mercoledì 23 novembre 2011

Traffico complesso - Saigon, Vietnam

Motorini a Saigon
Il traffico motociclistico vietnamita è un affare piuttosto complesso. Quando devi affrontarlo per attraversare un incrocio da principio ti può sembrare che quella in cui ti stai per imbarcare sia un'impresa impossibile. Poi metti assieme tutte le virtù utili al caso che possiedi: intuito, prontezza di riflessi, esperienza passata in situazioni simili. E anche una dose massiccia di follia. Quindi fai il primo passo. Ogni mossa dev'essere calibrata accuratamente: non puoi permetterti alcun errore grossolano, pena l'investimento immediato; per quelli di lieve entità invece ci puoi mettere una pezza con un colpo di reni o un numero da equilibrista. Ogni avanzamento dev'essere accuratamente pianificato e dimensionato in quanto a tempismo, velocità e lunghezza massima. Al momento giusto è infatti necessario non farsi tentare dall'ingordigia, accontentarsi dello spazio guadagnato, fermarsi (anche in mezzo alla carreggiata) e concentrarsi immediatamente sul prossimo tentativo, un po' come in una partita di football americano.
Il pedone che si immerge in un tipico flusso continuo di motorini a Saigon deve muoversi in maniera decisa, inserendosi al meglio tra la scia di chi è appena passato e la traiettoria di chi sta arrivando, guardando l'avversario dritto negli occhi. I motociclisti devono infatti capire al volo le intenzioni di chi attraversa. Ogni avanzata va eseguita lestamente ma senza scatti improvvisi, che confonderebbero inevitabilmente chi invece deve poter decidere senza esitazione se passarci davanti o dietro. 
Ma i pedoni in fin dei conti sono soltanto una parte del problema: la serie ininterrotta di zig-zag, frenate brusche e spostamenti laterali improvvisi rendono molto probabili gli impatti tra le stesse moto.
La prima sera a Saigon, dopo dieci anni dall'ultima visita, durante la camminata esplorativa che utilizzo sempre per prendere confidenza con una città, quando ho già assistito al solito patetico battibecco con insulti e schiaffi a vuoto tra un turista anglofono e un venditore locale di magliette false mi imbatto finalmente nella scena che dal primo passo fuori dall'aeroporto uno continua a chiedersi come mai non gli sia ancora capitato di osservare. Ci sono due motorini rovesciati al centro della carreggiata mentre un crocchio di persone circonda un povero cristo che sta seduto sull'asfalto reggendosi la testa. Tra le gambe una pozzanghera di sangue. Per fortuna si capisce subito che si tratta soltanto di un'escoriazione tra sopracciglio e tempia, niente di grave. Gli astanti si danno da fare con gesti di solidarietà tanto pronti quanto sensati. Evidentemente qui tutti sono abituati a questo genere di interventi. Senza panico e confusione, seguendo una sequenza sorprendentemente appropriata individui diversi portano allo sventurato delle salviette, acqua e infine dei cerotti. Il poveretto cambia gradualmente umore: da spaesato e disperato diventa lucido e calmo. Quando qualcuno azzarda una battuta si mette persino a ridere con gli altri. Il tizio che lo ha messo a terra gli offre una sigaretta: lui la accetta e la risata collettiva che ne segue segna il finale del piccolo dramma. Il ferito si rialza, mette in moto e se ne va mentre tutti ancora sorridono: nessuno si è lamentato, ha accertato i danni o cercato un risarcimento.
Un dramma minore tipico del posto, che il traffico di Saigon - come i vecchi AK che giacciono arrugginiti e impolverati nei musei della guerra contro gli americani - spara a ripetizione ogni giorno sui suoi abitanti.

Un paio di video che ho registrato a Saigon.

1. Traffico caotico a un incrocio


2. Traffico pesante al crepuscolo


martedì 15 novembre 2011

Personaggi delle strade asiatiche

Un paziente di un grande ospedale psichiatrico osserva il mondo al di là del cancello. Si fa coraggio, ferma un passante e gli chiede: "Scusi, una curiosità, quanti siete là dentro?"
Vecchia barzelletta sui punti di vista.

Cominciamo con Kuala Lumpur.

Il primo è un indiano, torso nudo, pantaloni svolazzanti in tela leggera, piedi scalzi. Ha i capelli lunghi e un po' arruffati, la pelle scura - impronta di cromosomi del Tamil. Le ossa esposte e i muscoli guizzanti, sottili e tesi. Potrebbe essere un sadhu a cui un ladro o una calamità naturale ha strappato il manto color zafferano. Il viso non è magro come altri visi magri: è un teschio foderato di cuoio scuro e peluria ispida, e poco più. Gli occhi sono due riflettori enormi, brillanti, sgranati, da bestia braccata. Lo incontri dappertutto in centro città, mentre cammina quasi correndo, scappando dal nemico, immaginario soltanto in parte, che lo insegue da anni dovunque lui vada.

