giovedì 25 novembre 2010

Quei simpaticoni - Kuala Lumpur, Malesia

Foto di slimmer_jimmer (CC)
A Bukit Bintang Road c'è una macchina parcheggiata in divieto di sosta. Un'auto della polizia si avvicina dal retro e quando si ferma a pochi centimetri dall'altra l'agente alla guida comincia a suonare il clacson. In realtà più che un clacson sembra una sirena: un ululato penetrante che cattura l'attenzione di decine di persone, compreso il proprietario dell'auto che si affretta ad aprire la portiera e a piazzarsi al posto di guida. Per vari secondi armeggia nervosamente con l'accensione, sotto gli occhi di una folla sempre più numerosa, mentre l'agente continua a mettergli fretta premendo a intermittenza il pulsante del clacson. Dopo un po' l'automobilista riesce ad attutire il panico, avvia il motore e si leva di torno. Anche l'auto della polizia si mette in movimento, finalmente in silenzio. Quando mi passa davanti osservo i quattro poliziotti che si sbellicano dalle risate.
Non ho ancora capito se si annoiano a morte o se pattugliare quest'area è davvero divertente.

domenica 21 novembre 2010

L'incubo del viaggiatore solitario/2 - Kuala Lumpur, Malesia

"Nightmare", di brentbat (CC)

Continua da qui

L'incubo si materializzò per la seconda volta a Kuala Lumpur, in un ristorantino all'aperto. Due minuti dopo aver ordinato una minestra e un succo di frutta mi colse un dubbio, misi la mano in tasca con il solito scatto da gatto atterrito, tirai fuori non denaro bensì il cellulare e mentre facevo finta di aver ricevuto un messaggio urgente chiamai il cameriere per annullare l'ordine. 
Una volta in strada la vergogna e il senso di colpa mi piombarono addosso all'improvviso, come una pioggia monsonica. Come si fa - mi ripetevo - ma che modo di comportarsi è. Andarsene dopo aver ordinato. E in che modo poi, con quel ridicolo colpo di teatro.
Mezz'ora più tardi ero già lì, con le tasche piene di Ringgit. Mi scusai, ordinai nuovamente.
"Avevate già preparato qualcosa?"
"Beh, il succo, ma non ti preoccupare..."
Alla fine mi feci mettere in conto anche il succo di frutta e lasciai una buona mancia.
Mi conoscevano in quel ristorante, avrei potuto spiegarmi, restare a mangiare e ripassare in seguito per pagare. Avrei potuto, ma non ci sarei riuscito, perché l'imbarazzo, la paranoia e i complessi atavici spesso sono più difficili da affrontare di quel gruppo di ribelli nel deserto. Beh, i ribelli magari no, ma i ragazzini nel vicolo buio, quelli forse...

lunedì 15 novembre 2010

Omaggio al pedone - Kuala Lumpur, Malesia

Foto di sinkdd (CC)
Mi unisco alla folla che attende il verde al passaggio pedonale. Bukit Bintang è una zona affollata: auto, moto e pedoni di varie nazionalità si contendono quei preziosi metri quadrati. 
È il turno dei mezzi che arrivano dalla nostra destra. Quando questi si fermano quelli che ci stanno di fronte cominciano ad avanzare, svoltano a destra e ci passano davanti (in Malesia, ex colonia britannica, si guida a sinistra). Fra poco dovrebbe arrivare il nostro turno, osservo le espressioni vagamente ansiose di quelli che mi stanno accalcati attorno. Mi volto di nuovo verso l'incrocio. Cosa è successo? Sta avanzando nuovamente chi arriva da destra! Forse il nostro turno è iniziato e terminato mentre mi sono distratto? Strano, nessuno ha attraversato.
Al secondo ciclo mi concentro e faccio attenzione alla sequenza dei passaggi. Si ferma chi arriva da destra, bene, parte chi viene verso di noi, come previsto, poi scatta il rosso, si fermano, un attimo di suspense e...ci hanno beffati di nuovo! Truffatori, soltanto perché vi sembriamo i più deboli? Questo è da vedersi.
Assieme a due giovani arabi e un signore anglofono conduco il contrattacco, un paio di ragazze urlano preoccupate ma alla fine ci seguono tutti. Avanziamo lungo le strisce con passo attento ma deciso. L'omino rosso ci osserva brillante e altezzoso dalla cima del suo trespolo stradale. Sfidiamo la sua autorità e ne trasgrediamo l'ordine con la fierezza di chi ha subito anni di ingiustizie e infine si è ribellato, ormai è partito e non può far altro che proseguire con inesorabile follia. Le auto ci arrivano quasi addosso ma noi siamo in tanti, determinati e spazientiti. Si fermano per farci passare, nessuno suona il clacson, nessuno protesta con smorfie o sbuffi.
Ce l'abbiamo fatta, siamo sul marciapiede opposto. La formazione si scioglie, i prodi si lanciano occhiate di intesa. Oggi la battaglia è vinta ma la guerra è dura, sporca e ancora lunga. In molti dovranno interrompere l'avanzata, costretti ad arretrare e rifugiarsi di nuovo nelle trincee dei loro marciapiedi di partenza. Altri cadranno, investiti dalle auto o dalle invettive di chi guida e non riconosce il loro diritto all'attraversamento. Noi li ricorderemo e ne rispetteremo l'ardore e il coraggio, ne onoreremo il sacrificio battendoci senza tregua per il raggiungimento dell'altra sponda, l'agognato marciapiedi. E combatteremo ancora, sempre, ovunque.
Altre battaglie ci attendono domani, oggi però ci godiamo la gloria della conquista: il meritato approdo dall'altra parte della strada.
La nostra barricata. Il nostro fronte.

