giovedì 24 luglio 2008

Cina: anarchia antigienica - Kunming, Cina

È passato quasi un anno dal mio ultimo viaggio in Cina.

Esperienze, immagini e odori di quel paese ti restano addosso per sempre, come tatuaggi. Basta tirare su una manica o giù un calzino e mettono fuori la testa, colorati come la bandiera nazionale o multiformi, arzigogolati e magnetici come un ideogramma pennellato con la bella calligrafia di Mao.

E così, basta un’occhiata alle strisce pedonali per ricordarsi di come nelle città cinesi il pedone e lo scarafaggio godano pressapoco dello stesso rispetto. O sedersi a tavola ed afferrare due bacchette per ritrovarsi disorientati con la mente ad annaspare tra le onde e la schiuma (nonché i rifiuti galleggianti) dell’anarchia antigienica che regna nei ristoranti cinesi. Avanzi di cibo e spazzatura a decorare il pavimento, pareti dipinte coi colori delle salse e dei vapori di cottura, camerieri e cuochi che si raschiano l’interno delle narici con unghie lunghe come lame di coltelli, per poi affilarle con dei colpi di dritto e rovescio sui camici dipinti con complessi arabeschi di olio e grasso. In mezzo a questo deserto spuntano qua e là, come degli spinosissimi cacti, regole ferree, da non trasgredire per nulla al mondo, pena il taglio fantozziano della mano. Taglio soltanto morale, ovviamente. I cinesi, come sanno quasi tutti (soprattutto chi in Cina non c’è mai stato), sono cattivissimi - forse mangiano persino i bambini -, ma non sono ancora arrivati a quel punto.

Baozi, dei bocconcini ripieni di carne e verdura. I ristorantini che li servono si riconoscono per la pila di cestelli di bambù eretta sopra il getto di vapore, sistemata di solito di fianco all’ingresso. Appena entrati, si ordina una porzione con il ripieno preferito e ci si va a sedere, su sgabellini che spesso sono progettati per nani.

Il cameriere poggia sul tavolo un piattino di ceramica, le bacchette e i contenitori delle salse. Piattino, tavolo, finestre, l’intera sala da pranzo e l’uscio: è tutto in scala con gli sgabelli, dimensionato sulla taglia dei corpicini di brontolo e mammolo; persino uno dei camerieri è piccolo, piccolissimo, minuscolo. Il ristorante intero è stato scritto da Jonathan Swift. Oltre la finestra invece si alzano i palazzoni, le strade spaziose, le università (ben due in questa stessa via!) con i loro parchi estesi, completi di sculture e ruscelli. Tutto colossale. E per fortuna che questa è Kunming e non Pechino, la capitale (mondiale) del gigantismo.

Ma finalmente arrivano i bocconcini, sistemati ordinatamente sul loro cestello, una specie di scatoletta di bambù senza coperchio, con un fondo intrecciato che in fase di cottura lascia passare il vapore, di scatoletta in scatoletta, fino alla cima della pila. Un sistema antico, semplice e ingegnoso.

Lo straniero che siede davanti a me stringe in maniera un po’ goffa un baozi tra le bacchette, lo intinge nella salsa, lo porta alla bocca e con un morso ne divora metà. Poi lo poggia nuovamente sul cestello, mastica e assapora l’impasto di pane, carne, verdure e spezie. Io inforco le bacchette e mi preparo all’assalto, ma mi blocco quasi subito, con le dita intrecciate in una innaturale posizione intermedia, da crampi.

Dietro a me, dall’entrata della cucina, ho sentito dei passi che si affrettano verso il nostro tavolo, e in sottofondo altri suoni confusi.

Mi giro e vedo la stessa cameriera che ci ha servito mentre punta dritto verso di noi, fissa qualcosa sul tavolo e parla, in un incomprensibile dialetto yunnanese. Non c'è nessun altro davanti a lei, ma non sembra che le interessi se noi capiamo o no. Dà l'impressione di rivolgersi a qualcuno in cucina, a se stessa, a Buddha o a nessuno. Mentre passa di fianco ad una credenza, senza fermarsi o voltarsi stende un braccio verso una colonna di piatti e con la mano che si muove a memoria ne afferra due. Arrivata al nostro tavolo ce li mette davanti, uno a testa. Poi, cercando di contenere la seccatura, ci fa segno di poggiare i baozi già morsicati sul piattino, e NON sul vassoio di legno.

