lunedì 31 marzo 2008

L’isola delle sorprese. Tioman - Malesia, 31 marzo 2008

La procedura di imbarco sul ferry che da Mersing, sulla terraferma, porta all’isola di Tioman, è da raccontare nel dettaglio.

Dopo aver prenotato il viaggio, dall’agenzia ci portano al molo con un furgoncino. All’uscita dal mezzo l’autista ci chiede di esibire il biglietto per la barca, strappa il talloncino più piccolo e se lo mette in tasca. Restiamo un po’ sorpresi ma accettiamo in silenzio, prendiamo i bagagli e ci avviamo. Ci presentiamo allo sportello dell’operatore, dove una ragazza, che per colmare le lacune del suo inglese sorride in continuazione, ci controlla nuovamente il biglietto (la parte che abbiamo conservato) e ci fa compilare un modulo con i campi del nome, della nazionalità, il numero di passaporto e le altre generalità.

“Nel caso affondassimo...” commenta ironicamente un turista inglese.

Quando arriva l’ora dell’imbarco il cancello si apre e una fila di tre addetti si apposta per controllare nuovamente i biglietti. O almeno così ci sembrava.

Scopriamo invece che ad ognuno dei tre è stata affidata una mansione diversa. Il primo effettivamente controlla il biglietto e ci consegna un tesserino giallo valido per una tratta semplice. È la stessa ragazza che ci ha fatto compilare il modulo, a cui tocca quindi controllare il biglietto due volte nel giro di cinque minuti.

Il secondo intercetta nuovamente il foglietto che ognuno, credendo che ne abbiano abbastanza, sta per rimettersi in tasca, e ne strappa un lembo per invalidarlo.

Il terzo infine, in piedi ad un solo metro dalla ragazza che ci aveva consegnato il talloncino giallo, ce lo ritira per certificare l’avvenuto imbarco. Il cedolino ci è rimasto tra le dita per un tempo talmente breve che viene quasi voglia di tenerlo stretto tra le dita un altro po’, senza consegnarlo.

Dopo le tre fasi di questa sequenza, i turisti si incamminano sulle assi di legno del pontile, con un sorriso incredulo tra le labbra.

Riassumendo: l’agenzia vende il biglietto composto da due parti. L’autista del furgoncino lo controlla e strappa il cedolino più piccolo. Allo sportello il biglietto viene verificato nuovamente al momento del riempimento del formulario. Al cancello dell’imbarco una fila di tre addetti si occupa 1) di verificare per la terza volta il documento di viaggio, consegnando in caso di riscontro positivo un ulteriore talloncino, 2) di strappare un lembo al biglietto, e 3) di ritirare il tagliando appena consegnato.

Non male, ricorda la procedura da seguire per salire in un treno nella Cina Popolare. Lì uno se la spiega con l’esigenza del governo di dare un lavoro, o meglio uno stipendio, a qualche centinaio di milioni di cittadini. Ma in Malesia? Chissà...

Sbarchiamo alla spiaggia ABC, uno spiritosissimo acronimo per il nome malay della località. I malesiani, come i singaporiani, sono dei grandi amanti di acronimi, sigle e abbreviazioni. Probabilmente più degli stessi americani, che cercano costantemente di imitare.

ABC è solo l’ennesimo di una lunga lista. KL è ovviamente Kuala Lumpur, la capitale. JB è Johor Bahru, la città che fronteggia Singapore sul lato malese dello stretto. KLCC è il complesso del Centro conferenze, che comprende anche le torri Petronas, a cui spesso ci si riferisce con la stessa sigla. KLIA è l’aeroporto internazionale principale, ma LCCT è quello utilizzato dalle compagnie low cost, la più importante delle quali è Air Asia, la Ryan Air d’oriente. E così via.

Qui si cerca di abbreviare tutto. I nomi originali sono alle volte un po’ lunghetti e non c’è tempo sufficiente per pronunciali interamente. Come dare torto ai poveri malesiani? Provate per esempio a dire: Kuala Lumpur convention centre. Quando ce l’avrete fatta la conferenza potrà nel frattempo essere già terminata.

Qualcosa di ancor più fastidioso potrebbe capitarvi poi se al check-in per il vostro volo vi salta in mente di pronunciare per intero Kuala Lumpur International Airport o Low Cost Carriers Terminal.

Ma a parte tutto l’isola di Tioman è davvero bella.

L’acqua è calma e limpida e persino sporgendosi dal parapetto del molo a cui ha attraccato la nostra barca è possibile restare incantati ad osservare i variopinti branchi di pesci che sfrecciano, avanzano, si voltano tutti assieme e tornano indietro, fuggono spaventati da chissà cosa, o procedono stancamente, senza mai rompere le fila, con movimenti sincronizzati, comandati da un solo cervello, rimodellando di volta in volta con armonia la forma della loro “bolla”.

La marea è bassa, non vale la pena nuotare ma si può comunque restare immersi a pancia in su, fluttuando dolcemente, con lo sguardo rivolto verso l’isola, da principio per controllare la borsa lasciata incustodita in riva, ma poi scordandosene facendosi catturare dalla bellezza della foto che, dal basso verso l’alto, si sviluppa con una striscia di arena luccicante, seguita da una fila di palme e altri alberi a foglia larga, dalle fronde di un verde talmente vivido da sembrare saturato in maniera artificiale. Fila interrotta qua e là dal riquadro rosso-marrone di un bungalow, che da queste parti chiamano chalet. Un po’ più in alto scorre la fascia frastagliata e fuori fuoco delle colline retrostanti, avvolta dalla schiuma delle nuvole color panna che macchiano il cielo opaco, gonfio di umidità.

