lunedì 18 aprile 2011

Liberalizzazioni prigioniere

Foto di 27147 (CC)
Questo non è un luogo in cui si parla spesso di politica italiana e quando lo si fa, come in questo caso, si prende spunto da un confronto con i paesi che fanno da ambientazione alla maggior parte degli altri post. L'oggetto dell'osservazione da cui partiamo oggi è il taxi, o meglio l'utilizzo che se ne fa.
C'è stato un momento in cui un governo italiano mi aveva quasi convinto sulle proprie capacità (e quelle della classe politica nazionale in genere) di risolvere alcuni dei problemi che affliggono il paese, di riformarlo e metterlo al passo coi tempi, passando dalle chiacchiere elettorali ai fatti legislativi. Purtroppo ci hanno messo poco a farmi ricredere e proprio il fatto che nel giro di pochi giorni mi abbiano illuso e poi deluso ha reso il colpo ancor più doloroso. Sono stato tentato a lasciarmi andare verso una deriva anarchico-nichilista-menefreghista che non è propria della mia natura. "Ma che vi dovrei ascoltare - per non dire votare - a fare?" è quello che mi sono chiesto spesso da allora.
Il fatto. Durante l'ultimo governo di sinistra presieduto da Romano Prodi, Pierluigi Bersani - allora ministro per lo sviluppo economico - porta avanti un progetto per la liberalizzazione delle licenze dei taxi. A quella riforma ne sarebbero dovute seguire altre - per questo il fallimento dell'iniziativa fu un segnale infausto - ma per me proprio questa aveva un significato particolare. Chiunque sia stato come me a Londra, Buenos Aires, San Paolo, Singapore, Hong Kong, Kuala Lumpur, Shanghai, Bangkok ma anche, per quel che mi è stato detto, a New York o Tel Aviv, sa che il concetto che in Italia abbiamo del taxi è anacronistico e assurdo: un mezzo di trasporto esclusivo per ricchi, o per chi può farsi rimborsare la tratta da un'azienda o da un cliente. Un po' come una scintillante carrozza con cocchiere trainata da poderosi puledri bianchi per un conte di un romanzo tolstojano. Che fesseria. Nelle città che elencavo poco fa (ne ho appositamente incluse di più e meno avanzate, per dimostrare che non è necessariamente una questione di PIL o di livelli salariali) il taxi è sì un mezzo di locomozione individuale (che non è nemmeno del tutto vero, perché amici o colleghi lo possono condividere), ma certamente non di lusso. In certi paesi come la Thailandia e l'India ce ne sono anche di sgangherati a tre ruote, simili alle nostre Api Piaggio. Ed esistono persino i moto-taxi, non per i plichi urgenti, per le persone! La relazione che c'è tra mezzi collettivi come l'autobus, la metropolitana o il tram e il taxi è un po' come quella che corre tra un dormitorio in un ostello e una stanza in un alberghetto. Ma mica una suite all'Hilton! In quel caso staremmo parlando di una chilometrica limousine con autista in livrea, il famigerato Ambrogio della pubblicità dei cioccolatini insomma. Il taxi, almeno una volta ogni tanto, in quelle città lo possono prendere quasi tutti, è più caro di altre opzioni ma alle volte conviene.
