto!

E questa non sarà l’unica sorpresa che ci riserva l’isola di Tioman.

Durante il pranzo presso il semplice ristorantino di un bungalow resort, proprio da dietro a me arriva una coppia di ragazze danesi accompagnate da un signore europeo che si rivolge al proprietario.

“Queste sono le due ragazze che hanno prenotato un bungalow per oggi.”

Mentre le ragazze vengono accompagnate al loro chalet, il signore se ne va. Poi le due danesi tornano al ristorante, si siedono e ordinano il loro pranzo. Quando hanno finito si alzano e si avviano verso la cassa per pagare. Vengono quindi intercettate dal signore che è riapparso all’improvviso nel locale.

“Ciao ragazze, posso sedermi con voi a fare quattro chiacchiere?”

“Ah, purtroppo noi stiamo uscendo.”

“Beh, non fa niente. Fatemi sapere allora se volete che vi presti le maschere e le pinne. Ciao.”

Osservo bene quest’uomo di mezza età. Indossa una magliettina polo in raso grigio e un paio di bermuda con disegno scozzese in tinta rosso-blu. Ha la pelle abbronzata e lentigginosa, è completamente pelato e porta un baffetto fino, che non capisco se sia biondo o bianco. Il viso è sottile e lungo, i suoi tratti sono molto dignitosi, quasi aristocratici. Mi ricorda vagamente il signor Higgins, l’amico di Magnum, l’investigatore impersonato da Tom Selleck nella famosa serie americana ambientata alle Hawaii.

Le ragazze se ne vanno e Higgins si va a sedere al loro tavolo, che non è ancora stato sparecchiato. Prende uno dei due piatti e svuota gli avanzi di frittata sopra il riso al pollo rimasto sull’altro.

Ma che sta facendo? Da una mano a riordinare? Ma chi glielo fa fare?

Afferra le posate, e in perfetto stile asiatico comincia a spingere con la forchetta il cibo all’interno del cucchiaio, e poi se lo mette in bocca. Assume una posa da perfetto galateo, con la schiena dritta, le spalle spinte indietro e gli avambracci poggiati con eleganza sul bordo del tavolo. Mastica lentamente, trentacinque volte, prima di deglutire con un movimento quasi impercettibile la sacca di impasto farinoso che gli è rimasta sul fondo del palato.

Poi aspetta, si rilassa, alza lo sguardo e osserva le colline davanti a sé, si volta dunque verso il molo alla sua destra e pensa, sogna, si ricorda. Di quando aveva trent’anni, lassù in Scozia, nel castello in riva al lago, seduto al vecchio tavolo in ciliegio già appartenuto al suo trisavolo, il conte William Francis Higgins, il cui ritratto, appeso vicino al camino, sovrastava l’enorme sala. Di quando ancora aveva i soldi per permettersi il servo indiano, che gli portava il vassoio col coperchio a cupola in argento, al centro del quale stava spaparanzato il fagiano che aveva centrato al petto la mattina presto, durante una superba battuta di caccia nel bosco di castagni, con i suoi amici duchi e visconti.

E gli sembra ancora di sentirla in bocca quella carne tenera e saporita, il leggero retrogusto metallico proprio lì vicino al foro in cui era passato il colpo, uno dei migliori che avesse mai tirato.

Lo sguardo dal molo torna di nuovo sul piatto, davanti a lui. Potrebbe prenderlo lo sconforto, per ciò che c’è dentro, per quel che sta facendo; è invece l’appetito ad avere il sopravvento. William Francis Higgins terzo scrolla le spalle e spinge in avanti il mento, arcuando le labbra in un broncio di superiore indifferenza.

“A gratis, pure ‘sto pollo fritto non è poi così male”, liberamente tradotto dall’inglese forbito con cui, anche in un ambiente come questo e con i tempi che corrono, non riesce proprio a fare a meno di esprimersi.

Ci rimette dentro le posate e ricomincia da dove aveva interrotto: la cucchiaiata, le trentacinque masticate e l’ingoio calmo del serpente. Poi fissa il tavolo, senza fretta, non come uno che sta cercando di sbafarsi gli avanzi di nascosto, ma piuttosto come un cliente che cerca di gustarsi con calma il piatto a cui anelava da qualche ora e che ha appena ordinato.

Il ristoratore non arriva. Higgins fa in tempo a mangiare l’abbondante porzione di riso, frittata e carne che è riuscito a mettere assieme. Tira anche un paio di sorsi da una cannuccia che si infila in un succo d’arancia. Poi si pulisce la bocca con una salvietta riciclata, si alza, sistema la sedia sotto al tavolo, e se ne va. Sempre con calma, come se niente fosse. Senza curarsi di chi nel locale lo sta osservando. Senza apparentemente essersi mai preoccupato di un’eventuale comparsa del proprietario nella sala.

Tutto ciò nel giro di sole ventiquattr'ore.

All'inizio sembra graziosa ma un po’ noiosa l'isola, invece...








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