Potete leggere la seconda parte qui

domenica 14 novembre 2010

Aung San Suu Kyi, ti prego: non starnutire in pubblico!

Foto di Breff (CC)
Come molte altre migliaia di persone in giro per il mondo anch'io mi sono emozionato quando ho visto Aung San Suu Kyi passeggiare fuori dalla casa in cui è stata prigioniera per tanti anni, finalmente libera.
Non mi fido però delle simpatiche canaglie della giunta militare birmana. In passato si sono sbizzarriti trovando scuse grottesche per incarcerarla. Non mi sorprenderei se al primo raffreddore la rimettessero agli arresti domiciliari per il bene della sua salute.
Aung San Suu Kyi, ti prego: non starnutire in pubblico!

mercoledì 10 novembre 2010

L'incubo del viaggiatore solitario/1 - Tokyo, Giappone

The Nightmare, Henry Fuseli, 1781
Quali sono gli incubi più comuni di chi viaggia da solo, lontano da casa, in un luogo alieno, dove la gente parla un'altra lingua e pensa in modo diverso, in cui vigono altre usanze, tradizioni, valori e leggi? Forse essere aggredito in un vicolo immondo e buio da un manipolo di ragazzini strafatti di crack, con gli occhi gonfi e lucidi, la pancia vuota e delle lame luccicanti in mano? O che qualcuno ti piazzi due etti di eroina nella borsa a due passi dalla dogana di un paese dove vige la pena di morte per reati di spaccio? O sarà imbarcarsi in un volo di una compagnia secondaria in un paese in via di sviluppo e notare cigolii, scricchiolii, vibrazioni, guasti e spifferi quando ormai hanno chiuso i portelloni? O ancora incappare in un gruppo di ribelli armati in un'area desertica, a cento chilometri dal più vicino centro abitato?
Per me no. Non che sia esattamente un intrepido giramondo ma questo genere di sventure, forse perché non mi hanno mai sfiorato, non mi sembrano molto probabili.
L'incubo che mi imperla la fronte di sudore freddo, la mia inesauribile fonte di panico, l'unico motivo per cui potrei non voler girare da solo o fuori dai circuiti abituali, ciò che più mi atterrisce è il pensiero di ritrovarmi seduto al ristorante e dopo aver ordinato, proprio mentre mi sto per rilassare pregustando le pietanze in arrivo, accorgermi di non avere un quattrino in tasca.
Mi è successo due volte. 
La prima in Giappone, nella periferia di Tokyo, fortunatamente non lontano da dove abitavo. In quell'occasione feci in tempo a papparmi un'intera ciotola di riso e manzo prima di infilare la mano in tasca per trovarvi niente più che la speranza di possedere una mazzetta di yen. Come spesso capita in Giappone il cuoco/cameriere/cassiere che stava al di là del banco a cui sedevo non parlava una parola in inglese: mi guardava confuso mentre col coltellaccio continuava ad affettare le sue verdurine. Frugai nella borsa e ringraziai la buona sorte quando vi trovai dentro il passaporto. Glielo porsi e con gesti ampi e lenti gli feci capire che sarei tornato al più presto. Arrivai a casa in apnea, presi tutti i soldi che avevo e rotolai giù dalle scale. Entrai al ristorante paonazzo, madido e sul punto di morire di asfissia, con un groviglio di yen stretti nel pugno come il testimone di una staffetta. Quando lo pagai, il cuoco, con l'espressione impassibile di una maschera del teatro Kabuki, poggiò il machete, sfilò il passaporto da sotto il banco e me lo porse. 
Gli ho lasciato il passaporto, pensavo mentre tornavo. Il passaporto. Beh, ma in Giappone uno si può fidare, almeno qui. Ma poi ricominciavo: gli ho lasciato il passaporto, il passaporto...ma se uno non si fida del prossimo nemmeno in Giappone, allora...ma come si fa, il passaporto...

