lunedì 27 dicembre 2010

Pensieri sparsi/11

Foto "Thinking?" di galo/* (CC)
- Sapersi accontentare di una vita comune è pur sempre meglio che subirla.

- A volte hai l'impressione che ti sia rimasta soltanto una lisca di cuore.

- Quando sei in un posto che non conosci cerca di non trasformarti in un problema: non si sa mai come potrebbero decidere di risolverti.

- Sei in Asia, seduto a un ristorante e osservi i clienti del posto che interagiscono col cameriere: ti sfugge qualcosa, una sfumatura culturale, un dettaglio linguistico, una differenza di usi e costumi. Ci pensi, rifletti e all'improvviso capisci cos'è: in vita tua il cibo l'hai sempre chiesto, non l'hai mai realmente ordinato...

- Ciò che mi ha spesso salvato è saper riempire i vuoti con l'entusiasmo. 

Potete trovare gli altri pensieri qui.

P.S. Quest'anno non ho pubblicato alcun post natalizio. L'anno scorso però ne ho scritti tre, sul Natale ai tropici. Li potete trovare qui.

martedì 21 dicembre 2010

Camaleonti paradigmatici

Me li ricordo - come potrei dimenticare - quei neolaureati che scrivevano alle aziende quello che i dirigenti volevano leggere, con i loro cv perfetti, i percorsi di carriera tracciati con minuzia di dettagli, costruiti su previsioni di un futuro che non si è mai avverato. E tutte le loro informazioni sul mondo del lavoro, che sembrava quasi potessero manipolare. Lodavano l'avvento della new economy prima che vaste zone del suo corpo incancrenissero per divenire fossili precoci, ci catechizzavano su investimenti azionari sicuri e redditizi prima delle crisi di borsa a raffica, proclamavano il primato della finanza sull'industria, il lavoro, i prodotti, i servizi e le idee innovative prima che i trucchi e il marcio di quel mondo venissero a galla come escrementi dal fondo del mare. 
E si arrampicavano - probabilmente lo fanno ancora - sulle pareti degli organigrammi, puntando i piedi su pioli di scale umane, ostinandosi a chiamarle "risorse" quando invece "mezzi" sarebbe stato più appropriato, nuotando come squali che divorano piccoli pesci nei fantozziani acquari privati di predatori più grandi e feroci di loro. 
Oggi languono spesso in carriere statiche, stagnanti, stantie, sta-varie-altre-cose, annaspando nella melma aziendale che a poco a poco ha inghiottito le loro anime. Fingono di non aver mai fallito, evitando riferimenti al passato e avvolgendo il presente con un entusiasmo che ormai è soltanto un sacco per l'immondizia. Le loro frasi vuote a effetto non ci sorprendono più e finiscono soltanto per proclamare la calcificazione del loro approccio, così come il nostro sorriso - muto e assordante - dichiara semplicemente voglia di non infierire, non certo timore, riverenza o mancanza di coraggio. 
Anni fa le nostre lettere sono state spesso ignorate, cestinate o passate al tritadocumenti. Non capivamo nemmeno i loro falsi consigli, confusi dalla nostra innocenza e abbagliati dalle loro fesserie tecnicistiche. A volte abbiamo ripiegato su lavori che magari non ci piacevano, ma si sa, qualcosa bisogna pur fare. 
La nostra mancanza di preparazione e pianificazione ci ha resi vulnerabili alle calamità della precarietà, ma col tempo ci siamo adattati alle nuove condizioni, abbiamo imparato, fatto esperienza, siamo cresciuti. Da questo processo è nata così una nuova specie. In un mondo che divora oggi ciò che ieri sembrava fantascienza - inghiottendo, rigurgitando, ruminando, digerendo ed espellendo nuovi orizzonti a ritmi vertiginosi - ci siamo fatti spazio noi: i camaleonti paradigmatici. 
Potremmo estinguerci prima ancora di trovare il nostro spazio nella biosfera del mercato. Ma non è detto, non è ancora detto. A differenza di loro abbiamo ancora qualche carta da giocare. E potete contarci: ce la giocheremo, qualcuno lo farà.

mercoledì 15 dicembre 2010

Rilassamento - Kuala Lumpur, Malesia

Birra su un tavolo a Jalan Alor
Lo sgabello di plastica è piccolo e duro, il tavolo è inclinato e traballa, venditori ambulanti scocciano i clienti con cestelli di legno, penne laser e fazzolettini di carta. La strada è sporca e disordinata e a ogni istante ti aspetti di veder uscire un topo da un buco nel marciapiedi, diretto verso un osso che giace poco distante dalla tua scarpa. 
Mi siedo comunque: all'istante newton di tensione cominciano a sgorgare da qualche punto posto al centro del mio corpo, emergendo in superficie, scorrendo lungo la pelle dei miei arti, la linea della spina dorsale, per raggiungere la plastica di sedia e tavolo, scendere verso l'asfalto e scomparire all'interno delle fogne cittadine. Qualche sostanza tossica sublima inoltre dalla mia testa, come se avessi appena camminato sotto la pioggia tropicale e una volta raggiunto il riparo colonnine di vapore si sollevassero con lentezza dal mio cuoio capelluto. 
All'improvviso sono rilassato, lo sento specialmente nella mia schiena che mi ringrazia con un dolce formicolio. E non sapevo nemmeno di non esserlo. 
Non è soltanto per la varietà del cibo o la birra a buon mercato, è anche per godermi questa reazione del mio corpo che vengo così spesso in questo ristorante a Jalan Alor.

venerdì 10 dicembre 2010

Solo nel sud-est asiatico - Kuala Lumpur, Malesia

Foto di Mugley (CC)
Cammino lungo Jalan Alor, una strada semi-pedonale costeggiata da ristorantini tradizionali. Osservo le insegne a destra, mi faccio distrarre da una ragazza che mi si avvicina con un menu da sinistra e poi il piede scivola su qualcosa: un oggetto viscido sotto e morbido sopra. La sensazione è quella di aver calpestato un tappetino poggiato su una chiazza d'olio. Do un'occhiata al suolo, c'è solo una macchia di un grigio poco più scuro di quello dell'asfalto. Chino la testa e osservo meglio: sembra la pelliccia di un animale. Poi noto due piccoli oggetti a forma di stella, una protuberanza lunga e sottile, dei chiaroscuri qua e là...ogni dubbio è dissipato: la cosa che ho calpestato è la poltiglia di un topo, che schifo. L'idea di entrare in casa con la suola contaminata mi turba un po'. 
Alcuni metri più in là trovo una pozzanghera, è l'acqua stagnante accumulatasi durante l'ultimo acquazzone: è sporca, sì, ma un topo potrebbe farcisi un idromassaggio. Ci piazzo dentro la scarpa, la scuoto un po' e quindi riparto. Sul marciapiedi della strada principale delle gocce cadono da un terrazzo e formano un rivolo tra i piastroni di cemento: non conosco di preciso la natura e l'origine del liquido ma lo utilizzo per dare un'altra sciacquata alla gomma sozza. Poi il caso mi fornisce l'arma per il colpo di grazia. Un ristorante ha appena chiuso e i camerieri hanno organizzato una saponata da caserma per pulire i metri di marciapiede di loro competenza. La mia scarpa da tennis passa in mezzo alla schiuma come una macchina all'autolavaggio. Col caldo che fa il materiale sintetico si asciuga proprio mentre sto entrando nel mio condominio.
Il sud est asiatico è sporco, nessuno lo nega, ma se lo osservi senza disprezzo e impari a conoscerlo gli elementi stessi della sua trascuratezza ti forniscono anche i mezzi per ripulirti.

