giovedì 2 settembre 2010

Intrappolato - Malesia

Segnale in una corriera thai, di Fabio
Avevo captato il primo segnale quando gironzolavo nel terminal. Il sussulto di un muscolo, un'ondina, nulla più. L'avevo ignorato come si fa con la pulsazione improvvisa di una vena sulla tempia, un nervo del braccio che scatta di suo. O come uno di quei pensieri che si lasciano dietro una sensazione ma non un ricordo preciso. Probabilmente l'ho portato a galla dal fondo del Mar della Coscienza soltanto a posteriori, per associazione di idee, collegando gli eventi. Gli eventi, appunto, andiamo a seguire il loro sviluppo.
Un'ora dopo, quando già sono intrappolato tra i sedili di una corriera sottozero, quel primo movimento ha cominciato a riprodursi: onde e sussulti si susseguono come bolle nell'acqua in una pentola. Sfortunatamente però, la pentola è il mio ventre e l'acqua bollente è un lancinante attacco di diarrea. All'inizio cerchi di tenere la situazione sotto controllo, rilasciando con discrezione un filino di pressione, respirando a fondo, contraendo e distendendo a ciclo continuo. Ma hai voglia a controllare la situazione quando attraversi la Malesia per lungo. Nel giro di poco hai esaurito i gradi di libertà. 
Percorro il corridoio e mi avvicino al conducente, gli chiedo di fermarsi ma questo non mi sente. Ripeto, nulla, lo imploro ma lui sembra una sfinge baffuta appollaiata sul volante. Ha sentito benissimo ma se ne frega: vuole arrivare alla sua stazione di servizio di fiducia dove percepisce una commissione per ogni passeggero depositato.
Vorrei imitare il protagonista di una leggenda dei backpackers d'India. In una situazione simile questo viaggiatore mitologico ha richiesto la fermata, l'indiano ha sorriso e l'ha accontentato. Poi un secondo attacco e un'altra richiesta di sosta. Questa volta l'autista ha sbuffato ma si è comunque fermato. Alla terza supplica però non l'ha più ascoltato. Lo straniero mestamente si è sfilato la maglietta, l'ha stesa sul sedile e ci ha scaricato sopra tre buoni minuti di crampi, tra il caldo, le mosche e gli sguardi schifati dei vicini. Poi l'ha raccolta, come un fagotto da picnic, ha dato un'occhiata fuori e l'ha gettata dal finestrino.
Ma io non ho la stoffa dell'eroe leggendario e questa non è l'India, dove l'inverosimile accade. Mi tocca guadare le fitte, contando le contrazioni. Lo faccio all'entrata, di fianco al mio torturatore, che almeno il senso di colpa gli eroda l'arroganza. Quando arriviamo alla stazione mi faccio spazio a spallate, corro in bagno e poi starò bene. Dopo lo sbandamento iniziale i miei anticorpi si sono riorganizzati: memori dei mesi asiatici di duro allenamento si sono ricompattati in fretta per respingere l'assalto. 
Ma di sicuro per un po' me la sono vista brutta.

Malesia, settembre 2003

P.S. Come chi mi legge regolarmente avrà notato, per qualche insondabile ragione ultimamente mi tornano alla mente vari aneddoti con un argomento in comune. Involontariamente sto redigendo una sorta di Saga della sciolta. Gli altri episodi li potete trovare qui.

2 commenti:

  1. Ah! Come ti capisco! (tra l'altro, geniale l'idea della maglietta, ma forse sarebbe meglio una busta di plastica...)

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  2. E' vero...quegli indiani che lo guardavano schifati avrebbero dovuto suggerirglielo!

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