Cambio URL

Come forse avrete già notato ho finalmente deciso di dotarmi di un URL custom. Il nuovo indirizzo del blog è quindi http://www.fabiopulito.com/
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lunedì 1 novembre 2010

Barriere (quasi) intangibili - Bangkok, Thailandia

Centro Servizi Governativi - Bangkok
Cittadino del mondo, anima cosmopolita, attitudine internazionale, spirito libero. Certo, sono espressioni suggestive. Evocano immagini di poeti e pensatori seduti a un tavolo, un bicchiere d'assenzio davanti e nella mano una penna d'oca. Hai voglia però ad autoproclamarti tale, poi devi fare i conti con chi non è d'accordo...e si tratta di un gruppo molto folto: legislatori, membri di governi centrali e locali, forze dell'ordine, ufficiali d'immigrazione, doganieri, movimenti indipendentisti e separatisti, sciovinisti, gruppi extra-parlamentari, xenofobi, fanatici religiosi, nazionalisti, campanilisti, regionalisti. Tutti, a modo loro, tendono a farti sentire un estraneo, uno straniero, un cittadino di un posto lontano, non del mondo ma di un paesino, di un quartiere, di un rione o di un isolato.
Attualmente vivo in Thailandia con un visto di studio, ottenuto tramite iscrizione annuale a una scuola di lingua a cui, come si usa da queste parti, ho dovuto corrispondere in anticipo la retta per l'intero corso. Non è poi una situazione così tragica: almeno qui l'affitto della casa lo pago ogni mese, a differenza della Cina dove mi vidi costretto a saldare il conto delle dodici mensilità, più caparra, sull'unghia - con un pacchetto di sudici bigliettoni da 100 RMB - al momento di ricevere le chiavi.
Ma torniamo a bomba: per fornire un esempio di come i succitati sabotatori agiscano in modo da farvi sentire sempre degli ospiti (non troppo) bene accetti, eccovi il racconto della mia ultima visita all'ufficio immigrazione.
Devo prendere due piccioni con una fava: il rinnovo del permesso di soggiorno e un re-entry permit per un imminente viaggio in Malesia (per la spiegazione di questi termini vedi l'appendice in coda al post). Insomma, si tratta di due pratiche, due numeri, due code, due sportelli, due timbri, due palle, due tutto. Ho bisogno di una quasi perfetta combinazione di eventi e di un allineamento astrale propizio per non essere costretto a passare tutto il giorno in ufficio.
Arrivo a un'ora scelta con casualità piuttosto accurata: non troppo presto, per evitare la fastidiosa coda davanti alla porta chiusa - con occhiate di sfida tra i presenti e tacite intese sulla sequenza di entrata - e non troppo tardi per non vedermi consegnare un biglietto con un numero di tre cifre. 
Il numero non viene assegnato se non si è prima compilato il modulo. Mi munisco di quello apposito, lo riempio e ci appiccico la foto con la colla che sbava sul passaporto e i sui documenti della scuola. Ogni volta mi dico di metterne poca, ma è sempre troppa, troppo liquida, troppo unta e maleodorante.
Non ho le fotocopie del passaporto (fondamentali! L'originale per certa gente non è mai abbastanza...), ma decido di sfidare la sorte e di presentarmi comunque all'addetto che distribuisce i numeri, così da non scalare troppo indietro alla coda. Mi va bene, ottengo il 37, poi scendo al negozietto delle fotocopiatrici e fatte le copie mi avvio agli sportelli.
Hanno installato uno schermo su cui viene trasmesso un video in cui si spiega la procedura e il perché ogni pratica richieda almeno quindici minuti per essere sbrigata. Vengono fornite anche le probabili ragioni di un eventuale ritardo (riassunto: è tutta colpa del richiedente).