Ad ammirare il profilo di Tioman ci si scorda quasi di essere immersi, fino a quando una scossa di nervi ci mette in allarme, ricordandoci che l’acqua, pur caldissima, ci ha sottratto calore per quasi un’ora. Ci alziamo, camminiamo con cautela cercando di evitare i ciottoli che riusciamo a scorgere attraverso la superficie trasparente, ma qualche ondina maligna ci sbilancia e cominciamo ad avanzare come su un letto di braci, emettendo urletti imbarazzanti ogni volta che un piede si poggia su una pietra o su un pezzo di corallo.

Arrivati in riva ci voltiamo e ci accorgiamo con meraviglia che è come se qualcuno avesse premuto sul telecomando il tasto “+” del controllo dei colori. La U della baia si esibisce in pose diverse cambiando abito ogni cinque minuti, mentre il cielo da celeste-grigio, seguendo una sequenza impensabile di tonalità sfumate, finisce per diventare nero-viola.

Ma a questo punto noi stiamo già seduti al tavolo del ristorante in riva, pronti a dare l’assalto al piatto succulento che il cameriere malay ci poggia davanti. Circondato da una collinetta di patatine fritte e da un altopiano di verdure cotte in una salsa di curry piuttosto piccante, sta steso a pancia in su un grande trancio di tonno, pescato in giornata.

In questo locale servono pure la birra, nonostante i divieti pubblicati su enormi cartelli che proibiscono ai malay di consumare, comprare o persino vendere birra, liquori o qualsiasi altra sostanza intossicante. Pena prevista un multa non troppo elevata e la somministrazione di un buon numero di frustate con il rotan. Una canna che provoca delle ferite a carne viva molto dolorose, come documentato dal video-shock di un’esecuzione, che venne pubblicato anche dai quotidiani italiani alcuni mesi or sono.

Allo stesso tavolo stanno seduti anche una ragazza giapponese e un canadese che insegna inglese a Nagoya.

Il proprietario del locale, un malay sveglio dalle orecchie lunghe, mentre passa a raccogliere i piatti sporchi coglie al volo un nostro commento su alcune pratiche sospette adottate dalle agenzie turistiche nella città di Mersing, da dove partono i collegamenti con l’isola.

Sia l’autobus proveniente da Malacca che quello partito da Kuala Lumpur con cui è arrivato il canadese si sono fermati a sorpresa davanti ad un’agenzia turistica, ben prima di arrivare al capolinea. Dopo una breve telefonata effettuata dall’autista malay, un cinese sorridente è salito ad annunciare che chi era diretto all’isola poteva fermarsi qui per sbrigare le pratiche di imbarco per il Ferry. Una volta che ci si rende conto di essere all’interno di un’agenzia e non alla biglietteria del molo, il sospetto si trasforma in realtà.

Questi furbi esercenti allungano una mancia agli autisti degli autobus provenienti dalle località più popolari del paese, ottenendo in cambio lo “sgancio” all’entrata del loro negozio dei turisti ignari, che confusi e stanchi si faranno magari convincere non solo a comprare il biglietto per il viaggio in barca ma pure a prenotare un bungalow presso una delle strutture “consigliate”.

Il proprietario del ristorante conferma la tesi e ci rovescia addosso tutta la sua frustrazione. Si rammarica per il fatto che le autorità non fanno nulla per evitare che queste “sanguisughe” intercettino una parte importante degli introiti del turismo che arriva sull’isola.

“Si prendono percentuali altissime per le stanze che riescono a far prenotare, facendo quindi lievitare i prezzi e costringendo per giunta gli operatori dell’isola a ridurre i propri incassi.

Io da loro non accetto nessuna prenotazione, ho solo pochi chalet e riesco quasi sempre a riempirli senza il loro aiuto. Ma sono in molti qui a rivolgersi alle agenzie di Mersing, le quali alla fine si accaparrano una fetta troppo grande della torta, senza peraltro contribuire, come facciamo noi qui, alla preservazione dell’ambiente e allo sviluppo delle strutture e della qualità del servizio offerto. Ma il governo dove sta?”

All’inizio abbiamo cercato di intervenire con qualche commento, ma il ristoratore è un fiume in piena e finiamo per trascorrere vari minuti ascoltandolo in silenzio. Alla fine si accorge di essersi lasciato risucchiare in un monologo. Sta in piedi, con una pila di piatti sporchi accatastati su un avambraccio, mentre l’altro si agita nell’aria. Si ferma e ci osserva in silenzio per qualche secondo.

“Scusate, a volte parlo troppo.”

“No, no. Si figuri. A noi interessa sapere anche queste cose.”

Ma lui, da bravo oste, sa che le chiacchierate con i clienti devono essere brevi e possibilmente divertenti, quindi ci sorride, si scusa di nuovo e torna in cucina.

Quando poche ore fa la barca stava per approdare a Tekek, la fermata che precede quella di ABC, mentre quasi tutti con le fronti incollate al finestrino ci eravamo lasciati andare ad ammirare la bellezza del paesaggio, l’apparizione da dietro le palme di un aeroplano in fase di decollo ci ha strappato dai nostri sogni di tramonti tropicali e nuotate tra pesci e coralli, lasciandoci di stucco.

Ebbene sì. Questo paradiso del golfo del Siam, senza una strada, in cui per andare da una spiaggia all’altra bisogna spesso salire su una barca, ha un aeroporto!