Poi c'è il barbuto con la banconota perennemente nella mano destra, con cui la gira e la rigira, facendola volteggiare tra le dita come un prestigiatore da strada mentre la osserva con attenzione, studiandola come se fosse un oggetto misterioso precipitato lì da un altro mondo o un altro tempo. Nel frattempo la sinistra aleggia leggiadra, conducendo un'orchestra di fantasmi che, a prescindere dalla direzione verso cui sta rivolto, è sempre sistemata davanti a lui.

In un'altra strada incontri quello che non smette mai di parlare tra sé e sé, velocemente, farfugliando, a bassa voce, in chissà quale lingua, percorrendo perennemente il marciapiedi per linee trasversali, dal negozio alla strada, dalla strada al portone, dal cancello alla strada...

Un altro tizio coi capelli lunghi e il torso nudo si muove sempre tenendosi il pantaloni con una mano, come se fossero un po' larghi e non indossasse una cintura per reggerli.

Ce n'è pure uno che sta sdraiato sul marciapiedi, con la schiena poggiata al muro dell'edificio e le gambe distese in avanti, a fare lo sgambetto ai passanti benestanti e per bene. La stessa sigaretta, sempre spenta, in una mano, mentre l'altra suona un pianoforte invisibile. Bisbigliando qualcosa con sguardo compiaciuto se ne sta sdraiato non tanto con l'aria di chi non sa dove altro andare ma come se questo fosse il divano più comodo nel salotto più in della città.

Tuttavia la figura di spicco tra i personaggi da strada a KL, il loro archetipo, la loro quintessenza indiscussa, è quello del globo.

Lasciata la capitale malesiana, non appena sbarcati a Bangkok, oltre il finestrino del taxi appare il personaggio più bizzarro di tutti. Un individuo magro, con i capelli a scopa e la barba di stoppa, circola indossando soltanto una maglietta sozza: è totalmente nudo dall'ombelico agli stinchi, la pelle protetta da un sottile strato di oleosa fuliggine. Due sacchetti imbottiti, legati alle caviglie, gli avvolgono i piedi come Moon Boot artigianali. Con altre borse in mano o appese con dello spago a collo e spalle attende il verde sul marciapiedi tra casalinghe e impiegati in cravatta. E' una visione talmente surreale che potrebbe essere un miraggio.

La vecchietta della foto la incontrai a Hoian, in Vietnam. Mi si avvicinò elemosinando, ingobbita: mille rughe le si contorcevano sulla faccia, continuando a ricomporre nuove forme attorno ai quattro oggetti fissi mentre lei mi implorava di darle qualcosa. Tirai fuori una banconota dalla tasca e gliela consegnai, assieme a un sorriso divertito. Lei l'afferrò e lestamente se la infilò in bocca. Non so se in segno di riconoscenza, per metterla al sicuro o come gesto scaramantico. So soltanto che se ne andò, stringendo quel prezioso dono da poco tra le labbra.

venerdì 11 novembre 2011

Arroganza da 11.11.11 - Koh Samui, Thailandia

Una coppia di sfigati ha celebrato il matrimonio sulla spiaggia di Chaweng il giorno 11.11.11 credendo che la data abbia proprietà propiziatorie. Con quel tipo di arroganza figlia di ricchezza e potere hanno ordinato a due guardie di fermare i passanti sulla battigia (uno spazio pubblico) così che solo il mare apparisse sullo sfondo delle loro foto dozzinali.
Un ambulante del posto, vecchio e debole, sudato, piegato sotto il peso della sua cassa di gelati, che stava soltanto cercando di guadagnarsi da vivere, ne ha avuto abbastanza di quelle stronzate da ragazzini viziati, ha aggirato il manganello della guardia e si è incamminato, rovinando quella messinscena falsa e pretenziosa...e mi ha rallegrato la giornata.