martedì 7 dicembre 2010

Omaggio al pedone/2: la mutazione - Kuala Lumpur, Malesia

Foto di Steve Webel (CC)
Verde, via! Si diceva così quando eravamo neopatentati e avevamo il fratellino minorenne a bordo. A Kuala Lumpur invece se vesti i panni del pedone ti tocca pensarlo a qualsiasi età. Anzi, più i riflessi si fanno lenti più ti tocca giocare d'anticipo.
Sto aspettando il verde per attraversare Jalan Sultan Ismail, una grossa arteria cittadina che taglia in due il distretto d'affari. Ecco il segnale, a gradi falcate cerco di prendere a calcioni un brutto presagio. L'omino verde lampeggia fin da quando si è acceso e sembra che non ci sia proprio tempo da perdere. Appena passato il cordolo della mezzeria succede quel che temevo: scatta il rosso. Penso che sia un'altra mossa degli astuti membri delle istituzioni per costringerci a sgombrare l'incrocio in fretta. Ma confido sul fatto che ci lasceranno comunque un intervallo di tempo sufficiente a metterci in salvo prima di dare il via ai veicoli che sgommano sulla linea dello stop. Invece no, gli danno il verde! Sono costretto a completare il tragitto con tre poderosi salti di camoscio.
Ma che calcoli hanno fatto? Hanno ingaggiato Carl Lewis come consulente per i test? 
Forse contano sul fatto che la gente si fermi sul cordolo, utilizzando due turni di verde per completare l'attraversamento. Potrebbe però esserci dietro una sordida cospirazione dal fine ultimo agghiacciante: il totale sterminio dei pedoni, una specie ingombrante, fastidiosa e comunque non strettamente necessaria. Ne attirano quindi il maggior numero di esemplari in una trappola sistemata in mezzo alla strada, come quella in cui sono caduto io, per poi liberare le loro belve motorizzate, assetate di sangue pedonifero dopo essere state costrette a lunghi secondi di astinenza nella gabbia di strisce bianche che le inchiodava all'incrocio.
Ma non hanno tenuto in conto l'intervento di Mr. Charles Darwin, sommo uomo di scienze nonché amico di ogni pedone. La selezione naturale ci trasformerà in solidi gruppi di gazzelle bipedi paradossalmente incrociate con dei ghepardi un po' sbiaditi. Sotto quelle spoglie sopravviveremo e prolifereremo: tra scatti, balzi e carreggiate attraversate la lotta continuerà ancora a lungo.
Cari sterminatori, non ci avrete: il genocidio che sognate non è ancora alle porte!

Potete leggere la prima parte qui

sabato 4 dicembre 2010

La scodella mancante - Kuala Lumpur, Malesia

"[...]Le tre grandi scodelle rappresentano la cultura multirazziale della Malesia, armoniosamente unita. Salgono verso l'alto a significare le crescenti aspirazioni della gente. Serenamente l'acqua converge da ogni direzione, fonte inesauribile di benedizione e prosperità[...]"
Sta scritto vicino a una fontana monumentale installata all'entrata del Pavilion, un centro commerciale moderno e lussuoso nel centro del distretto commerciale e turistico di Kuala Lumpur.
Credo che le tre scodellone rappresentino quei malesiani i cui antenati arrivarono dall'Arcipelago Indonesiano, dalla Cina orientale e dall'India meridionale. Che strano, sembrano essersi dimenticati di aggiungere almeno un'altra scodella: quella per la minoranza etnica che era già qui quando i pionieri delle altre tre arrivarono. Gli Orang Asli, i veri Bumiputra, i figli della terra.
Probabilmente il nome ricorderà ad alcuni di voi quello dei famosi primati che vivono nelle giungle del Borneo e di Sumatra: gli Orang Utan. In realtà anche la maggioranza degli Orang Asli abita nella giungla o in zone rurali e, a pensarci bene, dato che il 76% di essi vive al di sotto della soglia di povertà, l'omissione della loro scodella è abbastanza appropriata, se quella scultura deve rappresentare le razze che si dividono il potere politico ed economico del paese, che vivono nelle città, frequentano centri commerciali come il Pavillion e per le quali l'acqua della fontana è una fonte inesauribile di benedizione e prosperità.

mercoledì 1 dicembre 2010

Pensieri casuali/10

Gondola a Venezia, di Fabio
- L'orgoglio è un problema, non una virtù: bisogna risolverlo, non vantarsene.

- Se uno va a Venezia e nota solo l'odore dell'acqua stagnante non deve preoccuparsi per il proprio olfatto: funziona perfettamente! Potrebbe però essere necessaria una visita dall'oculista.

- Per misurare il livello di taccagneria di una persona il tasso di fedeltà al consumismo non è un buon indicatore, meglio utilizzare il rapporto spese/guadagni: tra un individuo che spende 100 guadagnando 100 e un altro che spende 200 guadagnando 1000, chi è il più tirchio?

- Alcuni telefoni cellulari e computer portatili sono ottimi accessori elettronici. Come argomenti di conversazione però sono piuttosto noiosi: meglio utilizzarli che passare il tempo a parlarne.

- Single=solitario=solo=triste...questa serie di equazioni è decisamente sopravvalutata. Per sapere cos'è la vera tristezza basta osservare attentamente la vita di alcune coppie.

Per gli altri pensieri clicca qui

giovedì 25 novembre 2010

Quei simpaticoni - Kuala Lumpur, Malesia

Foto di slimmer_jimmer (CC)
A Bukit Bintang Road c'è una macchina parcheggiata in divieto di sosta. Un'auto della polizia si avvicina dal retro e quando si ferma a pochi centimetri dall'altra l'agente alla guida comincia a suonare il clacson. In realtà più che un clacson sembra una sirena: un ululato penetrante che cattura l'attenzione di decine di persone, compreso il proprietario dell'auto che si affretta ad aprire la portiera e a piazzarsi al posto di guida. Per vari secondi armeggia nervosamente con l'accensione, sotto gli occhi di una folla sempre più numerosa, mentre l'agente continua a mettergli fretta premendo a intermittenza il pulsante del clacson. Dopo un po' l'automobilista riesce ad attutire il panico, avvia il motore e si leva di torno. Anche l'auto della polizia si mette in movimento, finalmente in silenzio. Quando mi passa davanti osservo i quattro poliziotti che si sbellicano dalle risate.
Non ho ancora capito se si annoiano a morte o se pattugliare quest'area è davvero divertente.

domenica 21 novembre 2010

L'incubo del viaggiatore solitario/2 - Kuala Lumpur, Malesia

"Nightmare", di brentbat (CC)

Continua da qui

L'incubo si materializzò per la seconda volta a Kuala Lumpur, in un ristorantino all'aperto. Due minuti dopo aver ordinato una minestra e un succo di frutta mi colse un dubbio, misi la mano in tasca con il solito scatto da gatto atterrito, tirai fuori non denaro bensì il cellulare e mentre facevo finta di aver ricevuto un messaggio urgente chiamai il cameriere per annullare l'ordine. 
Una volta in strada la vergogna e il senso di colpa mi piombarono addosso all'improvviso, come una pioggia monsonica. Come si fa - mi ripetevo - ma che modo di comportarsi è. Andarsene dopo aver ordinato. E in che modo poi, con quel ridicolo colpo di teatro.
Mezz'ora più tardi ero già lì, con le tasche piene di Ringgit. Mi scusai, ordinai nuovamente.
"Avevate già preparato qualcosa?"
"Beh, il succo, ma non ti preoccupare..."
Alla fine mi feci mettere in conto anche il succo di frutta e lasciai una buona mancia.
Mi conoscevano in quel ristorante, avrei potuto spiegarmi, restare a mangiare e ripassare in seguito per pagare. Avrei potuto, ma non ci sarei riuscito, perché l'imbarazzo, la paranoia e i complessi atavici spesso sono più difficili da affrontare di quel gruppo di ribelli nel deserto. Beh, i ribelli magari no, ma i ragazzini nel vicolo buio, quelli forse...

lunedì 15 novembre 2010

Omaggio al pedone - Kuala Lumpur, Malesia

Foto di sinkdd (CC)
Mi unisco alla folla che attende il verde al passaggio pedonale. Bukit Bintang è una zona affollata: auto, moto e pedoni di varie nazionalità si contendono quei preziosi metri quadrati. 
È il turno dei mezzi che arrivano dalla nostra destra. Quando questi si fermano quelli che ci stanno di fronte cominciano ad avanzare, svoltano a destra e ci passano davanti (in Malesia, ex colonia britannica, si guida a sinistra). Fra poco dovrebbe arrivare il nostro turno, osservo le espressioni vagamente ansiose di quelli che mi stanno accalcati attorno. Mi volto di nuovo verso l'incrocio. Cosa è successo? Sta avanzando nuovamente chi arriva da destra! Forse il nostro turno è iniziato e terminato mentre mi sono distratto? Strano, nessuno ha attraversato.
Al secondo ciclo mi concentro e faccio attenzione alla sequenza dei passaggi. Si ferma chi arriva da destra, bene, parte chi viene verso di noi, come previsto, poi scatta il rosso, si fermano, un attimo di suspense e...ci hanno beffati di nuovo! Truffatori, soltanto perché vi sembriamo i più deboli? Questo è da vedersi.
Assieme a due giovani arabi e un signore anglofono conduco il contrattacco, un paio di ragazze urlano preoccupate ma alla fine ci seguono tutti. Avanziamo lungo le strisce con passo attento ma deciso. L'omino rosso ci osserva brillante e altezzoso dalla cima del suo trespolo stradale. Sfidiamo la sua autorità e ne trasgrediamo l'ordine con la fierezza di chi ha subito anni di ingiustizie e infine si è ribellato, ormai è partito e non può far altro che proseguire con inesorabile follia. Le auto ci arrivano quasi addosso ma noi siamo in tanti, determinati e spazientiti. Si fermano per farci passare, nessuno suona il clacson, nessuno protesta con smorfie o sbuffi.
Ce l'abbiamo fatta, siamo sul marciapiede opposto. La formazione si scioglie, i prodi si lanciano occhiate di intesa. Oggi la battaglia è vinta ma la guerra è dura, sporca e ancora lunga. In molti dovranno interrompere l'avanzata, costretti ad arretrare e rifugiarsi di nuovo nelle trincee dei loro marciapiedi di partenza. Altri cadranno, investiti dalle auto o dalle invettive di chi guida e non riconosce il loro diritto all'attraversamento. Noi li ricorderemo e ne rispetteremo l'ardore e il coraggio, ne onoreremo il sacrificio battendoci senza tregua per il raggiungimento dell'altra sponda, l'agognato marciapiedi. E combatteremo ancora, sempre, ovunque.
Altre battaglie ci attendono domani, oggi però ci godiamo la gloria della conquista: il meritato approdo dall'altra parte della strada.
La nostra barricata. Il nostro fronte.

