martedì 14 settembre 2010

Impantanato - Muang Ngoi, Laos

Bombe americane inesplose, di Fabio
Poggi un piede e controlli i muscoli per mantenere il corpo in equilibrio nel caso scivolassi. Ma hai fatto male i conti. Quella delle vie di Muang Ngoi è un'argilla particolare: dopo settimane di piogge monsoniche si trasforma in colla. Una miscela che qualche laboratorio chimico, se non l'hanno già fatto, dovrebbe analizzare. 
Il problema non si presenta al momento del contatto tra suola e terra, quando la poltiglia si avvinghia alla gomma della tua calzatura come il cemento quasi asciutto di un nuovo marciapiedi. L'equilibrio in quel momento è assicurato, il piede non scivola di un solo millimetro. La situazione cambia quando effettui il secondo passo e sposti il baricentro del corpo per avanzare. Avanza la testa, avanza il petto, il bacino li segue, pure la coscia e il ginocchio si muovono a rimorchio. Ma a livello della caviglia qualcosa va storto. Il primo piede è ancorato, incagliato, saldato, termofuso. Tu non ti rendi ancora conto della forza di quel legame e dai un piccolo strattone convinto di farcela, come ce l'hai fatta un po' ovunque fino ad ora, monsone o non monsone. L'unica cosa che sembra cedere è però la struttura della calzatura. È evidente che il corpo della scarpa ha più probabilità di separarsi dalla suola di quante questa ne abbia di scollarsi dalla strada. Temi il peggio. Sai che la mossa di violenza ti lascerà scalzo, quindi mantieni i nervi saldi mentre metti in atto una manovra di aggiramento, qualcosa che hai imparato tempo fa su una poltroncina da dentista: una serie di dolci movimenti circolari, nella speranza di allentare la presa prima di procedere con l'estrazione. 
La sensazione di cadere nel ridicolo te la sei già scrollata di dosso quando ti sei dato un'occhiata attorno. Di laotiani incagliati non ne vedi: o se ne stanno tutti a casa o hanno scoperto il metodo per pattinare sul mastice. Ma la strada è piena di stranieri nella tua stessa situazione. La scena ti fa pensare alla sala di un museo in cui una qualche Fata Turchina con degli abili tocchi di bacchetta ha portato in vita le statue, giocando loro però un brutto scherzo: uno dei piedi è rimasto pietrificato, saldato al piedistallo. E tutte si dimenano, impazzite per la gioia di poter finalmente muovere le membra dopo tanti secoli ma al contempo nel panico per quell'ultimo vincolo che le inchioda sul posto. 
Alla fine ce la fai, la suola si scolla, il piede si alza e finalmente muovi un passo. Ma sai che non andrai lontano, che prima o poi le cinghie del sandalo cederanno. La tua intuizione è confermata dal cimitero delle calzature che hai davanti: suole di altri sandali, ciabatte, scarpe da tennis e persino da trekking spuntano qua e là, piantate su tumuli fatti di un materiale che sembra gelato al cioccolato artigianale, ma con una consistenza e un potere adesivo mille volte più forti.
A Muang Ngoi c'ero già stato anni fa, durante la bella stagione: tutta un'altra storia. È un villaggio che si sviluppa attorno a poche strade sterrate, senza traffico, dove si arriva soltanto in barca da Nong Khiaw, un paesino poco lontano. Un piccolo paradiso, forse un po' rovinato dal turismo, che mantiene comunque la sua atmosfera. Ora è invivibile. Complesso aggirarsi tra le case costruite con le ogive delle bombe americane, impensabile andare a visitare le grotte e le colline nei dintorni. Domani ci si imbarca e si torna a Luang Prabang. 
Sfruttando dei sentieri erbosi e procedendo spesso a piedi scalzi arrivo a un tempietto: dei pulcini razzolano nel cortile e in un angolo c'è una campana-gong costruita con i resti di un ordigno. Incontro dei simpatici bolognesi che dopo un paio di chiacchiere mi convincono a restare un altro giorno. Ma sì, pensandoci bene in buona compagnia questo posto non è così male.
La mattina dopo mi sveglio e vado a cercarli per fare colazione. Hanno già fatto il check-out. Mi guardo attorno e vedo solo nuvole plumbee, foglie grondanti di pioggia e una distesa infinita di fango a presa rapida. Mi sforzo ma non riesco proprio a ricordare quale fosse il lato positivo che riuscivo a vederci ieri sera. 
La prossima barca parte domattina, mi toccherà restare qui un altro giorno, impantanato in tutti i sensi, in compagnia di un libro e una brocca di caffè, mentre i bolognesi che mi hanno convinto a restare se la spassano tra i comfort e l'atmosfera franco-coloniale di Luang Prabang.  
Qui invece di francese mi resta soltanto un detto vagamente beffardo: c'est la vie!

Muang Ngoi, Laos, agosto 2007

2 commenti:

Enzo ha detto...

L'immagine della statua che riprende vita ma condannata a divenire pazza a causa del piede pietrificato è una metafora che ben mi si addice. Voglia di volare e paura di stare lassù. E' quel piede incollato a terra che mi frega...

Fabio ha detto...

Prova con "una serie di dolci movimenti circolari, nella speranza di allentare la presa prima di procedere con l'estrazione." ;)