E questa non sarà l’unica sorpresa che ci riserva l’isola di Tioman.

Durante il pranzo presso il semplice ristorantino di un bungalow resort, proprio da dietro a me arriva una coppia di ragazze danesi accompagnate da un signore europeo che si rivolge al proprietario.

“Queste sono le due ragazze che hanno prenotato un bungalow per oggi.”

Mentre le ragazze vengono accompagnate al loro chalet, il signore se ne va. Poi le due danesi tornano al ristorante, si siedono e ordinano il loro pranzo. Quando hanno finito si alzano e si avviano verso la cassa per pagare. Vengono quindi intercettate dal signore che è riapparso all’improvviso nel locale.

“Ciao ragazze, posso sedermi con voi a fare quattro chiacchiere?”

“Ah, purtroppo noi stiamo uscendo.”

“Beh, non fa niente. Fatemi sapere allora se volete che vi presti le maschere e le pinne. Ciao.”

Osservo bene quest’uomo di mezza età. Indossa una magliettina polo in raso grigio e un paio di bermuda con disegno scozzese in tinta rosso-blu. Ha la pelle abbronzata e lentigginosa, è completamente pelato e porta un baffetto fino, che non capisco se sia biondo o bianco. Il viso è sottile e lungo, i suoi tratti sono molto dignitosi, quasi aristocratici. Mi ricorda vagamente il signor Higgins, l’amico di Magnum, l’investigatore impersonato da Tom Selleck nella famosa serie americana ambientata alle Hawaii.

Le ragazze se ne vanno e Higgins si va a sedere al loro tavolo, che non è ancora stato sparecchiato. Prende uno dei due piatti e svuota gli avanzi di frittata sopra il riso al pollo rimasto sull’altro.

Ma che sta facendo? Da una mano a riordinare? Ma chi glielo fa fare?

Afferra le posate, e in perfetto stile asiatico comincia a spingere con la forchetta il cibo all’interno del cucchiaio, e poi se lo mette in bocca. Assume una posa da perfetto galateo, con la schiena dritta, le spalle spinte indietro e gli avambracci poggiati con eleganza sul bordo del tavolo. Mastica lentamente, trentacinque volte, prima di deglutire con un movimento quasi impercettibile la sacca di impasto farinoso che gli è rimasta sul fondo del palato.

Poi aspetta, si rilassa, alza lo sguardo e osserva le colline davanti a sé, si volta dunque verso il molo alla sua destra e pensa, sogna, si ricorda. Di quando aveva trent’anni, lassù in Scozia, nel castello in riva al lago, seduto al vecchio tavolo in ciliegio già appartenuto al suo trisavolo, il conte William Francis Higgins, il cui ritratto, appeso vicino al camino, sovrastava l’enorme sala. Di quando ancora aveva i soldi per permettersi il servo indiano, che gli portava il vassoio col coperchio a cupola in argento, al centro del quale stava spaparanzato il fagiano che aveva centrato al petto la mattina presto, durante una superba battuta di caccia nel bosco di castagni, con i suoi amici duchi e visconti.

E gli sembra ancora di sentirla in bocca quella carne tenera e saporita, il leggero retrogusto metallico proprio lì vicino al foro in cui era passato il colpo, uno dei migliori che avesse mai tirato.

Lo sguardo dal molo torna di nuovo sul piatto, davanti a lui. Potrebbe prenderlo lo sconforto, per ciò che c’è dentro, per quel che sta facendo; è invece l’appetito ad avere il sopravvento. William Francis Higgins terzo scrolla le spalle e spinge in avanti il mento, arcuando le labbra in un broncio di superiore indifferenza.

“A gratis, pure ‘sto pollo fritto non è poi così male”, liberamente tradotto dall’inglese forbito con cui, anche in un ambiente come questo e con i tempi che corrono, non riesce proprio a fare a meno di esprimersi.

Ci rimette dentro le posate e ricomincia da dove aveva interrotto: la cucchiaiata, le trentacinque masticate e l’ingoio calmo del serpente. Poi fissa il tavolo, senza fretta, non come uno che sta cercando di sbafarsi gli avanzi di nascosto, ma piuttosto come un cliente che cerca di gustarsi con calma il piatto a cui anelava da qualche ora e che ha appena ordinato.

Il ristoratore non arriva. Higgins fa in tempo a mangiare l’abbondante porzione di riso, frittata e carne che è riuscito a mettere assieme. Tira anche un paio di sorsi da una cannuccia che si infila in un succo d’arancia. Poi si pulisce la bocca con una salvietta riciclata, si alza, sistema la sedia sotto al tavolo, e se ne va. Sempre con calma, come se niente fosse. Senza curarsi di chi nel locale lo sta osservando. Senza apparentemente essersi mai preoccupato di un’eventuale comparsa del proprietario nella sala.

Tutto ciò nel giro di sole ventiquattr'ore.

All'inizio sembra graziosa ma un po’ noiosa l'isola, invece...








sabato 29 marzo 2008

La terra che "avanza". Malacca - Malesia, 29 marzo 2008

A Kuala Lumpur Chinatown è diventato ormai un quartiere troppo caotico, fasullo e pieno di turisti, di ogni razza e provenienza. In un posto come quello della comunità cinese in Malesia, dei suoi usi, delle sue tradizioni, non si riesce più a capirci molto.
Meglio pigliare un autobus o un taxi e con un viaggio lungo nemmeno tre ore venire a Malacca.