Potete leggere la seconda parte qui

domenica 14 novembre 2010

Aung San Suu Kyi, ti prego: non starnutire in pubblico!

Foto di Breff (CC)
Come molte altre migliaia di persone in giro per il mondo anch'io mi sono emozionato quando ho visto Aung San Suu Kyi passeggiare fuori dalla casa in cui è stata prigioniera per tanti anni, finalmente libera.
Non mi fido però delle simpatiche canaglie della giunta militare birmana. In passato si sono sbizzarriti trovando scuse grottesche per incarcerarla. Non mi sorprenderei se al primo raffreddore la rimettessero agli arresti domiciliari per il bene della sua salute.
Aung San Suu Kyi, ti prego: non starnutire in pubblico!

mercoledì 10 novembre 2010

L'incubo del viaggiatore solitario/1 - Tokyo, Giappone

The Nightmare, Henry Fuseli, 1781
Quali sono gli incubi più comuni di chi viaggia da solo, lontano da casa, in un luogo alieno, dove la gente parla un'altra lingua e pensa in modo diverso, in cui vigono altre usanze, tradizioni, valori e leggi? Forse essere aggredito in un vicolo immondo e buio da un manipolo di ragazzini strafatti di crack, con gli occhi gonfi e lucidi, la pancia vuota e delle lame luccicanti in mano? O che qualcuno ti piazzi due etti di eroina nella borsa a due passi dalla dogana di un paese dove vige la pena di morte per reati di spaccio? O sarà imbarcarsi in un volo di una compagnia secondaria in un paese in via di sviluppo e notare cigolii, scricchiolii, vibrazioni, guasti e spifferi quando ormai hanno chiuso i portelloni? O ancora incappare in un gruppo di ribelli armati in un'area desertica, a cento chilometri dal più vicino centro abitato?
Per me no. Non che sia esattamente un intrepido giramondo ma questo genere di sventure, forse perché non mi hanno mai sfiorato, non mi sembrano molto probabili.
L'incubo che mi imperla la fronte di sudore freddo, la mia inesauribile fonte di panico, l'unico motivo per cui potrei non voler girare da solo o fuori dai circuiti abituali, ciò che più mi atterrisce è il pensiero di ritrovarmi seduto al ristorante e dopo aver ordinato, proprio mentre mi sto per rilassare pregustando le pietanze in arrivo, accorgermi di non avere un quattrino in tasca.
Mi è successo due volte. 
La prima in Giappone, nella periferia di Tokyo, fortunatamente non lontano da dove abitavo. In quell'occasione feci in tempo a papparmi un'intera ciotola di riso e manzo prima di infilare la mano in tasca per trovarvi niente più che la speranza di possedere una mazzetta di yen. Come spesso capita in Giappone il cuoco/cameriere/cassiere che stava al di là del banco a cui sedevo non parlava una parola in inglese: mi guardava confuso mentre col coltellaccio continuava ad affettare le sue verdurine. Frugai nella borsa e ringraziai la buona sorte quando vi trovai dentro il passaporto. Glielo porsi e con gesti ampi e lenti gli feci capire che sarei tornato al più presto. Arrivai a casa in apnea, presi tutti i soldi che avevo e rotolai giù dalle scale. Entrai al ristorante paonazzo, madido e sul punto di morire di asfissia, con un groviglio di yen stretti nel pugno come il testimone di una staffetta. Quando lo pagai, il cuoco, con l'espressione impassibile di una maschera del teatro Kabuki, poggiò il machete, sfilò il passaporto da sotto il banco e me lo porse. 
Gli ho lasciato il passaporto, pensavo mentre tornavo. Il passaporto. Beh, ma in Giappone uno si può fidare, almeno qui. Ma poi ricominciavo: gli ho lasciato il passaporto, il passaporto...ma se uno non si fida del prossimo nemmeno in Giappone, allora...ma come si fa, il passaporto...

Cambio URL

Come forse avrete già notato ho finalmente deciso di dotarmi di un URL custom. Il nuovo indirizzo del blog è quindi http://www.fabiopulito.com/
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lunedì 1 novembre 2010