Perché queste differenze? Ma è semplice, perché in questi paesi la licenza la può ottenere chiunque possa permettersi di comprarsi o noleggiare un auto. Questo abbatte l'oligopolio e di conseguenza le tariffe. Da noi invece di licenze ce n'è un numero fisso (e ridottissimo) e chi vuole intraprendere la professione deve comprarne una da qualcuno che sia disposto a cederla, pagandola ovviamente a prezzi da capogiro. I pochi privilegiati possono permettersi quindi di imporre tariffe elevatissime.
La liberalizzazione delle licenze e la riduzione dei prezzi avrebbe una lunga serie di vantaggi per i cittadini. Me ne vengono in mente solo alcuni, ma sono sicuro che ce ne sono molti altri.
- Posti di lavoro per chi non ha qualifiche particolari, precari, disoccupati e immigrati. Hai una patente? Trovi un'azienda che ti affitta l'auto? Vai!
- L'immissione nel traffico urbano di alcune centinaia di taxi toglierebbe dalle strade un numero molto maggiore di auto private, soprattutto nelle ore di punta. Quindi vantaggi ambientali, di sicurezza ed energetici. Ma anche per la qualità della vita in genere.
- Possibilità di uscire la notte, bersi mezzo litro di vino e tornare a casa senza il rischio di vedersi ritirare la patente, di schiantarsi contro un traliccio o falcidiare qualche pedone.
Certo ci sono anche degli svantaggi, ma quelli che mi sovvengono sono soltanto a carico di un gruppo ristretto di individui che attualmente godono di grossi privilegi (ingiustamente e da troppo tempo): i tassisti e i magnati del settore automobilistico in particolare.
Come finì la vicenda italiana? All'italiana, per l'appunto. I tassisti di Roma organizzarono una protesta bloccando il traffico della metropoli, contro un'iniziativa intrapresa da un governo eletto dalla maggioranza del paese (e nella circostanza sostenuto anche da grandi fette della minoranza che non l'aveva votato). Parte dell'opposizione (Alleanza Nazionale in primis) prese la palla al balzo e sostenne i tassisti. Il governo, piegandosi alla volontà di alcune centinaia di prepotenti e ignorando gli interessi della stragrande maggioranza dei cittadini - per non parlare del proprio elettorato - si arrese. Io fui sbalordito. Avrei sostenuto l'azione dell'esecutivo a spada tratta, anche se si fosse trattato non di Roma ma della mia città. Quello per me fu il sintomo evidente di una malattia forse incurabile, che impossibilita lo stato a progredire, a risolvere i conflitti interni tenendo conto degli interessi nazionali, a opporsi con decisione alle minacce di lobbie anche minuscole. Un mix tossico di alcuni dei peggiori mali nazionali: governi forti con i deboli e deboli coi forti, anteposizione di meschini obiettivi di partito all'interesse della comunità, lobbismo nella sua forma peggiore, utilizzo improprio di strumenti democratici come quello dello sciopero, il senso di impotenza della popolazione che osserva - muta e immobile - un gruppo di ladruncoli intenti a svaligiarle la cassaforte dei diritti.
Da allora ogni proclama della classe dirigente mi coglie in uno stato di scetticismo apatico, se non di sarcastico cinismo. 
Da un punto di vista individualistico - quasi egoistico - posso dire che per fortuna vivo per molti mesi all'anno in posti con situazioni profondamente diverse, per giunta da straniero, cosa che spesso aiuta a non sentirsi troppo coinvolti. Ma quando penso al mio paese, che tristezza mi viene.