Anche qui ci sono due o tre vie - in particolare Jonker walk - con i negozietti per i turisti, i ristoranti finto-antichi, e alcuni palazzi riverniciati con toni vivaci un po’ sospetti. Ma è una zona ristretta e usualmente nemmeno troppo affollata e sofisticata. Persino la maggior parte dei turisti che prende d’assalto le bancarelle del mercato, allestito lungo queste vie nelle sere del fine settimana, è cinese. Li riconosci subito, cinesi locali o stranieri, ma senza dubbio cinesi. Si potrebbe dire che l’atmosfera che avvolge Jonker walk in questa circostanza è quella di una sagra di paese o di un mercato rionale, più che quella così comune altrove di un enorme specchietto per le allodole, dove le allodole sarebbero ovviamente i turisti stranieri.

Svoltando a destra al primo angolo e poi a sinistra dopo un altro paio di incroci, proseguendo un po’, ci si perde tra le maglie di un quartiere cinese piuttosto autentico. Ma essendo Malacca una città malese, questa chinatown è cinese in un modo tutto suo. La comunità che si è andata formando grazie alle ondate di immigrazione che nei secoli partendo dalla Cina hanno investito lo stretto di Malacca (che comprende tutta la zona circostante, Penang e Singapore incluse), è quella dei Baba Nyonya, ovvero i “discendenti”, dove il primo termine identifica gli uomini e il secondo le donne.

Il fine settimana, dalle sette della sera fino a mezzanotte, Jonker walk si riempie di bancarelle, presso le quali ambulanti del posto vendono per lo più specialità culinarie dello stretto di Malacca. Basta sedersi ad un tavolino provvisorio, aperto davanti al marciapiedi per l’occasione, e si possono assaggiare prelibatezze che svariano dai noodles fritti in varie salse a tutte le varietà di zuppe Laksa, dagli involtini a base di tofu e rapa fino al dessert di ice kacang, ovvero granatine con frutta fresca e secca, su cui vengono colati sciroppi dalle tinte sgargianti. C’è pure una bancarella che vende il Dim Sum e un’altra che offre un dolce secco, talmente duro che il venditore, per tagliare le porzioni, picchietta con un martello su uno scalpellino, che ad ogni colpetto si conficca, poco e a fatica, nell’impasto color crema.

Ma la vera specialità di Malacca è sicuramente il Chiken Rice Ball, o meglio, utilizzando il buffo accento locale, il Chik’ice’ballllll, pronunciato all’inizio comprimendo la frase, cercando di risparmiare al massimo sul numero di sillabe, per poi lasciar fluire sulla lingua un getto di aria interminabile, bando alle spese, per strascicare una L finale che sembra continuare a scorrere anche quando il malesiano ha chiuso ormai la bocca da un pezzo.
Ci sono numerosi ristoranti che offrono questa presunta prelibatezza, alcuni con nomi cinesi e altri persino con nomi latineggianti, legati all’antica tradizione coloniale portoghese. Ma non bisogna farsi trarre in inganno da insegne colorate e edifici restaurati. Come consiglia Raymond, il simpatico signore che ci affitta la stanza, il Chicken rice ball va provato soltanto da Ho Kee, ristorante dalla tradizione garantita e dal prezzo modico. E bisogna assolutamente evitare di mangiarlo per cena, quando gli ingredienti, preparati la mattina presto, hanno ormai perso la freschezza e la caratteristica fragranza. Dritta che ovviamente l’ospite straniero dimostra sul momento di aver inteso ed apprezzato. Per poi lasciarsi andare ad un “mah!” carico di perplessità, non appena si è avviato dubbioso verso il rinomato ristorante.
Ma come? Questo piatto consiste grosso modo in quello che in veneto chiamano gaina ‘esa. Né più né meno che una semplice e piuttosto povera portata di pollo lesso, con un accompagnamento di un riso cotto al vapore e insaporito con un po’ di brodo. Che differenza potranno mai fare il ristorante che lo serve e un paio d’ore in più o in meno?
Siete d’accordo, no?
E avete torto! Così come ce l’aveva chi scrive, che ha dovuto ricredersi dopo aver messo in bocca la prima cucchiaiata di carne e riso. Squisito!
La conclusione affrettata era dovuta ad una svista madornale. Così come nella cucina di qualsiasi altro posto, il segreto sta quasi sempre nella qualità degli ingredienti, ma soprattutto nella procedura utilizzata per la preparazione delle salse. Da Ho Kee il pollo è tenero, e il riso, compresso in sfere della dimensione di una palla da ping pong e tenuto assieme dal grasso del brodo, è di una consistenza che si lascia addentare con piacere estatico. Ma è il contenuto del pentolino in alluminio che sta al centro del tavolo il vero segreto della ricetta. Questo preparato a base di brodo, con un pizzico di zenzero, il giusto quantitativo di aglio e peperoncino abbondante, dopo essere stato mescolato con un’aggiunta di una varietà scurissima e densa di salsa di soia, va versato a volontà su carne e riso, e fa la differenza tra il Chicken rice ball di Ho Kee e le “expensive imitations” che ad ascoltare Raymond vengono servite negli altri ristoranti di Chinatown.

Alla qualità del cibo bisogna poi aggiungere quella del servizio. C’è una signora in particolare che oltre a prendere le ordinazioni in inglese si ricorda di tutti i clienti che vengono qui per la seconda volta. Mentre non smette per un attimo di chiacchierare e distribuire un amabile sorriso a tutta la tavolata, provvede a miscelare personalmente le giuste dosi di salsa piccante e soia, con movimenti comandati a memoria, senza mai guardare quello che sta facendo. Da imbambolarsi ad osservarla.