Barriere (quasi) intangibili - Bangkok, Thailandia

Centro Servizi Governativi - Bangkok
Cittadino del mondo, anima cosmopolita, attitudine internazionale, spirito libero. Certo, sono espressioni suggestive. Evocano immagini di poeti e pensatori seduti a un tavolo, un bicchiere d'assenzio davanti e nella mano una penna d'oca. Hai voglia però ad autoproclamarti tale, poi devi fare i conti con chi non è d'accordo...e si tratta di un gruppo molto folto: legislatori, membri di governi centrali e locali, forze dell'ordine, ufficiali d'immigrazione, doganieri, movimenti indipendentisti e separatisti, sciovinisti, gruppi extra-parlamentari, xenofobi, fanatici religiosi, nazionalisti, campanilisti, regionalisti. Tutti, a modo loro, tendono a farti sentire un estraneo, uno straniero, un cittadino di un posto lontano, non del mondo ma di un paesino, di un quartiere, di un rione o di un isolato.
Attualmente vivo in Thailandia con un visto di studio, ottenuto tramite iscrizione annuale a una scuola di lingua a cui, come si usa da queste parti, ho dovuto corrispondere in anticipo la retta per l'intero corso. Non è poi una situazione così tragica: almeno qui l'affitto della casa lo pago ogni mese, a differenza della Cina dove mi vidi costretto a saldare il conto delle dodici mensilità, più caparra, sull'unghia - con un pacchetto di sudici bigliettoni da 100 RMB - al momento di ricevere le chiavi.
Ma torniamo a bomba: per fornire un esempio di come i succitati sabotatori agiscano in modo da farvi sentire sempre degli ospiti (non troppo) bene accetti, eccovi il racconto della mia ultima visita all'ufficio immigrazione.
Devo prendere due piccioni con una fava: il rinnovo del permesso di soggiorno e un re-entry permit per un imminente viaggio in Malesia (per la spiegazione di questi termini vedi l'appendice in coda al post). Insomma, si tratta di due pratiche, due numeri, due code, due sportelli, due timbri, due palle, due tutto. Ho bisogno di una quasi perfetta combinazione di eventi e di un allineamento astrale propizio per non essere costretto a passare tutto il giorno in ufficio.
Arrivo a un'ora scelta con casualità piuttosto accurata: non troppo presto, per evitare la fastidiosa coda davanti alla porta chiusa - con occhiate di sfida tra i presenti e tacite intese sulla sequenza di entrata - e non troppo tardi per non vedermi consegnare un biglietto con un numero di tre cifre. 
Il numero non viene assegnato se non si è prima compilato il modulo. Mi munisco di quello apposito, lo riempio e ci appiccico la foto con la colla che sbava sul passaporto e i sui documenti della scuola. Ogni volta mi dico di metterne poca, ma è sempre troppa, troppo liquida, troppo unta e maleodorante.
Non ho le fotocopie del passaporto (fondamentali! L'originale per certa gente non è mai abbastanza...), ma decido di sfidare la sorte e di presentarmi comunque all'addetto che distribuisce i numeri, così da non scalare troppo indietro alla coda. Mi va bene, ottengo il 37, poi scendo al negozietto delle fotocopiatrici e fatte le copie mi avvio agli sportelli.
Hanno installato uno schermo su cui viene trasmesso un video in cui si spiega la procedura e il perché ogni pratica richieda almeno quindici minuti per essere sbrigata. Vengono fornite anche le probabili ragioni di un eventuale ritardo (riassunto: è tutta colpa del richiedente).
La trafila è complessa e una pratica deve passare attraverso un consistente numero di mani prima di essere approvata dal supervisore, ma considerata l'abbondanza di sportelli e il numero che ho in mano dovrei farcela in mattinata. È meglio però non contarci troppo, gli imprevisti sono sempre in agguato: quando sono in mano ai burocrati mi sento sempre come una pernice in un bosco battuto dai bracconieri.
La situazione è fluida, i numeri scorrono senza troppi intoppi, arrivati al 30 manca ancora parecchio alla temuta soglia del mezzogiorno, l'ora della pausa pranzo. Una signora riceve un passaporto, ma invece di togliersi dai piedi felice e sollevata si rimette a sedere. Dopo alcuni minuti ne riceve un altro. E si risiede. Mannaggia, è un'agente che rappresenta un folto gruppo di birmani, il che equivale a un solo numero per varie pratiche. Questo provoca uno slittamento piuttosto consistente del mio turno, ma dovrei ancora farcela. 
Il mio momento di gloria infatti arriva in fretta: consegno passaporto, documenti e denaro, va tutto bene e torno dunque al mio posto. L'addetta ora inserirà e controllerà dei dati al computer. La tengo d'occhio, non ci sono problemi e il tutto passa all'ufficiale finanziario. Da qui in poi è difficile monitorare con precisione l'avanzamento, perché le pratiche sono impilate e c'è un nugolo di addetti che ronza attorno al tavolo. Procedo a intuito.
Quando reputo che il mio passaporto sia già sul banco del supervisore - il passaggio finale - viene chiamato il numero di una signora dall'incedere arrogante e lo sguardo torvo, i chiari segni di uno che ha un problema ma è disposto a vendere cara la pelle prima di arrendersi. Infatti la pivella del primo livello della procedura scrolla leggermente la testa e fa per spiegare qualcosa, ma l'altra la zittisce con due parole taglienti e la costringe a chiamare il suo superiore. E questo risulta essere il supervisore che era in procinto di timbrarmi il passaporto.
Me la vedo brutta. Il supervisore prende il posto della pivella, dà un'occhiata alla pratica e poi comincia sorridente e con calma a spiegare il regolamento alla signora. Questa ribatte colpo su colpo, arringando, indicando, riferendo, citando. Io trotterello, zompetto e borbotto per sfogare l'irritazione. Vanno avanti in questo modo per un periodo lunghissimo, prima che il supervisore decida di darle un'altra chance mandandola da un collega che sta altrove. E non poteva farlo prima?
Il mio turno arriva, mi consegnano il passaporto con il rinnovo, ma sono già le dodici. Esco e cerco di iniziare la pratica per la richiesta del re-entry permit prima che tutti se ne vadano a mangiare, ma è troppo tardi. È tutto chiuso, mi toccherà richiedere il numero dopo l'una.
Scendo al piano interrato di questo nuovissimo e maestoso Centro Servizi Governativi che assomiglia all'aeroporto di una grande città cinese: un'ostentazione di apparato e ricchezza, una prova di forza. Passeggio, osservo, mangio qualcosa, mi faccio un caffè e torno all'ufficio immigrazione.
Altro modulo, la colla e le foto. Dove sono le foto? Maledizione, devo averle perse stamane. Ora mi tocca scendere di nuovo. Ci metto poco: benedetta sia l'era del digitale. Una volta ascoltai qualcuno che vi si riferiva con una sorprendente espressione: "crisi". Era il proprietario di un laboratorio di sviluppo e stampa fotografica: solo a loro può venire in mente di chiamarla così.
Riprendo da dove avevo interrotto. Questa è una procedura più semplice di quella precedente e verso le due sono già fuori.
Mentre salgo sul taxi do un'altra occhiata all'edificio e penso che dovrò tornarci molto, troppo presto. Il riso e le verdurine picchiettano sulla bocca dello stomaco. Cittadino del mondo, spirito libero: chissà se anche Diogene e Voltaire dovevano rinnovare il visto ogni tre mesi.

venerdì 22 ottobre 2010

Il rubinetto - Birmania

Photo by malla_mi (CC)
L'ultima cena a Pagan si è tenuta in un ristorantino affacciato su una strada sterrata, nell'area turistica. Pochi clienti, niente apostoli, soltanto qualche compagno di viaggio conosciuto di recente. Ma un Giuda birmano nascosto in cucina mi aveva già tradito.
Per fortuna la corriera si ferma in una rudimentale stazione di servizio, qualche altro chilometro e non ce l'avrei fatta. I passeggeri scendono con calma, si accendono le sigarette, stiracchiano la schiena, comprano qualcosa al bar. Io scivolo in posizione da discesa libera verso il bagno nel retro. Chiudo la porta in fretta, armeggiando impaziente con il chiavistello arrugginito. Mi strappo di dosso i pantaloni, squarcio i boxer e mi acquatto sulla turca. Osservo il legno della porta davanti a me, le grosse venature e i solchi levigati dagli anni: assomiglia alle porte delle stalle che vedevo da piccolo durante le settimane estive di villeggiatura nell'appennino calabro-lucano. Pensieri estemporanei da posizione scomoda. La distrazione è interrotta da un suono: come acqua che sgorga da un rubinetto e cade in un contenitore capiente o molto profondo, producendo un suono echeggiante. In effetti un rubinetto c'è: è quello che si usa per riempire il secchio dell'acqua con cui ci si pulisce e si "tira" lo sciacquone. Ma è chiuso, e sorprendentemente con ottima tenuta: di liquido non ne esce nemmeno una goccia. Che strano. Do un'occhiata rapida attorno ma non ne vedo altri, fino a quando una sensazione lieve dalle parti del fondoschiena mi fa venire un dubbio sorprendente: eccheccappio...il rubinetto sono io! La diarrea è talmente liquida e omogenea che faccio davvero fatica a sentirla uscire. Il flusso continua ancora per un po', dandomi l'impressione di essere un otre in pressione a cui è stata aperta la valvola. Poi - all'improvviso, senza prima diminuire di portata - si ferma. Quando mi alzo do un'occhiata alla porcellana su cui praticamente non è rimasta traccia.
Quando esco i conducenti hanno finito di riparare un guasto al mezzo (ce ne saranno vari prima dell'arrivo a Rangoon, per la disperazione di tutti i passeggeri stranieri, tranne me, per ovvi motivi di tornaconto personale).
Facciamo altre due soste a causa di qualche nuovo danno e io puntualmente apro il rubinetto e do sfogo alla pressione che mi gonfia la pancia.
La crisi successiva sfortunatamente non coincide con un problema all'autobus. Io tengo duro, stringo i denti, come dice il manuale del viaggiatore mai scritto, ma dopo un po' non ce la faccio più. Chiedo all'autista se si può fermare. Questi non capisce l'inglese ma un monaco di mezza età mi viene in aiuto. In un paese di devoti buddhisti come questo il suo intervento è perentorio e l'autobus viene così parcheggiato al bordo della strada. La folla si disperde su di un prato ombreggiato dalle fronde brillanti di alberi tropicali enormi. Mentre tutti cercano un tronco o un cespuglio per fare pipì, io mi infilo in un angolo nascosto e riapro la valvola. Sono diventato una celebrità tra i passeggeri, che mi hanno osservato mentre chiacchieravo con il monaco. Durante il tragitto mi consiglia di stare attento a quel che mangio. Mi si avvicina anche un uomo d'affari thailandese che bisbigliando per non farsi riconoscere - i siamesi, pur essendo passati secoli dalle devastanti invasioni birmane, sono ancora molto diffidenti - mi confida che certi ristoranti da queste parti hanno condizioni igieniche pessime, come se questo fosse un segreto.
A metà del viaggio - che durerà quasi dieci ore più del previsto - all'improvviso sto bene. Riesco persino a dormire, svegliandomi nel cuore della notte quando siamo di nuovo fermi e l'autista sta prendendo a martellate qualche pezzo di metallo. I birmani subiscono in religioso silenzio, gli altri turisti si svegliano e sbuffano. Finalmente posso concentrarmi su questi particolari senza che ogni cinque minuti le mie viscere mi strattonino l'attenzione: mi giro verso il finestrino, osservo la luna che illumina le risaie, le palme e lo squallore della stazione di servizio, appoggio la fronte oleosa sul vetro, lo appanno con un lungo sospiro e poi, senza farmi sentire, comincio a ridacchiare con grande gusto.

