martedì 7 agosto 2012

C'eravamo quasi arresi - Annapurna, Nepal


Ricordi della primavera 2003
Avevo deciso di arrivarci da solo: se uno deve fare la pazzia, pensavo, tanto vale farla in grande stile. Pazzia poi per modo di dire. A livello personale forse, perché io non sono proprio un patito di trekking in montagna, anzi sono un animale piuttosto cittadino: mi piacciono le scampagnate ma solo quando non durano troppo, e avventurarmi in un percorso himalayano che ci vorranno circa dieci giorni per completarlo, beh, un po' una pazzia per me lo è. In generale però si tratta di un'esperienza sicura. Il sentiero che da Pokhara conduce al campo base dell'Annapurna (ABC dalle iniziali del nome in inglese) è molto popolare e battuto, è formato per grandi tratti da scalini di pietra, è puntellato da villaggi a intervalli regolari di non più di due ore di cammino e se uno ha dei problemi con l'altitudine o di altro tipo può sempre girarsi e scendere al centro più vicino.
Volevo salire con calma, osservare, leggere, scrivere, fare quattro chiacchiere con qualcuno incontrato la sera ai rifugi, magari procedere assieme per qualche tratto ma poi rientrare nell'intimità del gruppetto formato da me stesso, lo zaino, il libro, la penna e il quaderno. Invece a Pokhara, quando mi accingevo a fare il giro dei negozietti del centro dove si noleggia l'attrezzatura (niente di troppo tecnico, quelle quattro cose che servono a chi è equipaggiato soltanto per viaggiare ai tropici), incontro un ragazzo tedesco che ha in mente di affrontare il viaggio esattamente con lo stesso spirito, l'unica differenza: una bella macchina fotografica al posto di penna e quaderno. Franz (nome inventato, perché quello vero dopo tutti questi anni purtroppo l'ho dimenticato) è un fotografo amatoriale. Cioè, a me, profano totale, sembra bravissimo, ma lui dice di farlo soltanto per divertimento. Si guadagna da vivere lavorando in qualche fabbrica. Franz è simpatico, piuttosto taciturno, porta una zazzera di lunghissimi dreadlock e un anellino sul bordo sinistro del labbro inferiore ma non ha nulla da spartire con le decine di egocentrici, banali, rumorosi e pedanti giovinastri muniti degli stessi segni di riconoscimento che ho incontrato negli ultimi due anni nel sud est asiatico e in India. Insomma: un incontro fatale con un compagno di viaggio ideale, era inevitabile che si decidesse di fare bandaccia e scalare assieme questo colosso di roccia e neve. 
Noleggiata l'attrezzatura mettiamo negli zaini lo stretto necessario e lasciamo al proprietario della guest house il resto. Poi, prima dell'alba del day 1, partiamo. Ogni giorno attraverseremo decine di villaggi, l'altitudine sarà sempre diversa, il paesaggio variegato, incontreremo gente di tutti i tipi ma tra le cose che non cambieranno mai ci saranno il menu del pranzo e gli orari: sveglia poco dopo le quattro, partenza entro le sei e termine della camminata verso le due di pomeriggio. Non ho mai capito perché si debba cominciare e terminare l'attività principale così presto - io mi sveglierei tranquillamente anche verso le sei, che mi sembra comunque una bella levataccia per uno a cui in fondo non corre dietro nessuno - ma visto che questo non è proprio il mio habitat e che fanno tutti così mi ci sono adeguato senza fare storie.
Non sono un fanatico ma onestamente ci tengo a vincere la sfida con me stesso, senza cedimenti fisici o psichici, e a completare l'impresa. Però temo seriamente il crollo fisico: sono mesi che passeggio regolarmente ma di attività di un certo peso non ne faccio da anni. 
Il primo giorno sorprendentemente arriviamo al villaggio delle due di pomeriggio piuttosto in forma, più affamati che stanchi. E il primo pranzo di dal bhat, pur essendo costituito da una singola pietanza, mi sembra un banchetto da cenone di San Silvestro. Ci facciamo riempire il piatto di riso al vapore due o tre volte e non manchiamo mai di spolverarlo fino all'ultimo chicco assieme al dal di lenticchie. Sempre lo stesso piatto, ogni giorno, preparato in rifugi diversi, anche con ricette leggermente differenti, sempre anelato durante le ultime due o tre ore di camminata, sempre squisito, sempre sbafato come se non lo assaggiassimo da mesi, sempre efficace nell'apporto di carboidrati e proteine. Dal bhat: una monotonia del gusto che crea assuefazione per il palato. Chi se lo sarebbe aspettato?
La mattina (beh, in realtà è ancora notte) del secondo giorno i guai ci travolgono tutti all'improvviso. Ci svegliamo a fatica, le gambe sono indolenzite, i movimenti impacciati: primi presagi di quello che si rivelerà un calvario.