Seduta vicino a noi c’è una ragazza cinese che conosco di vista. Ho notato che osservava la scena in silenzio. Sono confuso. Le chiedo discretamente che cosa è successo. Mi risponde a bassa voce e farfugliando, un po’ imbarazzata. Alla fine capisco che il cibo parzialmente consumato non va poggiato sulle scatolette. Credo di intuire anche che i cestelli di bambù passano direttamente dal tavolo alla pila di cottura, con un nuovo carico di panini, senza essere lavati. Vengono quindi utilizzati soltanto come sostegno, non come piatto vero e proprio. Per ovvi motivi igienici, le pietanze che sono già state a contatto con la bocca di un cliente non possono esservi poggiate sopra. Così come non si intingono le proprie posate nei contenitori di salsa che stanno al centro della tavola, quelli che vengono utilizzati da tutti. Ogni cinese lo sa e non lo farebbe mai. Sarebbe un po’ come se in Italia qualcuno pescasse il sale o lo zucchero dal contenitore comune con il cucchiaio bavoso che si è appena sfilato dalla bocca. In effetti non fa un gran bel vedere.

La regola ha senso, non c’è niente da dire. Se lo straniero avesse saputo che i cestelli vengono utilizzati in quel modo, non avrebbe mai commesso l’errore. Ed io non sarei stato sul punto di fare altrettanto. Il fatto è che in Cina è difficile tenere alta l’attenzione per questo tipo di dettagli. Se per caso ti cade l’occhio sotto il tavolo, ti si presenta uno spettacolo di costolette spolpate che fermentano in mezzo ai tuoi piedi tra salviette sporche e stuzzicadenti; se poi per dimenticare quello schifo ti volti a dare un’occhiata fuori dalla finestra, a pochi metri dal tuo cibo c’è lì una truppa di topi che banchetta tra i cumuli di pattume accatastati sul marciapiede; poggi allora i gomiti sul tavolo e ti metti le mani davanti agli occhi, per non vedere nulla, ma sei assalito dalle note di una sinfonia rugosa, dove gli archi e i fiati delle gole schiarite sono seguiti dalle percussioni delle scatarrate che precipitano al suolo. Lo spettacolo degli sputi, tra l’altro, così come quello del fumo di sigaretta, va in onda ovunque: bar, ristoranti, cybercafe, cinema, autobus, vagoni letto, ospedali! Non dico che uno ci si abitua in fretta e comincia a seguire l’esempio, ma di certo in tema di igiene dopo un po’ l’asticella degli standard si abbassa e le aspettative vengono ridimensionate, così come la fiducia nel buon senso e nelle regole che questo dovrebbe suggerire.

Dopo alcuni mesi in un posto così - diciamo - originale, chi se lo aspettava di essere rimproverati per aver semplicemente poggiato il panino al vapore su quello che credevamo fosse il nostro piatto? E come per Fantozzi al ristorante giapponese, se fai un errore salta fuori un samurai, che con una secca stoccata di katana ti tronca di netto la mano fallosa. Zac!

No, per carità, non parliamo di Giappone in casa dei cinesi: in quel caso, oltre alla mano, potrebbero decidere di tagliarti pure la lingua...



lunedì 21 luglio 2008

Quello del globo. Kuala Lumpur - Malesia, 21 luglio 2008

“Quello del globo”, ecco chi era! L’avevo “sniffato” già da qualche secondo, il suo olezzo pungente sbucato come un fungo nel prato degli aromi da bazar di Bukit Bintang, ma fino a quando non l’ho individuato il mio istinto andava a caccia di una sorgente d’altro tipo.