Birmania, settembre 2002

Questo pezzo fa parte della Saga della sciolta, gli altri episodi li potete trovare qui

domenica 3 ottobre 2010

È qui, con noi, tutto questo - Laos settentrionale

La Piana delle Giare è già alle nostre spalle. Il tragitto da Phonsavan alla direttrice Vientian-Luang Prabang a ovest dura parecchie ore. La distanza in realtà è breve: più o meno cento chilometri, ma per percorrerli l'autobus coreano ci metterà una giornata. Queste strade non sono ancora state asfaltate, sono fatte di un'argilla che con la pioggia diventa paludosa e si snodano a curve e tornanti attorno alla catena montuosa che increspa il corpo del paese. La carreggiata è molto stretta, come una normale corsia che però deve accomodare due sensi di marcia. Guardando fuori dai finestrini, a un lato lo sguardo si scontra con la parete scoscesa di un monte scavato, all'altro spazia attraverso il paesaggio che sovrasta un burrone ripido e profondo. Non ci sono protezioni e sembra che il terriccio possa cedere in qualsiasi momento. Quando incrociamo un altro veicolo l'autobus è costretto a procedere sul bordo della strada, con le ruote che giocano pericolosamente tra il ciglio e il vuoto. Spesso i passeggeri, un po' per sgranchirsi le gambe e un po' per la fifa dovuta alle manovre di equilibrismo, preferiscono scendere dal mezzo. L'autobus a volte procede talmente lentamente che è possibile seguirlo a piedi con un'andatura normale.
Il corridoio è intasato: sacchi, borse, ceste e scatole stanno accatastate sul pavimento. Io siedo in fondo e sto pensando che percorrerlo tutto è come avanzare sulle pietre del letto di un torrente in salita. Do un'occhiata attorno, poi apro il finestrino, mi arrampico e salto fuori. Dobbiamo procedere affiancando una fila di auto, scavatrici, camion: l'ingorgo durerà molto a lungo. Assieme agli altri passeggeri cammino su una sorta di sentiero che corre sul fianco del monte, a un metro dalla strada. Si chiacchiera, si passeggia e si osserva.
L'autista guida la corriera a bordo della quale sono rimasti pochi anziani e qualche donna. Gira il volante con cautela, sfiora gli altri mezzi, sfrutta gli spazi angusti tra metallo, terra e scarpata, facendo scivolare l'autobus come un'anguilla tra gli scogli. Si destreggia tra le difficoltà del percorso senza lamentarsi o fare smorfie, mentre mangia un cetriolo senza affettarlo, come se fosse una banana. Gli altri passeggeri avanzano lungo il sentiero con lo stesso tipo di fatalismo. Il cielo è brillante, bisogna abituare gli occhi per osservarlo dritto al cuore. Anche le nuvole sono di un grigio quasi fluorescente. Il paesaggio aiuta a combattere la noia, che comunque è - e dev'essere -  presente come eccipiente nella composizione del viaggio. 
Luang Prabang è ancora lontana, ma il Laos è anche qui, è con noi, è tutto questo. 

Laos settentrionale, dicembre 2001

martedì 28 settembre 2010

Ciò che fa la differenza - Angkor, Cambogia

Angkor Roads, di Un rosarino en Vietnam
60 dollari per un pass di una settimana. Una mazzata, beh almeno per uno che vorrebbe stirare la coperta del suo budget - modesto - su un letto di viaggi lungo due o tre anni. D'altronde non mi andava di visitare Angkor come fa la maggior parte dei turisti che ho incontrato. Uno, due o tre giorni e via. Sveglia all'alba, di corsa da una collina a un tempio, ansimando da una baracca a un monumento, ritorno a ora di cena con i ricordi confusi: dov'erano le radici degli alberi secolari che avviluppavano le mura e le statue? E i bassorilievi? Ma il tempio delle teste a quattro facce come si chiamava: Wat...Wat...Wat qualcosa...
Ecco, io l'esperienza del "Wat qualcosa" la lascio a qualcun altro. Il pass di una settimana mi permette di prendermela comoda - che tra l'altro è uno dei miei hobby preferiti. Di vedere i templi all'alba oggi e al tramonto domani. Concentrarmi soltanto su Angkor Wat un giorno, sul Bayon e il Ta Phrom un altro, sui circuiti dei templi minori in seguito. Tranquillo, rilassato o come dicono qui ...easy. Passando la mattina o il pomeriggio in guest house a leggere, studiare e programmare la prossima visita. O nel centro coloniale di Siem Reap a fare foto, scribacchiare, sbirciare, spiluccare, curiosare, chiacchierare, perdermi, osservare, fantasticare - che guarda caso sono gli altri miei hobby preferiti.
A dire il vero metterò in atto questa tattica soltanto al terzo-quarto giorno. All'inizio il fascino di Angkor si impossesserà di me e, vittima di un'irrefrenabile ingordigia di esperienza e atmosfera, anch'io mi immergerò per ore nella polvere e il caldo che soffocano questo posto. Il primo giorno seguo il procedimento standard: noleggio un motorino con pilota che mi deposita ai templi e mi riprende quando ho terminato. Ho l'impressione di essere un bagaglio con braccia, gambe, cappello e macchina fotografica, carente di cervello e totalmente privo di carattere. Alla fine della giornata mi sento a disagio: ho fatto un'indigestione di nozioni, senza il condimento di esperienza. 
La sera incontro un backpacker giapponese, bardato in maniera classica: occhiali da sole e asciugamano bianco avvolto in testa. Lo chiamerò Akira, in onore di un lungometraggio di animazione che mi affascinò anni or sono. Akira visita i templi in bicicletta. La noleggia in città, percorre di buon mattino il tratto di strada che porta al sito e poi si aggira tra i templi pedalando.
"Ma che differenza fa?"
"Prova e poi mi dici!"
"Allora domattina vengo con te..."
La bicicletta ovviamente costa meno del motorino, buone notizie per i miei risparmi. Sono fuori forma e il mezzo non è certo di quelli che si usano al Tour de France, così sono costretto a procedere piuttosto lentamente. Akira però ha ragione, rispetto al motorino è tutta un'altra cosa. Non me lo sarei aspettato ma ciò che fa la differenza è il sonoro. È come se mi trovassi in un vecchio studio di registrazione e un tecnico avesse abbassato la leva che opera sulla frequenza del motore, alzando le altre. E così ascolto gli uccellini che cinguettano, i bambini che giocano, un signore che sega un pezzo di legno dietro casa, un cane che abbaia alle talpe. Angkor, in pieno stile orientale, è un sito archeologico attorno al quale la gente continua a vivere, con abitazioni, piccoli negozi, scuole. È un'atmosfera magica che senza l'aiuto dei suoni mi sarei completamente perso. Ci metto molto per raggiungere ogni tempio, ma il tragitto è tutt'altro che noioso. Ho il tempo per osservare la vegetazione, la fauna, la vita, i colori, le sfumature. A volte sprofondo in questa nuova Angkor, in questa sua atmosfera ipnotica, a tal punto da non fare in tempo a riemergere prima di raggiungere un tempio, e proseguo quindi per quello successivo. 
Ritorno a Siem Reap in serata. Mi guardo allo specchio: è come se avessi attraversato il Sahara a piedi. Sono imbrattato alla stregua di un ridicolo spazzacamino delle fiabe. Invece di fuliggine la coltre che ho addosso è fatta di polvere di sterrato cementata dal sudore. La maglietta, che normalmente metterei in lavatrice, è irrecuperabile: me la tolgo e la getto direttamente nell'immondizia. La doccia dura quasi mezzora e devo grattare energicamente per rimuovere la crosta che mi avvolge.
Da domani niente più spedizioni di un giorno intero. Mi godrò i templi due o tre ore per volta. Ma la bicicletta, quella trovata semplice e geniale che devo ad Akira, non me la toglie più nessuno.