Tornati in strada e fatti un paio di passi ci si rende subito conto che durante il giorno il quartiere è semideserto. Chi se la sente di sudare sette camicie sfidando l’afa dei tropici può quindi armarsi di macchinetta fotografica e passeggiare indisturbato, fermandosi di tanto in tanto per approfittare di una gamma variegata di scorci e personaggi pittoreschi.

Sempre che dall’interno di un negozio qualcuno non vi ammonisca con un perentorio: “No picture!”, spesso senza nemmeno usare il please. Sembra quasi che portarsi via uno scatto del dettaglio di un edificio storico equivalga a mettersi in tasca di soppiatto uno degli articoli della paccottiglia dozzinale che questi ingordi ingrati cercano di vendere ai turisti.
I quali sono sempre “Welcome” e “Madam” o “Sir” se entrano nel negozio per lasciare qualche decina di Ringgit, ma si meritano una sgridata di quelle che potrebbe sentirsi urlare contro un cane se, pur restando coi piedi ben piantati all’esterno del locale, si avvicinano alla “zona ristretta” e puntano l’obiettivo non già sulla merce esposta bensì su un neutrale cornicione o una innocua colonna.
Alcuni esercenti della zona - non soltanto i cinesi proverbialmente noti per la loro ingordigia, ma anche i malay o gli indiani - sembrano essersi scordati che l’inclusione di questo bel centro storico tra i siti del patrimonio dell’Unesco non fu una disgrazia caduta dal cielo bensì l’esito positivo dell’apposita domanda presentata dalle autorità locali. Proprio questa qualifica si è infatti rivelata nel tempo un efficace strumento di marketing, attirando ogni anno su questa deliziosa città migliaia di turisti locali e stranieri, armati di spesse mazzette di banconote, di cui proprio questi signori sono i maggiori beneficiari. Non c’è certamente bisogno di ricordare loro che il proprietario dello stesso tipo di negozio in qualunque altra località del paese certi incassi se li può soltanto sognare. Ma, si sa, in casi come questi i diritti acquisiti vengono dati subito per scontati, mentre le responsabilità che questi comportano tendono a volte ad essere accantonate.
E passi se a impedirti di scattare una foto è uno smilzo vecchietto che vende noccioline, a cui spetta il diritto di difendere le proprie convinzioni culturali, religiose e, se crede, persino le proprie superstizioni, ma ci si sente trattati un po’ come dei salvadanai quando il proprietario di un prospero esercizio, arricchitosi proprio grazie all’afflusso costante dei turisti, ti chiede l’obolo di qualche ringgit per “lasciarti” scattare la foto ai brandelli di una bandiera affumicata, che ondeggia e si affloscia sopra la tettoia del negozio.

Usciti da Chinatown Malacca offre ai visitatori anche (e forse soprattutto) il complesso della città rossa, che si sviluppa attorno alla Chiesa di Cristo, nata protestante sotto il dominio degli olandesi e convertita all’anglicanesimo quando gli inglesi si sono insediati nell’area. Sul cucuzzolo e sul pendio di una dolce collinetta, che comincia a salire proprio dietro la Chiesa, si trovano i resti della Fortezza, della Cattedrale portoghese di Nostra Signora, della Porta di Santiago e del cimitero olandese.

Poco oltre si estende Melaka Raya, un’area nuova della città, costellata da edifici che ospitano attività commerciali di vario tipo. A definire “nuova” questa zona non si sbaglia di sicuro. Tutte le costruzioni sono più o meno dello stesso tipo e praticamente nessuna si eleva oltre il secondo piano. Non c’è una singola struttura che sia stata costruita più di qualche anno fa. Nemmeno una. Sorge un sospetto.
La spiegazione è semplice, e allo stesso tempo sbalorditiva. Nulla è stato edificato su questa lingua di terra prima degli anni novanta perché prima di allora qui c’era il mare. Queste poche centinaia di metri di terra sono state strappate o, per utilizzare il termine tecnico in inglese, reclaimed, al mare. Bonificate, seguendo un progetto che prevedeva appunto lo spostamento in avanti della linea costiera, anche se non per i normali scopi dell’agricoltura o di igiene, ma semplicemente per il beneficio dell’industria edilizia.

Che una pratica del genere venga adottata a Singapore, lontana un tiro di schioppo da qui, dove i cinque milioni di abitanti, a cui va sommata la folta comunità di expatriates, cominciano a vivere un po’ strettini, si può anche arrivare a capirlo.
Ma in Malesia! E proprio nella città dal profilo storico-architettonico più originale e di valore del paese! Giusto a fianco di uno dei complessi archeologici più importanti del sud est asiatico!

Questo resta davvero un mistero difficile da svelare.
Ma d’altra parte Malacca, come hanno già osservato altri visitatori illustri, il fascino della città misteriosa ce l’ha sempre avuto.


sabato 22 marzo 2008

Tibet: appunti e commenti. Kuala Lumpur - Malesia, 22 marzo 2008

Gli appunti e i commenti sulla situazione in Tibet, non riferendosi ai posti che sto attualmente visitando, e non facendo quindi strettamente parte del mio diario, sono stati spostati sul mio sito, nella sezione "Cina".
http://it.geocities.com/pulfabio/cina.htm

martedì 18 marzo 2008

Approcci non del tutto ordinari. Kuala Lumpur - Malesia, 18 marzo 2008

Rallento, mi volto, osservo con attenzione ma non riesco a scorgerlo. Poco fa un ragazzo mi ha chiesto dove si può comprare una carta telefonica internazionale; non era riuscito a trovarla nemmeno al Seven/eleven. Era mezzanotte passata e sul momento non mi è venuto in mente niente, poi mi sono ricordato di un altro negozietto.