venerdì 15 aprile 2011

Troppo tardi - Kuala Lumpur, Malesia

An unattractive angle, by Arty Smokes (CC)
C'è un banco in fondo alla sala, un registro sopra il banco e un uomo all'altro lato. Un altro uomo sta pagando la stanza, gli ha consegnato il denaro e aspetta il resto. Quell'altro uomo sono io. I miei occhi scorrono sovrappensiero lungo la lista di nomi, nazionalità e numeri di passaporto segnati sul registro. E' curiosità solo in piccola parte, più che altro sto ammazzando il tempo. A un tratto ho l'impressione che l'uomo mi stia osservando e che stia cercando di attirare la mia attenzione per consegnarmi le banconote. Quando alzo lo sguardo mi accorgo però che mi sta fissando, con un'espressione severa dipinta sul volto.
"Non sei autorizzato a leggerlo!"
"Mi dispiace, non volevo...non sapevo che non fosse..."
"Se non è tuo, non è tuo, e non lo leggi."
"...ma è aperto, proprio davanti a me..."
"Sono informazioni riservate, per legge le possiamo far vedere soltanto alla polizia."
Mi ha zittito. Predo i soldi e me ne vado, turbato, ferito, senza essere stato in grado di esprimere ciò che sentivo, di fargli capire che non aveva il diritto di rimproverarmi in quel modo...ci vuole così poco per neutralizzare il mio sistema di autodifesa alle volte.
Questo successe nel 2003, in un piccolo hotel a Kuala Lumpur. Avrei potuto dimenticare l'incidente in un'ora, ma per qualche ragione - così come altri episodi dello stesso tipo - è rimasto incastrato da qualche parte sul fondo della mia mente. Di tanto in tanto mi ritrovo a pensarci, mentre tutte le parole che quel tizio arrogante meritava di sentirsi dire sgorgano dal mio cervello, ribattendo a qualsiasi sua risposta.
"Se non è tuo, non lo leggi!"
"E se lei non vuole che gli ospiti lo leggano, non lo lascia aperto sul bancone, girato verso di loro."
"Sono informazioni riservate, per legge le possiamo far vedere soltanto alla polizia."
"Allora quello che ha fatto è ancora più grave, visto che ha lasciato aperto sul banco un registro che LEI stesso avrebbe dovuto tenere nascosto."
E poi il tocco finale, quello più soddisfacente, quello che lo umilierà a tal punto da farmi provare quasi pena per lui, mentre il suo baffone folto e lucido starà tremando e lui spingerà le labbra all'infuori in un broncio infantile, incapace di dire anche solo un'altra parola.
"Le sembra che sia troppo duro con lei? Allora non doveva essere duro con me. Non le va che la faccia sentire in colpa? Allora non doveva fare sentire in colpa me. Non vuole che la gente la riprenda come un bambino e le manchi di rispetto? Allora non deve riprendere gli altri come fossero bambini e mancare loro di rispetto. Non credo ci sia bisogno di continuare, il trucco ormai lo ha capito, no?
Ma io ero risentito, e lui no, e dal momento che non fui in grado di dire nulla avrà pensato di avere ragione. E io ho odiato quella sensazione e ancora mi capita di pensarci a distanza di tanti anni. E non sono nemmeno sicuro che se succedesse di nuovo saperei finalmente cosa dire.