Angkor, Cambogia, marzo 2002

martedì 21 settembre 2010

Una nuova stirpe di samurai - Mae Hong Son, Thailandia

Ponte giapponese, Pai, di Fabio
È il settembre del 2001. Sono crollate da poco le Torri Gemelle e da poco è crollata anche la mia prospettiva di una carriera solida, un posto fisso, le promozioni, lo stipendio assicurato, la pensione alla fine, gli annessi e i connessi. Crollata nel senso che l'ho abbattuta io, non che se ne sia venuta giù da sola o che qualcun altro mi abbia dato una mano a demolirla. 
Ma non divaghiamo. È il settembre del 2001, dicevamo. Sono sbarcato in Asia da poco, deciso a visitarne la fetta più grande possibile prima di terminare i risparmi. La strada che collega Chiang Mai e Pai è lo stesso tracciato tortuoso e sottile segnato tra i monti e le valli della provincia di Mae Hong Son dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Pai sta cominciando a svilupparsi: ci sono varie guest house, qualche agenzia che organizza trekking e noleggia biciclette, dei ristorantini e un paio di bar con dei cowboy siamesi che suonano country e folk dal vivo. Le ondate di turisti thai cominceranno a inondare il paesino fra qualche anno, per ora arrivano soltanto poche decine di giovanotti stranieri al giorno. E lo fanno a bordo di uno sgangheratissimo micro-autobus costruito su misura per nani bambini, sgargiante di vernice colorata e ruggine, rumoroso, rovente e pieno come un budello costipato. I minivan ad aria condizionata non percorrono ancora la tratta, men che meno i piccoli aerei che atterrano lì vicino oggigiorno. Se non hai un'auto o una moto l'autobus dei Playmobil è l'unica alternativa che ti resta. I passeggeri stranieri si mescolano con un numero sproporzionato di thai, che poi thai nel senso stretto del termine non sono visto che appartengono quasi tutti alle minoranze etniche che popolano la zona: Shan, Karen, Akha, Lisu, Lahu. Li dividono - o li uniscono - sacchi di riso, cibo, scatoloni di elettrodomestici e utensili, pollame, prodotti ittici e altri oggetti misteriosi. I sedili da un posto e un quarto ospitano di media tre o quattro passeggeri, che nel caso siano occidentali di dimensioni standard devono trovare il modo di gestire la scomoda presenza delle loro ginocchia. Altri stanno accovacciati su un panchinone incandescente che copre gli elementi meccanici del mezzo, a lato del conducente. I restanti si accalcano nel corridoio.
Cedo il posto a una signora oberata da una pesante cesta che porta in spalla come fosse la cartella di uno studente. Sorrisi e complimenti mi inondano. È popolarità a basso costo, un lusso che ti puoi permettere soltanto in situazioni del genere. Poco dopo il mezzo comincia a scoppiettare, rallenta, poi riprende, grugnisce ancora, tossisce, sussulta e a metà di un pendio piuttosto inclinato si spegne. L'autista ci dà dentro con l'accensione, il congegno di avviamento lo asseconda lanciando urla strazianti nel tentativo di svegliare il motore ma non c'è niente da fare, costui è sordo. Bisogna scendere e considerati i problemi di temperatura, spazio e olfatto nessuno degli stranieri la prende male. I locali, come spesso accade in Asia, subiscono gli eventi senza particolari cambi di espressione facciale. Dopo una mezzora però il sollievo della sosta lascia spazio a qualche sbuffo, che in pochi minuti si trasforma in irrequietezza dichiarata. Poi accade qualcosa. Passa un pick-up giapponese, l'unico turista thai presente (col senno di poi lo definirei una sorta di pioniere) lo ferma, chiede un passaggio e poi fa un cenno verso il resto della truppa. Una decina di stranieri trova posto a bordo del mezzo che pochi secondi dopo è già sparito dietro un tornante. Chi è rimasto a terra ha capito il trucco e si organizza per fermare la prossima auto. Io sono stordito da caldo e crampi e non ho ancora deciso se restare o accodarmi. Come al solito rimando e aspetto che qualcosa o qualcuno arrivi a darmi un suggerimento. L'oracolo si presenta sotto le sembianze di Makoto, un ragazzo giapponese tutto sorrisi, energia e idee chiare. Dieci secondi in sua compagnia funzionano meglio di un bottiglione di Redbull.
"Io resto, guarda come si stanno dando da fare per riparare il mezzo e portarci a Pai. Non li posso abbandonare così..."
Per un attimo non reagisco, poi la forza della frase e del proposito mi colpisce come un pugno di Mike Tyson. Penso che sarebbe bello mettersi a piangere di fronte a certe manifestazioni di umanità, ma non mi sembra la situazione più appropriata e opto quindi per un sorriso.
"Ma sì, resto anch'io! E poi che fretta c'è, mica mi stanno aspettando..."
Non ci mettono molto a riparare il guasto e nel giro di un paio d'ore siamo a Pai.
Di solito quando pensiamo agli stereotipi ci vengono subito in mente immagini negative. Italiani-furbacchioni, tedeschi-antipatici, francesi-snob, giapponesi-creduloni che fanno foto. Ecco, Makoto è l'esemplificazione di uno stereotipo del Giappone che a me invece fa impazzire. L'aderenza a un'idea, a un principio, non necessariamente politico o nazionalista ma come in questo caso di solidarietà umana, di buone maniere, di riconoscenza, di comprensione e compassione. La resistenza alla tentazione, il rifiuto della via semplice, il non campare scuse, nemmeno con se stessi. Forse è un retaggio della cultura samurai, o almeno a me piace vederla così. E il tutto condito da sorriso e positività. Ecco perché dopo i cinque secondi di sbigottimento la commozione ha provato a farmi venire gli occhi lucidi.
Il grande Makoto. Proseguiremo il viaggio assieme per qualche giorno. Sarà lui a organizzare una mini-festa per il mio compleanno in un ristorantino, coinvolgendo anche le cameriere che contribuiranno con un succulento e coreografico piatto di frutta in omaggio. E sarà lui a farmi ridere di nuovo quando tornando da una corsa al bagno di una stazione degli autobus, trafelato, ansimante, con la fronte imperlata di sudore e reggendosi la pancia mentre contorce la bocca in smorfie di sofferenza, per scusarsi del ritardo se ne uscirà con: "Sorry Fabio...it waaas an e-me-ru-gen-cyyy!"
Il Grande Makoto, stereotipo d'eccezione. Rappresentante per il sud est asiatico di una nuova stirpe di samurai.

Provincia di Mae Hong Son, Thailandia, settembre 2001

venerdì 17 settembre 2010

Turista cronista, Corriere della Sera - Viaggi

Little India, Kuala Lumpur, di Fabio
Questo post è diverso dai soliti, mi scuso subito per il cambio di stile e per il sordido intento auto-pubblicitario.
Ho partecipato a un'iniziativa del Corriere della Sera Viaggi dal titolo "Turista cronista", inviando un diario. Ci sono foto e brani tratti perlopiù da questo blog. È impaginato un po' male ma si legge lo stesso. Se vi va dateci un'occhiata e se vi piace cliccate sulle stelline in alto, sopra le foto, grazie. Lo trovate qui.

martedì 14 settembre 2010

Impantanato - Muang Ngoi, Laos

Bombe americane inesplose, di Fabio
Poggi un piede e controlli i muscoli per mantenere il corpo in equilibrio nel caso scivolassi. Ma hai fatto male i conti. Quella delle vie di Muang Ngoi è un'argilla particolare: dopo settimane di piogge monsoniche si trasforma in colla. Una miscela che qualche laboratorio chimico, se non l'hanno già fatto, dovrebbe analizzare. 
Il problema non si presenta al momento del contatto tra suola e terra, quando la poltiglia si avvinghia alla gomma della tua calzatura come il cemento quasi asciutto di un nuovo marciapiedi. L'equilibrio in quel momento è assicurato, il piede non scivola di un solo millimetro. La situazione cambia quando effettui il secondo passo e sposti il baricentro del corpo per avanzare. Avanza la testa, avanza il petto, il bacino li segue, pure la coscia e il ginocchio si muovono a rimorchio. Ma a livello della caviglia qualcosa va storto. Il primo piede è ancorato, incagliato, saldato, termofuso. Tu non ti rendi ancora conto della forza di quel legame e dai un piccolo strattone convinto di farcela, come ce l'hai fatta un po' ovunque fino ad ora, monsone o non monsone. L'unica cosa che sembra cedere è però la struttura della calzatura. È evidente che il corpo della scarpa ha più probabilità di separarsi dalla suola di quante questa ne abbia di scollarsi dalla strada. Temi il peggio. Sai che la mossa di violenza ti lascerà scalzo, quindi mantieni i nervi saldi mentre metti in atto una manovra di aggiramento, qualcosa che hai imparato tempo fa su una poltroncina da dentista: una serie di dolci movimenti circolari, nella speranza di allentare la presa prima di procedere con l'estrazione. 
La sensazione di cadere nel ridicolo te la sei già scrollata di dosso quando ti sei dato un'occhiata attorno. Di laotiani incagliati non ne vedi: o se ne stanno tutti a casa o hanno scoperto il metodo per pattinare sul mastice. Ma la strada è piena di stranieri nella tua stessa situazione. La scena ti fa pensare alla sala di un museo in cui una qualche Fata Turchina con degli abili tocchi di bacchetta ha portato in vita le statue, giocando loro però un brutto scherzo: uno dei piedi è rimasto pietrificato, saldato al piedistallo. E tutte si dimenano, impazzite per la gioia di poter finalmente muovere le membra dopo tanti secoli ma al contempo nel panico per quell'ultimo vincolo che le inchioda sul posto. 
Alla fine ce la fai, la suola si scolla, il piede si alza e finalmente muovi un passo. Ma sai che non andrai lontano, che prima o poi le cinghie del sandalo cederanno. La tua intuizione è confermata dal cimitero delle calzature che hai davanti: suole di altri sandali, ciabatte, scarpe da tennis e persino da trekking spuntano qua e là, piantate su tumuli fatti di un materiale che sembra gelato al cioccolato artigianale, ma con una consistenza e un potere adesivo mille volte più forti.
A Muang Ngoi c'ero già stato anni fa, durante la bella stagione: tutta un'altra storia. È un villaggio che si sviluppa attorno a poche strade sterrate, senza traffico, dove si arriva soltanto in barca da Nong Khiaw, un paesino poco lontano. Un piccolo paradiso, forse un po' rovinato dal turismo, che mantiene comunque la sua atmosfera. Ora è invivibile. Complesso aggirarsi tra le case costruite con le ogive delle bombe americane, impensabile andare a visitare le grotte e le colline nei dintorni. Domani ci si imbarca e si torna a Luang Prabang. 
Sfruttando dei sentieri erbosi e procedendo spesso a piedi scalzi arrivo a un tempietto: dei pulcini razzolano nel cortile e in un angolo c'è una campana-gong costruita con i resti di un ordigno. Incontro dei simpatici bolognesi che dopo un paio di chiacchiere mi convincono a restare un altro giorno. Ma sì, pensandoci bene in buona compagnia questo posto non è così male.
La mattina dopo mi sveglio e vado a cercarli per fare colazione. Hanno già fatto il check-out. Mi guardo attorno e vedo solo nuvole plumbee, foglie grondanti di pioggia e una distesa infinita di fango a presa rapida. Mi sforzo ma non riesco proprio a ricordare quale fosse il lato positivo che riuscivo a vederci ieri sera. 
La prossima barca parte domattina, mi toccherà restare qui un altro giorno, impantanato in tutti i sensi, in compagnia di un libro e una brocca di caffè, mentre i bolognesi che mi hanno convinto a restare se la spassano tra i comfort e l'atmosfera franco-coloniale di Luang Prabang.  
Qui invece di francese mi resta soltanto un detto vagamente beffardo: c'est la vie!