Quando si trascina stanco lungo il marciapiedi, la folla gli scorre attorno, allargandoglisi davanti e chiudendosi alle sue spalle, con l'andamento costante dei flutti di un fiume che si adattano morbidamente al contorno di un isolotto.

Urtarlo è impossibile, perché si entra in stato di allerta già quando ci si trova a qualche metro di distanza. Il globo, quello scudo, la bolla che lo circonda, un guscio che si porta dietro come una tartaruga, lo percepisci prima con l’olfatto e soltanto più tardi con la vista. È un odore acido e secco, il fetore di un fluido fermentato che si è asciugato di recente su di un letto di paglia. Uno sbuffo talmente forte di cui solo una parte intercetta il naso, costringendo la frazione che non riesce a penetrare a conficcarsi come una pioggia di spilli nella smorfia che ti ha contratto il muso.

Ha in mano una copia di un giornale gratuito. In cima agli scalini sui quali si è accovacciato è stato da poco sistemato un ufficio di cambio, la versione gigante di una vaschetta da frullatore. Il grosso cubo di vetro e fibre plastiche potrebbe essere la fermata sospesa di un autobus a levitazione, nel cielo di una metropoli dell’anno 3000.

“Quello del globo” alza gli occhi, sembra che mi fissi ma non mi vede. Il sorriso ebete è sprofondato nella barba, un cespuglietto ben potato di pelo nero e riccio. La metà del viso dal naso in su sta compressa nel tubetto della sua faccia ad ampolla, spaziosa in basso per le labbra e i pochi denti, ma troppo stretta in alto per accomodare gli occhi strabuzzati da insonne cronico. Il rettangolino di pelle che gli copre gli zigomi ha l’aspetto morbido, lucido e leggermente madido della fettina di una cintura in cuoio su cui il metallo della fibbia ha lavorato per mesi.

“Quello del globo” è un barbone originale. Quando ti si avvicina con l’espressione di un pazzo che per passare inosservato si finge rimbambito e ti allunga la mano come per toccare un alieno, tu alzi di scatto lo sguardo dal libro e ti accorgi che d’istinto sei entrato in apnea, poi lo ignori come hai ignorato chi l’ha preceduto. Ma quando ti appresti a ritrovare il segno che hai perduto, con la coda dell’occhio noti i suoi movimenti da bradipo, mentre rientra nella sua corsia preferenziale sul marciapiedi. Ti chiedi se quell’espressione da matto o deficiente gli stia incollata al muso in maniera permanente o se se la scrollerà di dosso con la stessa lentezza con cui non ha ancora finito di ritirare la mano dell’elemosina. Resti ipnotizzato ad osservarlo, col dito sul libro, dimenticato su una riga che non c’entra nulla, mentre col movimento rallentato di un robot antiquato lui gira il collo e punta un rifiuto sul pavimento. Si china per raccoglierlo piegando la schiena da novantenne, tu pari la nuova zaffata con un airbag di guance gonfiate e allo stesso tempo ti chiedi cosa avrà trovato; che se ne potrà mai fare dell’incarto di una caramella, di un tappo di bottiglia o di un mozzicone di sigaretta?

Poi lo osservi mentre scruta l’oggetto: se non sapessi già che quello sguardo allucinato è l'espressione naturale con cui compie ogni suo gesto, sospetteresti che tra le dita regge l’artiglio di un dinosauro. Abbassa la mano, si gira e ti fissa sbalordito, ma probabilmente quello che osserva non è ciò che ha davanti agli occhi. Quindi riparte con la solita flemma, trova un cestino e vi getta il rifiuto.

Ora la bocca si è aperta pure a te e ti sorge il sospetto che quella sua espressione tonta la riesci ad imitare abbastanza bene. Ti riprendi di scatto e ti irrigidisci sulla sedia, ti infili una mano in tasca, tiri fuori qualche moneta e cerchi in fretta il modo di attirare la sua attenzione.

Ve lo posso assicurare, “quello del globo” puzza di brutto. Credo che una doccia non se la faccia da anni, ma alla pulizia della sua città sembra tenerci parecchio.