Invece della singola pausa per un te a metà strada sostiamo ogni due ore, poi ogni ora, ogni mezzora, infine ci fermiamo ovunque ci sia da fermarsi. L'ultima tappa ha dell'epico e del ridicolo al contempo. E dire che già ci stiamo accontentando di una distanza notevolmente più breve del previsto. Camminiamo ingobbiti sotto il peso degli zaini sui tratti piani e quelli inclinati li attraversiamo strisciando col passo del leopardo. A cinquanta metri dall'arrivo, dopo aver impiegato due minuti per scalare un gradino, ci accasciamo sugli scalini, in mezzo al sentiero. Siamo paonazzi, madidi di sudore, respiriamo affannosamente, facciamo fatica anche a muovere un dito. Anzi, ci rifiuteremmo di farlo persino sotto tortura. Chi ha bisogno di passare deve per forza scavalcarci. Alcuni ci si rivolgono preoccupati. Noi rispondiamo senza emettere suono, con un'occhiata e un movimento del capo che può essere rilevato soltanto con strumentazioni avanzatissime. Significa "stiamo bene", nel senso di non stiamo morendo, siamo solo esausti, non vi preoccupate.
Alcuni minuti più tardi mi sembra di avvertire una piccola onda di energia che ritorna a investire il nocciolo centrale del mio corpo, a grande distanza dalle membra: forse è inutilizzabile ma temo che se me la lascio sfuggire resterò qui fino a sera, e mi lascerò addormentare sul pavimento, preferendo la resa risolutrice alla lotta per la sopravvivenza, un po' come quei poveri scalatori che si abbandonano alla tentazione del sonno indotta dall'assideramento. Allora mi aggrappo a quell'onda e mi alzo racimolando ogni briciolo di forza a disposizione, come se avessi sulle spalle un carico di duecento chili, anche se il mio zaino ovviamente l'ho buttato senza troppa cura sul ciglio del sentiero quando ci siamo fermati. Lo afferro, me lo carico di sbieco e come Terminator invalido che striscia verso la pressa idraulica avanzo lungo gli ultimi scalini. Ogni avanzata mi costa percentuali di energia che non riesco a calcolare rispetto al totale che mi resta. Perché non ho idea di quanta me ne resti, sempre che  me ne resti. Temo siano botte da due cifre per carburare ogni singolo movimento di gomito o di ginocchio. Arrivo miracolosamente in cima, getto lo zaino. Mi rivolgo a Franz che mi risponde come entrambi rispondevamo a chi ci scavalcava poco fa. Allora chiudo gli occhi, respiro a fondo, sciolgo i muscoli di gambe e schiena e scendo gli scalini con lo stato d'animo di un neofita che si tuffa da una rupe di Acapulco. Raggiungo Franz, afferro il suo zaino, lo aiuto ad alzarsi e assieme saliamo fino al rifugio. Crolliamo sulle sedie. Ci portano te caldo e dal bhat. Il profumo del cibo ci risveglia. Con le prime cucchiaiate cerchiamo di farne assorbire al corpo l'energia, le fibre, le proteine, i minerali. Poi ci sciogliamo esausti sugli schienali.
Meditiamo la ritirata, ma è una decisione che si può comunque rimandare a domani: stanotte in ogni caso dormiremo qui.
Il mattino seguente ci sorprende una vitalità insperata. E' tutta un'altra storia rispetto a ieri. Scattiamo baldanzosi, flessibili, agili, invincibili. Ogni movimento è il presagio di una giornata di gloria. Anzi: di giornate di gloria, fino alla vetta e poi giù al ritorno. E così sarà. Superare quell'ultima fatica, ristorarci e riposarci è bastato al nostro corpo per capire che deve piegarsi all'evidenza, abituarsi e adattarsi. Noi non ci arrenderemo. E saranno giorni stupendi - altri tre in salita, per un totale di cinque, e quattro in discesa - tra i boschi umidi, le rupi, il ghiaccio, l'aria cristallina, i ruscelli, la prima neve, i villaggi preindustriali, i gruppetti davanti a un focolare, i bambini coi moccoli che sembra piangano mentre invece stanno ridendo, il freddo che ti pizzica al mattino e il raggio di sole che comincia a massaggiarti la pelle alla prima pausa per il te, i pancake e le pizze che non c'entrerebbero nulla ma che condite con le chiacchiere da rifugio diventano quasi essenziali. Non soffriremo per problemi di altitudine e arrivati al campo base ci godremo il panorama a 360 gradi delle cime del massiccio. Mangeremo dal bhat ogni giorno a pranzo e porcherie fuori luogo alla sera, quando sorseggiando un te rideremo per le fesserie degli altri scalatori, storie che in pianura non varrebbero un centesimo.
Una volta tornati a valle per alcuni giorni avrò spesso la sensazione di essere imbottigliato nel traffico metropolitano con una Ferrari (non che poi abbia davvero idea di che sensazione si provi). Devo scattare, muovere i passi in salita o in discesa, ho bisogno di un carico sulle spalle, che cos'è questo incedere lento, senza meta, dinoccolato, leggero su cosce e polpacci, su strade asfaltate e marciapiedi, tra caffè, ristoranti e bar?
Ma l'ho già detto prima, sono un animale cittadino. E in meno di una settimana mi sono dimenticato tutto: non è la memoria del cervello ad essere svanita, tant'è vero che a distanza di anni ricordo ancora tutto e riesco a scriverlo qui, ma quella dei muscoli ammosciati, delle dolci abitudini, dei soffici vizi, delle lievi assuefazioni. Il libro sulla poltroncina al caffè, gli appunti sul quaderno all'ombra di un albero nel parco, le passeggiate al tramonto, i menu variegati, le birre alla sera. 
Sì, dopotutto il trekking sull'Annapurna è stata una pazzia. Un'inebriante, sorprendente e volatile pazzia. 

Foto di MikeBehnken (CC)

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