Muang Ngoi, Laos, agosto 2007

venerdì 10 settembre 2010

La linea di demarcazione - Bangkok, Thailandia

Traffico di Bangkok-Pahonyothin Rd. in una notte di pioggia, di Fabio
Sono in autobus, in piedi, con una mano stretta attorno a un palo. Sono l'unico straniero a bordo, come sempre su questa linea. Le prime volte provavo un vago senso di imbarazzo. Ero conscio degli sguardi dei thailandesi puntati su di me, potevo quasi sentire i loro pensieri: "Ma che ci fa quel farang su questo mezzo? Perché non prende un taxi, o guida, o abita in centro?" È vero che spesso questo è ciò che qui pensano degli stranieri, ma di sicuro una leggera brezza di paranoia soffiava sui miei pensieri facendomi sentire più sguardi addosso di quelli che effettivamente mi venivano dedicati: la maggior parte dei passeggeri continuava infatti a sonnecchiare dopo una lunga giornata di lavoro, o a leggere, chiacchierare, ascoltare musica. Ora comunque i miei sensori hanno sviluppato un filtro per questo genere di sensazioni e non ci faccio quasi più caso.
Il semaforo è rosso, siamo in coda, in terza corsia. La mia fermata sta poco dopo l'incrocio ma io mi conosco bene e so che ora comincerò a fantasticare, a farmi trasportare e distrarre da una catena di pensieri, numerosi, arrugginiti e ammaccati come i suoi anelli, dimenticandomi di scendere. Mi avvicino alla porta e premo il pulsante in anticipo. La bigliettaia mi osserva e così fa anche qualcun altro, e questa volta non me lo sto immaginando. Vuoi vedere che...ma no, non può essere...poi l'autista preme un tasto e la porta si apre. Un diabolico, inaspettato esempio del principio di causa-effetto: io ho premuto il pulsante e lui ha aperto la porta. Proprio così, apposta per me. Era quello che temevo, anche se la mia mente non ha fatto in tempo a sviluppare un'immagine precisa. Normalmente uno suona il campanello per prenotare la fermata successiva, non per farsi aprire le porte seduta stante. Tra l'altro c'è scritto dappertutto che gli autobus possono raccogliere e depositare i passeggeri soltanto alle apposite fermate. Questo è un incrocio, trafficato e pericoloso. Ma io ho premuto il pulsante e il conducente ha aperto quella maledetta porta. Aspetto un secondo, magari qualcuno scende e mi cancella dalla scena come un omino in un fumetto in lavorazione. Com'era prevedibile nessuno si muove. Ora che faccio? Io scendo. Meglio che restare a bordo, abbozzare un sorriso scemo per far capire che non miravo a tanto e fare quindi la figura del babbeo. Un saltello, op-là, attenzione ai motorini e sono già sul marciapiedi, camuffato con un discreto velo di proposito e determinazione. Come a dire: "è esattamente quel che volevo fare!" 
Ora i thailandesi staranno pensando: "Ma guarda questo farang, come si destreggia bene, ha imparato a muoversi con disinvoltura tra le varie sfumature dei costumi locali." Così o con parole loro lasciamoglielo pensare. Non possono nemmeno sospettare quale sia il laido retroscena.
Vedi però, chi l'avrebbe mai detto, la linea di demarcazione tra una figuraccia da sfigato e un figurone da figo a volte può essere molto sottile!

martedì 7 settembre 2010

Bagarini d'alta quota - Medan, Indonesia

Crossing the morning sky, di Docbudie (CC)
Sumatra l'abbiamo visitata, segniamo il tick sulla lista e passiamo alla prossima tappa: Giava. Torniamo a Medan alla ricerca di un volo. Alla prima agenzia un impiegato annoiato ci fa sapere che i voli per Giacarta - e per qualsiasi altra destinazione - sono tutti pieni, per vari giorni.
"Ma...proprio tutti?"
"Tutti!"
Questo non ha voglia di lavorare, pensiamo all'unisono mentre cerchiamo un'altra agenzia. Forse i lavoratori del settore turistico a Medan sono davvero pigri e annoiati, ma ciò non ha nulla a che fare con la disponibilità dei voli. È periodo di festa e gli indonesiani, soprattutto gli studenti, viaggiano, migrano, volano. Per tornare a casa, per andare in ferie, per visitare qualche amico, non si sa dove vadano, ma di sicuro hanno intasato il traffico aereo del paese.
Noi però apparteniamo a un'antica stirpe di tosti viaggiatori e non ci daremo per vinti così facilmente. Ci imbarchiamo in un taxi sgangherato e raggiungiamo l'aeroporto. L'area delle partenze nazionali è una bolgia di gente che si accampa ovunque, in attesa che si liberi un posto in qualche lista d'attesa. Facciamo un tentativo agli sportelli di qualche compagnia ma le loro risposte non ci sorprendono più: è tutto pieno. Una bagarina che ha fiutato la truffa ai danni di tre polli dal viso pallido ci si avvicina e ci offre tre carte di imbarco ad una cifra spropositata.

domenica 5 settembre 2010

La risposta

iber
Heart of Satan, di Stuck in Customs (CC)
A volte la nube plumbea dei dubbi riappare nel cielo della mente e comincia a far scrosciare una fitta pioggia di domande. Domande a cui hai già dato una risposta in passato, così tante volte, non solo con parole o pensieri ma anche con frustrazione, sofferenza e lievi stati di depressione.
Per un momento, tuttavia, sei in stallo e non riesci a ricordare quale fosse la risposta. Stabilità, lavori, salario fisso, professioni, piani pensionistici, copertura sanitaria. Perché rinunciare a tutto ciò? Per che cosa? Potresti rispondere a parole, ma sarebbe come l'esibizione di un merlo indiano, una filastrocca senza senso. La risposta non la puoi formulare, la devi sentire.
Poi vagabondi in città, in quei vicoli e angoli in cui l'irrequietezza incontra la notte, bevi una birra di troppo, osservi l'inverosimile che si dipana davanti a te. Ti svegli troppo presto o troppo tardi e non te ne devi preoccupare. Leggi un libro e potrebbe anche essere solo un paragrafo, un dialogo, una frase, un pensiero azzeccato. E tutto a un tratto ti ritorna in mente. Adesso lo sai perfettamente qual è la risposta.