lunedì 7 novembre 2011

Tradizioni in via di estinzione - Mosca, Russia

Riumochnaya na Bolshoi Nikitskoi (in russo Рюмочная на Большой Никитской, ovvero "Bicchierino da vodka nella via Nikitskaya") è uno degli ultimi, forse l'ultimo locale autentico del suo genere a Mosca. Assomiglia a una vecchia osteria italiana: pochi tavoli squadrati sparpagliati in una sala non molto grande, tendine leggere alle finestre che danno sul marciapiedi, il bancone di legno, così come gli scaffali per le bottiglie e i pannelli che rivestono le pareti. Un bagno sgangherato e uno sgabuzzino/magazzino. Dicano quel che vogliono i sostenitori della modernità sofisticata a tutti i costi, per me non serve molto altro per passare un paio di quelle ore di cui sono fatti i buoni ricordi.
Appena entrati si sceglie un tavolo (dopo le sei possono essere tutti occupati), poi si va a ordinare direttamente al banco, sul quale stanno in mostra dei vassoi con i piatti del giorno. C'è un po' di tutto: carne, pesce, verdura, pietanze sia cotte che crude. Mentre la signora scalda le porzioni nel microonde si ordina da bene. Specialità della casa, va da sé, la vodka. La si ordina in grammi (sì, in grammi, quindi a peso, non in numero di bottiglie o bicchieri e nemmeno utilizzando unità di misura volumetriche). 300 grammi riempiono un'ampolla, quantità che basta a far vedere le farfalline a due persone equipaggiate con fegati ben corazzati fino all'ora di andare a dormire.
Quando tutto è sistemato sul tavolo mandiamo giù il primo bicchierino, tutto d'un fiato. Poi per creare il necessario effetto spugna ci sbafiamo uno squisito petto di pollo farcito con panna acida, delle lenticchie e un po' di pane. 
"Tra il primo e il secondo bicchiere non si parla!" La regola russa garantisce che tra le prime due sessioni non trascorra troppo tempo. Ma C. e io siamo degli inguaribili italiani e non ce la facciamo a sottoporci a questo rito da setta alcolica senza lasciarci andare a un paio di commenti prima di buttar giù il secondo bicchiere che, per precauzione, riempiamo solo a metà. Il cibo è davvero buono e ne ordiniamo un altro giro. 
Anche la clientela, conformandosi allo stile del locale, è caratteristica. I personaggi più pittoreschi sono degli artisti sconosciuti, semi alcolizzati. Un poeta i cui versi non hanno mai visto una tipografia ci sente parlare in italiano e si avvicina. Capelli e barba bianca, già brillo, in un inglese rudimentale si lascia andare a passatempi da bar che funzionerebbero anche da noi: battute su Putin e Berlusconi e commenti sull'immigrazione incontrollata, che nel caso di Mosca proviene dalle ex repubbliche sovietiche caucasiche e orientali. Quando la lingua franca non lo aiuta parla in russo con C., il quale traduce per me.
Poi si allontana un attimo, sgraffigna la lattina di Sprite di un signore che legge il giornale a un altro tavolo e la poggia sul suo. L'altro - una sua versione più giovane, con barba e capelli ancora neri - prima sbuffa e si lamenta un po' e poi si unisce a lui. Il nuovo arrivato parla un inglese molto più forbito e si definisce artista anch'egli, senza però specificare il campo. 
Dopo un'altra oretta di battute, commenti, chiacchiere, traduzioni, spuntini e vodka ci alziamo, ci salutiamo come fanno tutti gli ubriaconi che si rispettino - ad abbracci energici, strette di mano scomposte, alitate pesanti e frasi sentimentali - e poi usciamo barcollando dal locale, gustandoci il pizzicotto del freddo d'ottobre sulle guance infiammate dallo spirito. 
Un pezzo di tradizione che resiste nel pieno centro di Mosca, proprio davanti al conservatorio. Così come accanto ai nuovi centri benessere di lusso resistono le banye popolari, centri con saune e bagni turchi che consistono in grandi stanzoni illuminati male e arredati peggio, impianti semplici e strutture alla buona, dove gruppi di amici o colleghi passano qualche ora a chiacchierare e rilassarsi, mentre sudano vicino al forno, rabbrividiscono nella piscina ghiacciata, si frustano con ramoscelli di betulla o quercia o sorseggiano te e spiluccano spuntini all'angolo ristoro.
Sarebbe bastato poco anche da noi per avere ancora la possibilità di godersi una serata così: evitare di sostituire almeno un quarto delle nostre vecchie osterie con pizzerie alla moda o - peggio ancora - pretenziosi wine bar. Ma nella gran parte delle città che conosco lo scempio è un servizio fornito in maniera integrale, e quel piccolo sforzo di conservazione non è stato fatto. Il semplice menu dei vini di un tempo (1. rosso, 2. bianco, 3. prosecco, tutti rigorosamente "della casa") è stato sostituito da una lista di nomi per me incomprensibili che al contrario di molta gente non provo alcun piacere a far finta di conoscere. Bottiglie con splendide etichette di provenienze altisonanti, che nulla hanno a che fare col territorio e la cultura locali, serviti al bicchiere (fantastici calici di cristallo che con saccenteria dell'ultima ora tutti impugnano per lo stelo, rigonfi come botti ma riempiti con parsimonia per un terzo) al prezzo di una bottiglia del vecchio buon velenaccio
I tempi cambiano, le tradizioni muoiono. Io, da buon nostalgico, mi diverto a cercarle altrove.