Scruto attentamente il marciapiedi ma non c'è nulla da fare, il ragazzo sembra essere sparito. Muovo alcuni passi lentamente, continuando a guardare all’indietro, nella direzione in cui l’avevo visto incamminarsi. Mi fermo e do l’ultima occhiata prima di arrendermi: è proprio scomparso.

Mi rimetto a camminare e quasi subito mi trovo davanti il sorriso malizioso di un giovane orientale, vestito tutto di nero, come un modello di Calvin Klein, con una banana d'altri tempi ingellata sulla testa. Continua a sorridermi per alcuni secondi, poi si incammina al mio fianco e mi rivolge la parola, come se tutto facesse parte di una tecnica studiata.

“Scusa, sai per caso dov’è il Blue Bird?”
L’uso dell'accento è curato attentamente, così come quello del tono della voce.

Non ho mai sentito parlare di un posto con quel nome ma ogni dettaglio di questa scena mi fa pensare che si tratti di un locale gay.
D'altra parte non credo sia una coincidenza il fatto che ci troviamo proprio davanti al Dome di Bukit Bintang, un caffè nel cui cortile siedono spesso coppie gay di turisti stranieri e ragazzi del posto.
Pur non essendo la prima volta che mi accade, questo genere di abbordaggi mi mette ancora in imbarazzo. Cerco comunque di apparire tranquillo e cortese.

“Come?”
Essendo la mia risposta uscita quasi con un urlo, l'inizio non è stato dei migliori.
“Il Blue Bird, sai dov’è?”
“No, mi spiace. Non credo di averlo mai sentito nominare”
La prima fase dell'operazione è terminata. Ma né la mia leggera scortesia né il fatto che non mi fermo e non lo incoraggio a continuare lo convincono a lasciar perdere.
“Da dove arrivi?” e con un cenno della testa sembra indicare un punto lontano, nella direzione da cui provengo.
“Vuoi sapere dove sono stato finora o di dove sono?”
“Di dove sei”
“Italia”
“E dove abiti?”
“Hmm, qui vicino”
Questo giovane non ha certo voglia di perdere tempo, il ritmo delle sue domande è incalzante. Non ci ha messo molto ad arrivare allo sgancio della bomba.
“Non è che ti va di venire a dormire nel mio hotel?”
Questo per lui dev’essere il momento più emozionante dell’azione, per me è invece l’occasione propizia per svignarmela.
“Ah, no, grazie”
“Ciao”
“Ciao”

Non è vero che gli asiatici sono sempre più timidi e riservati di noi occidentali, così come non è vero che il cosiddetto latin lover è l’abbordatore più aggressivo che ci sia in circolazione.
Alle volte questi omosessuali asiatici con la loro audacia possono lasciarti davvero a bocca aperta.

La prima volta fu a Chiang Mai, nella Thailandia settentrionale, cinque o sei anni fa.

Stavo seduto ad un tavolino davanti al mio albergo. Era notte fonda, non riuscivo a dormire ed ero sceso a leggere un libro all’aria aperta. Sedevo a pochi metri dalla strada, su cui non passava quasi nessuno.

Un Honda Dream mi sfreccia davanti e poi si ferma. Noto distrattamente il rumore del motore che va giù di giri e poi riprende lentamente. Alzo gli occhi dal libro e vedo un giovane che sistema il cavalletto, scende e mi viene incontro.

“Ciao, di dove sei?”
Percepisco la sua fretta di arrivare al dunque, segnale del suo imbarazzo ma elemento per me provvidenziale.
“Italia”
“Ah, e alloggi qui?”
“Certo”
Per un po’ resta in silenzio. È titubante, ma ho già capito dove andrà a parare.
“Non è che potrei...”
E mi sputa addosso un invito per direttissima ad un rapporto oro-genitale. Senza per altro lesinare la terminologia volgare che più si adatta al caso.
“Decisamente no, non puoi”
La calma e l’ironia con cui gli ho risposto ha stupito persino me.
“Qui abitano anche dei tuoi amici?”
“Sì, qualcuno”
“Non è che per caso potresti...”
E prova quindi ad utilizzarmi come mediatore per un rapporto sessuale con qualche mio amico. Rapporto che dovrebbe essere dello stesso tipo di quello appena proposto a me.

La sfacciataggine e l’ingenuità di questo individuo sono disarmanti. A parte l’improponibilità della richiesta, è come se non si rendesse conto che sono le tre del mattino e che tutti stanno dormendo. Sono l’unico nei paraggi, non c’è nemmeno una finestra con la luce accesa e nel quartiere regna un silenzio di tomba.

La Thailandia può essere definita senza dubbio il paese più gay dell’Asia, forse del mondo. La presenza degli omosessuali spazia a trecentosessanta gradi su tutta la sfera sociale. Gay, lesbiche e travestiti sono estremamente inseriti e si possono incontrare tanto facilmente tra il personale di un grande magazzino quanto nei bar di un quartiere a luci rosse.

Ma i gay thailandesi al massimo ti sorridono, ti ammiccano e ti fanno un commento mentre gli passi davanti, come se non ci sperassero nemmeno che tu ti fermi a dargli retta. È invece la Malesia il posto in cui capitano gli approcci più sorprendenti.