La trafila è complessa e una pratica deve passare attraverso un consistente numero di mani prima di essere approvata dal supervisore, ma considerata l'abbondanza di sportelli e il numero che ho in mano dovrei farcela in mattinata. È meglio però non contarci troppo, gli imprevisti sono sempre in agguato: quando sono in mano ai burocrati mi sento sempre come una pernice in un bosco battuto dai bracconieri.
La situazione è fluida, i numeri scorrono senza troppi intoppi, arrivati al 30 manca ancora parecchio alla temuta soglia del mezzogiorno, l'ora della pausa pranzo. Una signora riceve un passaporto, ma invece di togliersi dai piedi felice e sollevata si rimette a sedere. Dopo alcuni minuti ne riceve un altro. E si risiede. Mannaggia, è un'agente che rappresenta un folto gruppo di birmani, il che equivale a un solo numero per varie pratiche. Questo provoca uno slittamento piuttosto consistente del mio turno, ma dovrei ancora farcela. 
Il mio momento di gloria infatti arriva in fretta: consegno passaporto, documenti e denaro, va tutto bene e torno dunque al mio posto. L'addetta ora inserirà e controllerà dei dati al computer. La tengo d'occhio, non ci sono problemi e il tutto passa all'ufficiale finanziario. Da qui in poi è difficile monitorare con precisione l'avanzamento, perché le pratiche sono impilate e c'è un nugolo di addetti che ronza attorno al tavolo. Procedo a intuito.
Quando reputo che il mio passaporto sia già sul banco del supervisore - il passaggio finale - viene chiamato il numero di una signora dall'incedere arrogante e lo sguardo torvo, i chiari segni di uno che ha un problema ma è disposto a vendere cara la pelle prima di arrendersi. Infatti la pivella del primo livello della procedura scrolla leggermente la testa e fa per spiegare qualcosa, ma l'altra la zittisce con due parole taglienti e la costringe a chiamare il suo superiore. E questo risulta essere il supervisore che era in procinto di timbrarmi il passaporto.
Me la vedo brutta. Il supervisore prende il posto della pivella, dà un'occhiata alla pratica e poi comincia sorridente e con calma a spiegare il regolamento alla signora. Questa ribatte colpo su colpo, arringando, indicando, riferendo, citando. Io trotterello, zompetto e borbotto per sfogare l'irritazione. Vanno avanti in questo modo per un periodo lunghissimo, prima che il supervisore decida di darle un'altra chance mandandola da un collega che sta altrove. E non poteva farlo prima?
Il mio turno arriva, mi consegnano il passaporto con il rinnovo, ma sono già le dodici. Esco e cerco di iniziare la pratica per la richiesta del re-entry permit prima che tutti se ne vadano a mangiare, ma è troppo tardi. È tutto chiuso, mi toccherà richiedere il numero dopo l'una.
Scendo al piano interrato di questo nuovissimo e maestoso Centro Servizi Governativi che assomiglia all'aeroporto di una grande città cinese: un'ostentazione di apparato e ricchezza, una prova di forza. Passeggio, osservo, mangio qualcosa, mi faccio un caffè e torno all'ufficio immigrazione.
Altro modulo, la colla e le foto. Dove sono le foto? Maledizione, devo averle perse stamane. Ora mi tocca scendere di nuovo. Ci metto poco: benedetta sia l'era del digitale. Una volta ascoltai qualcuno che vi si riferiva con una sorprendente espressione: "crisi". Era il proprietario di un laboratorio di sviluppo e stampa fotografica: solo a loro può venire in mente di chiamarla così.
Riprendo da dove avevo interrotto. Questa è una procedura più semplice di quella precedente e verso le due sono già fuori.
Mentre salgo sul taxi do un'altra occhiata all'edificio e penso che dovrò tornarci molto, troppo presto. Il riso e le verdurine picchiettano sulla bocca dello stomaco. Cittadino del mondo, spirito libero: chissà se anche Diogene e Voltaire dovevano rinnovare il visto ogni tre mesi.