martedì 5 aprile 2011

Io preferivo il Terzani prima maniera

Sempre più spesso appaiono nei giornali e in TV servizi su Tiziano Terzani, il famoso giornalista, esperto d'oriente, scomparso alcuni anni orsono. Un regista di recente ha pure girato un film sulla sua vita. Un personaggio famoso dunque, celebrato, strumentalizzato anche, ma da quando in realtà?
Quasi dieci anni fa - nel settembre 2001, quando arrivai in Asia - Terzani era pressoché sconosciuto al grande pubblico italiano. Certo, c'era chi aveva letto qualche suo contributo sul Corriere della Sera o la Repubblica, ma a causa forse del fatto che aveva quasi sempre lavorato come inviato di un giornale straniero (Der Spiegel) non figurava tra le firme più famose in patria. Persino il bestseller che lo avrebbe reso finalmente e definitivamente celebre (Un indovino mi disse), pur essendo in circolazione già dalla metà degli anni novanta, non era ancora tra i titoli più venduti nelle librerie italiane al principio del nuovo millennio. Nella sezione "viaggi in oriente" di solito i volumi che andavano per la maggiore erano quelli di Bettinelli e Ruggeri, reportage tutto sommato di livello inferiore.
Io Terzani lo scoprii nel sud est asiatico, dove godeva di una piccola fama tra gli italiani che bazzicavano da quelle parti, fama che crebbe anche grazie allo storico scambio di articoli con la Fallaci sugli attentati dell'11 settembre. Questi italiani in Asia, tra l'altro, erano davvero pochi a quei tempi, in confronto al gran numero di turisti che volano oggigiorno da Milano o Roma verso Bangkok, Kuala Lumpur, Hong Kong o Singapore: la maggior parte degli stranieri che battevano la zona proveniva infatti dai paesi anglofoni, dal nord Europa o dal Giappone.
All'inizio, colpito dalla sua originalità e da quel suo modo accattivante di raccontare gli aspetti più curiosi delle società orientali, avevo pensato di essere rimasto uno degli ultimi sprovveduti a non averlo ancora sentito nominare. Poi, via via che proponevo i suoi titoli a chi mi chiedeva un consiglio su qualche libro sull'Asia, mi rendevo conto che questo autore era rimasto misteriosamente sconosciuto ai più. Non sono stato di certo né il primo né l'unico, ma credo che Terzani debba anche all'opera di "propaganda" portata avanti da gente come me se il suo indice di popolarità è andato crescendo in maniera esponenziale durante gli anni '00.
Da allora ho fatto in tempo a scoprirlo, incuriosirmene, infatuarmene, distaccarmene e infine a disinnamorarmene. Leggevo nel 2001 e 2002 quel che aveva scritto negli anni '70, '80 e '90, e nutrivo una naturale quanto ingenua convinzione che il pensiero di quel Terzani fosse quello del periodo in cui sfogliavo i suoi libri. Quando cominciai a confrontarmi con ciò che stava effettivamente scrivendo a quel tempo lo trovai invece eccessivamente moralista, un po' pedante e anche piuttosto scontato. Una versione raffinata di un frequentatore medio di certi circoli radical chic, o centri sociali un po' troppo alla moda, per intendersi. Per carità, posizioni rispettabilissime, ma certo non arricchite da quella capacità di ficcare il naso negli angoli in cui la maggioranza non osa e di osservare le scene che vi trovava da un'angolazione speciale, originale, condita di umorismo, propria di chi si imbatte in un mondo diverso dal suo, lo rispetta, cerca di capirlo ma al contempo sa anche criticarlo e riderci su, quando serve; capacità che lo aveva invece caratterizzato anni prima. Mi sembrava quasi che volesse far prevalere la conclusione soggettiva sull'osservazione oggettiva, cercando a volte di astrarre un po' forzatamente. Che mirasse spesso a indottrinare il lettore, a combattere crociate piuttosto che informare e raccontare. Ma soprattutto che si fosse in un certo modo schierato - proprio lui - dando l'impressione di essere stato investito da quella ventata di sensi di colpa che aveva già soffiato sulle coscienze di molti altri, di voler a tutti costi presentare ciò che era estraneo al mondo occidentale come qualcosa di comunque eticamente superiore, anche quei particolari che anni prima lo avrebbero insospettito o magari fatto sorridere. In poche parole non mi stuzzicava più.
Ma forse, pensandoci bene, considerando a posteriori la sua opera integrale, risulta che lo spartiacque tra il Terzani che mi piace e quello che mi piace meno non è tanto temporale quanto di argomenti. Resto convinto del fatto che si sapesse esprimere al meglio quando affrontava temi di costume e società, mentre diventava più ordinario, se non addirittura banale, quando si occupava di politica e morale.
Oltre che per le numerose ore di piacevole lettura e i notevoli spunti di viaggio sono grato a Terzani per una risposta che diede a una mia lettera con cui gli chiedevo consigli di vario genere, in cui mi incoraggiava così:
"Non bussi timidamente alle porte. Ci metta un piede per tenerle aperte...e scriva, fotografi, CAPISCA. La prova del dolce è nel mangiarlo." (Novembre 2002)
Lo ringrazierò sempre anche solo per avermi risposto - a differenza della maggior parte dei suoi colleghi a cui mi sono rivolto. Pur non essendo riuscito a seguire appieno i suoi consigli rimango dell'opinione che il miglior Terzani si ispirasse proprio a quei principi, anche se forse in età avanzata se ne era un po' allontanato.
E poi bisogna ammetterlo: "La prova del dolce è nel mangiarlo" è un aforisma letteralmente de-li-zio-so.