giovedì 2 settembre 2010

Intrappolato - Malesia

Segnale in una corriera thai, di Fabio
Avevo captato il primo segnale quando gironzolavo nel terminal. Il sussulto di un muscolo, un'ondina, nulla più. L'avevo ignorato come si fa con la pulsazione improvvisa di una vena sulla tempia, un nervo del braccio che scatta di suo. O come uno di quei pensieri che si lasciano dietro una sensazione ma non un ricordo preciso. Probabilmente l'ho portato a galla dal fondo del Mar della Coscienza soltanto a posteriori, per associazione di idee, collegando gli eventi. Gli eventi, appunto, andiamo a seguire il loro sviluppo.
Un'ora dopo, quando già sono intrappolato tra i sedili di una corriera sottozero, quel primo movimento ha cominciato a riprodursi: onde e sussulti si susseguono come bolle nell'acqua in una pentola. Sfortunatamente però, la pentola è il mio ventre e l'acqua bollente è un lancinante attacco di diarrea. All'inizio cerchi di tenere la situazione sotto controllo, rilasciando con discrezione un filino di pressione, respirando a fondo, contraendo e distendendo a ciclo continuo. Ma hai voglia a controllare la situazione quando attraversi la Malesia per lungo. Nel giro di poco hai esaurito i gradi di libertà. 
Percorro il corridoio e mi avvicino al conducente, gli chiedo di fermarsi ma questo non mi sente. Ripeto, nulla, lo imploro ma lui sembra una sfinge baffuta appollaiata sul volante. Ha sentito benissimo ma se ne frega: vuole arrivare alla sua stazione di servizio di fiducia dove percepisce una commissione per ogni passeggero depositato.
Vorrei imitare il protagonista di una leggenda dei backpackers d'India. In una situazione simile questo viaggiatore mitologico ha richiesto la fermata, l'indiano ha sorriso e l'ha accontentato. Poi un secondo attacco e un'altra richiesta di sosta. Questa volta l'autista ha sbuffato ma si è comunque fermato. Alla terza supplica però non l'ha più ascoltato. Lo straniero mestamente si è sfilato la maglietta, l'ha stesa sul sedile e ci ha scaricato sopra tre buoni minuti di crampi, tra il caldo, le mosche e gli sguardi schifati dei vicini. Poi l'ha raccolta, come un fagotto da picnic, ha dato un'occhiata fuori e l'ha gettata dal finestrino.
Ma io non ho la stoffa dell'eroe leggendario e questa non è l'India, dove l'inverosimile accade. Mi tocca guadare le fitte, contando le contrazioni. Lo faccio all'entrata, di fianco al mio torturatore, che almeno il senso di colpa gli eroda l'arroganza. Quando arriviamo alla stazione mi faccio spazio a spallate, corro in bagno e poi starò bene. Dopo lo sbandamento iniziale i miei anticorpi si sono riorganizzati: memori dei mesi asiatici di duro allenamento si sono ricompattati in fretta per respingere l'assalto. 
Ma di sicuro per un po' me la sono vista brutta.

Malesia, settembre 2003

P.S. Come chi mi legge regolarmente avrà notato, per qualche insondabile ragione ultimamente mi tornano alla mente vari aneddoti con un argomento in comune. Involontariamente sto redigendo una sorta di Saga della sciolta. Gli altri episodi li potete trovare qui.

mercoledì 25 agosto 2010

Mai più come prima - Bangkok, Thailandia

Foto di Rizalis (CC)
Era uno dei miei locali Isan preferiti e ora non riuscirei più ad andarci a mangiare. Il marito di una mia amica ha contratto un'intossicazione alimentare e secondo il parere del medico i batteri che gliel'hanno trasmessa proliferano generalmente nelle feci degli scarafaggi. Feci con le quali si sospetta sia venuto in contatto proprio ai tavoli di quel ristorante. 
Purtroppo le conseguenze dell'evento sono di portata ben più vasta e non mi riferisco soltanto all'intestino di quel povero diavolo. Dal momento in cui ho ricevuto la notizia, quando sto seduto in un ristorantino qualunque immagino spesso che degli scarafaggi se ne stanno accovacciati su mini-water imbullonati al bordo del mio piatto. Esserini multizampa color mattone in posture innaturali che si distraggono leggendo micro-riviste patinate con veline o attrici antennute in copertina, mentre sforzano e fanno smorfie quasi umane per espellere granelli scuri di feci contaminate, pronti a pulirsi il fondoschiena e gettare la carta igienica sporca nel mio piatto.
Dannati scarafaggi, non sarà mai più come prima: la mia passione per il cibo di strada è seriamente compromessa!

lunedì 23 agosto 2010

L'inoculazione - Kunming, Cina

Tagliolini cinesi, di Fabio
È una calda serata estiva, una leggera brezza spazza la terrazza e il cielo terso permette alla luna di specchiarsi vanitosa sulla superficie immobile e densa del lago.
Alcuni amici italiani sono venuti a trovarmi a Kunming. Dopo aver bighellonato in città per alcune ore è giunta l'ora di portarli a cena. Per attutire lo shock culturale vorrei evitare i posti più semplici dove spesso vado a mangiare, non tanto perché non mi fidi della qualità del loro cibo quanto per le condizioni al contorno che potrebbero impressionare i nuovi arrivati. La scelta è caduta su questo localino carino, con i tavoli sul tetto di un edificio affacciato sul Green Lake, proprio vicino a casa mia.
Una cameriera graziosa e raffinata ci sorprende con un inglese piuttosto corretto: tra sorrisi e cortesie ordiniamo una serie di specialità nazionali e locali. Una ventina di minuti più tardi - un tempo più che sufficiente per preparare ognuna delle pietanze che abbiamo ordinato - un altro cameriere si avvicina al nostro tavolo. La conversazione è interrotta ma non l'ilarità. Ci aspettiamo una qualche sua mossa impeccabile, in armonia con l'umore drogato dall'atmosfera che ci fluttua attorno: che ci versi da bere, che sposti il contenitore del sale o una sedia, o che ci chieda se gradiamo dell'altra birra o una salsa particolare.
"Mi dispiace signori ma l'anatra che avete ordinato è finita."

giovedì 19 agosto 2010

Il passato continua a bussare

Neuroni, di Hljod.Huskona (CC)
Da quando tengo questo blog - ma già dai tempi in cui aggiornavo un vecchio sito in Geocities - l'intenzione è sempre stata quella di cercare di fissare nero su bianco qualcosa che mi ha colpito, un particolare che ho osservato, un personaggio originale, un profumo squisito o un odore da voltastomaco, ma anche solo un pensiero, una fantasia, un'impressione. Normalmente giro, osservo, fantastico, poi qualcosa raggiunge il mio radar e butto giù un appunto. Più tardi, una volta davanti al PC, ne tiro fuori un post. Ultimamente però vengo perseguitato da episodi del passato, più o meno remoto, che non ho catturato nemmeno in un fazzoletto di carta. E mi ritrovo a scrivere della mia vita in Cina, in Laos o a Singapore. Fortunatamente il ricordo è spesso ancora vivido. O a volte magari faccio un miscuglio di realtà e immaginazione talmente realistico che inganno pure me stesso. 
Ma questo è secondario. La domanda che mi stuzzica è un'altra: tutto ciò è casuale? Qualche strano trucco del cervello? Flussi mnemonici intrappolati in quei canaloni di materia grigia che come orbite di corpi celesti si incrociano ora e poi chissà, di nuovo tra cent'anni, due ere glaciali o mai più? O questo passato che mette la testa fuori dal buio del dimenticatoio ha un senso? Queste immagini, aneddoti, personaggi di anni fa che credevo perduti tornano ora a bussare alla porta della memoria per comunicarmi qualcosa, un significato generale, al di là di quello dei singoli racconti? La risposta me la potrebbe dare un analista, ma non ho né i soldi né la voglia per andarglielo a chiedere.
E poi chi lo sa? La spiegazione alla fine forse è più semplice. In fondo io col passato ho un rapporto speciale: sono da sempre un nostalgico cromosomico. Ve l'ho già detto qui e più recentemente anche qui
E allora sotto col prossimo post dal passato.

giovedì 12 agosto 2010

Rigorosamente ambientato a Chengdu - Cina

Domenica al parco, Chengdu. Di Fabio
Il taxi - quella berlina Volkswagen verde metallizzato prodotta e distribuita soltanto in Cina - sferraglia e sfumazza tra gli stradoni elevati che tagliano a fette il centro di Chengdu. Sovrappensiero osserviamo i piazzali, i parchi, i megaschermi e i cartelloni giganti. C'è anche una barca ristorante, attraccata lungo la riva di quello che potrebbe essere un fiume agonizzante o un canale sozzo. Per essere una metropoli cinese però questa città non è per niente male: ci si può passeggiare, la gente è cordiale e simpatica, i prezzi sono contenuti e la cucina è buona, quando il peperoncino non ti fa fuori la lingua.
È il fine settimana e siamo diretti verso una di quelle zone in cui le autorità di ogni città cinese amano concentrare (per direttive di partito?) la maggior parte dei locali notturni. Essendo praticamente dei supermercati del divertimento questi posti appartengono a catene e grandi società e quindi hanno spesso gli stessi nomi ovunque: puoi cambiare provincia, ascoltare nuove lingue, osservare facce e costumi diversi ma troverai un Babyface, un Mix o qualcosa del genere dovunque tu vada.
"Sai dov'è Luca adesso?"