Alcuni anni fa a Kota Bharu, la capitale del Kelantan, lo stato più “islamico” del paese, passeggiavo dopo cena lungo una strada del centro.

Mi accorgo che un’auto mi si è affiancata e che il conducente, dopo aver abbassato il finestrino, mi sta chiamando.
“Ehi ciao, dove vai?”
“Mah, sto soltanto facendo una passeggiata. Nessun posto in particolare”
“Salta su che ti do un passaggio”
“Ah, no grazie, preferisco camminare. Arrivederci”
E proseguo.

Il tizio dell’auto non ha niente a che fare con i due omosessuali di cui parlavo prima. Non è assolutamente un tipo raffinato e non si esprime con quegli atteggiamenti da checca adottati spesso dai gay in estremo oriente. Dà l’impressione di essere piuttosto un camionista malay o un muratore indiano. Non sembra gay ma non per questo accetterei il suo invito a salire in macchina.

Credo di non aver ancora fatto dieci passi quando l’auto mi si affianca nuovamente. Il tizio corpulento si sporge dal posto di guida, apre la porta e con un tono un po’ esasperato mi rimprovera:

“Dai sali! Ma non hai capito? Ti voglio soltanto...”
E anche lui, senza troppi giri di parole, evitando l’utilizzo di tecnicismi linguistici, mi propone un rapporto orale.
‘E come, non avevo intuito?’ Mi viene da rispondergli. Proprio per quello mi ero defilato.

“No!” esclamo ad alta voce. E me ne vado.

Curiosa questa predilezione dei gay asiatici per lo specifico tipo di rapporto che spesso propongono.

Mentre cammino verso casa penso a quel che avrebbe potuto dire un personaggio di Verdone, o magari di Tomas Milian:
“Aoh! Ma mai che fosse ‘na donna, e che cazzo!”

E senza fermare il passo scoppio a ridere da solo.


Kuala Lumpur

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giovedì 13 marzo 2008

Tutto a posto. Kuala Lumpur - Malesia, 13 marzo 2008

It’s business as usual, ovvero tutto a posto, l’allarme sembra essere rientrato.

Gli sforzi di tutte le parti interessate per prevenire o smorzare sul nascere ogni forma di tensione e di scontro razziale sembrano aver dato i propri frutti. Il divieto di festeggiare la vittoria elettorale è stato rispettato e in generale la gente sembra aver seguito il consiglio a non farsi prendere dal panico. Il fine settimana i locali notturni più frequentati di Kuala Lumpur erano semivuoti, ma a parte questo non è successo nulla di rilevante.

Posto che si trattava di timori legittimi e di misure sagge, viene da chiedersi tuttavia se ce ne fosse veramente bisogno. Quella di quarant’anni fa e questa di oggi sembrano essere infatti due Malesie totalmente diverse.

Nel 1969, anno della prima grande sorpresa elettorale e dei conseguenti scontri razziali, il paese era ancora alla ricerca di un suo futuro e di una sua identità. All’alba dell’esperienza come nazione indipendente, dopo decenni di dominio coloniale, ogni ambito della sfera pubblica sembrava essere dominato dal criterio di appartenenza ad un gruppo etnico.

Oggi invece una buona parte della popolazione – soprattutto quella più ricca, istruita ed influente – sembra aver maturato la consapevolezza di quanto sia importante prefiggersi una serie di obiettivi comuni e proseguire uniti sul cammino dello sviluppo sociale ed economico.

Forse, anche se lasciati liberi di scegliere, i membri della comunità cinese che sostengono il Partito d’Azione Democratica non sarebbero scesi in piazza ad esultare per la “presa” dello stato di Penang. O avrebbero organizzato i loro festeggiamenti in maniera pacata e rispettosa, alla luce della sanguinosa esperienza del ’69, quando le manifestazioni di entusiasmo sfrenato per la vittoria “cinese” provocarono la reazione delle orde di giustizieri malay, che armati di machete si lanciarono in una brutale caccia al “giallo”.

Ed è anche giusto credere che nel 2008 la maggior parte dei musulmani, le forze dell’ordine e la classe dirigente non sarebbero disposti a tollerare alcun tipo di violenza.

“Quelle migliaia di vittime sono servite almeno a dare un contributo alla formazione di una coscienza nazionale unitaria. Da allora qualcosa è cambiato, nella mentalità dei politici ma anche in quella dei membri di vario livello di tutti gruppi etnici.”
Sono le parole di “Kumar”, un dirigente aziendale di etnia indiana, uno che di razzismo e pregiudizi classisti se ne intende, avendoli provati sulla propria pelle nei pub della periferia londinese e persino nelle strade del villaggio da cui proviene la sua famiglia, un “buco” sperduto nell’entroterra del Tamil Nadu, nell’India meridionale.

A fidarsi delle dichiarazioni dei vincitori, dei vinti e persino dei pareri della stampa, che dopo anni di letargico asservimento al regime si scopre ad un tratto autonoma e audace, sembra sia arrivato finalmente il tempo del “cambiamento”. Ad un cittadino ed elettore italiano ascoltare una cosa del genere fa sempre un certo effetto, del tipo di cui ci si libera tirando un lungo sospiro.

Cambiamento? Anwar Ibrahim, uno degli artefici principali di questo “moto popolare” contro l’inefficacia del governo a fronte degli insostenibili aumenti dei prezzi e le pratiche diffuse di corruzione, è stato vice dell’ex premier Mahatir, ovvero il fautore di tutto ciò che di bene e di male è stato fatto negli ultimi due decenni. Anwar è soltanto il leader de facto del PKR, uno dei partiti della coalizione di opposizione. Non può infatti presentarsi direttamente alle elezioni e non può ricoprire incarichi pubblici per una serie di reati di cui è stato riconosciuto colpevole, tra i quali spiccano quello di “sodomia” (è musulmano) e, udite udite, quello di corruzione!

“La sua travagliata esperienza politica – culminata con l’incarcerazione senza processo – e la sua indiscussa astuzia lo hanno convinto, o forse costretto, a cambiare corso.” spiega Larry, un cinese del posto che ha vissuto per anni in Australia. E probabilmente ha anche ragione.

D’altronde è proprio su questo tema che l’opposizione ha fondato gran parte della sua campagna elettorale, se è vero che Lim Eng Guan, il leader del Partito d’Azione Democratica, alla cerimonia di insediamento come governatore di Penang, durante il discorso del giuramento ha dichiarato che i contratti pubblici d’appalto verranno assegnati a soggetti privati, al termine di campagne trasparenti e privilegiando le aziende locali. Un tentativo di mettere la parola fine alla lunga storia di appalti truccati assegnati alle aziende raccomandate dai capoccia del governo federale.

Ma c’è addirittura da mettersi a ridere quando a parlare di cambiamento sono proprio gli organi della carta stampata. I quotidiani in questi giorni dichiarano candidamente che gran parte dei meriti per l’ondata elettorale che ha ridotto sensibilmente il dominio del Fronte Nazionale, trasformando la Malesia in un paese più libero e democratico, è da ascriversi alla rete e ai suoi siti alternativi, pagine web di informazione indipendente e obiettiva.
Sembra il colpo a sorpresa del colpevole che, andando oltre il semplice atto del costituirsi, arriva addirittura ad auto-denunciarsi.

In fin dei conti comunque una delle più importanti preoccupazioni post-elettorali dei leader politici, sia a livello federale che locale, di maggioranza e opposizione, resta quella di rassicurare gli investitori internazionali e di invertire la tendenza negativa degli indici di borsa.

Venghino signori, venghino in Malesia. It’s business as usual. Che si tratti di cambiamento vero o di facciata non fa differenza. L’importante è tirare avanti, senza voltarsi o fermarsi a pensare, lungo il prospero cammino del progresso.

domenica 9 marzo 2008

Batosta e tensioni. Kuala Lumpur - Malesia, 09 marzo 08

E’ successo l’imprevisto, ciò che non accadeva dal 1969.
I giornali locali titolano: “La peggiore sconfitta del Fronte Nazionale”.
La stampa amica, la demonizzazione dell’avversario e i ragazzini in motorino con le bandiere del partito nulla hanno potuto contro l’insoddisfazione strisciante nei confronti di una classe dirigente che domina la scena politica della Malesia da decenni. Sempre con maggioranze schiaccianti.
Le dichiarazioni a caldo vanno comunque ridimensionate e interpretate alla luce degli standard locali. Il Fronte Nazionale a livello federale non ha perso le elezioni e probabilmente porterà a casa una maggioranza in parlamento superiore al 50%.
Ma di batosta comunque si tratta. Il Fronte Nazionale alle precedenti elezioni si era imposto in tutti gli stati della federazione meno uno, il Kelantan, un’area caratterizzata da una forte presenza di radicali religiosi in cui si era affermato il partito dei fondamentalisti islamici.
In questa tornata gli stati perduti sono invece molti di più e al Fronte Nazionale scotta soprattutto dover lasciare il governo dell’isola di Penang, una delle aree più industrializzate, avanzate e importanti dell’intero paese. Uno stato in cui si è affermato il Partito d’Azione Democratica, un partito cinese che non appartiene al FN.
Per la prima volta dal 1969 il FN dovrà accontentarsi di governare il paese con una maggioranza parlamentare inferiore ai due terzi. E proprio questo dato rende l’idea di cosa sia stata la politica in Malesia negli ultimi decenni. Un dominio totale della coalizione di governo che poteva permettersi di apportare modifiche alla costituzione a proprio piacimento, senza incontrare resistenza alcuna alla camera dei deputati. Ora dovranno “accontentarsi” di una “semplice” maggioranza assoluta.
L’ultima volta che qualcosa di simile era accaduto, alcune fazioni delle diverse etnie (nella fattispecie malay e cinesi) avevano dato luogo a sanguinosi scontri nelle strade della capitale.
Si teme che qualcosa di simile possa accadere di nuovo e il capo della polizia, dopo la comparsa di alcuni SMS fomentatori, ha proibito i festeggiamenti e annunciato tolleranza zero contro chiunque diffonda voci infondate riguardanti focolai di scontri razziali.
Kuala Lumpur sembra tranquilla come sempre. I suoi abitanti sono come ogni domenica anestetizzati dai gas soporiferi dello shopping, delle passeggiate in centro e delle partite di Premier League.
I tempi sono cambiati, i malesiani si sono abituati a sopportarsi in silenzio e a borbottare a denti stretti frasi politically correct. Ma ad uno straniero neutrale e pronto ad ascoltare con discrezione sono sempre pronti a manifestare le proprie frustrazioni. I malay nei confronti di “quei crumiri cinesi, ricchi e sbruffoni, che se non li fermi si prendono tutto il paese”. E i cinesi verso un sistema e una legislazione che li “tratta come cittadini di serie B, garantendo vantaggi e favori alla maggioranza musulmana”.
Le tensioni ci sono, ma sono state sedate molto a lungo. Vedremo nelle prossime ore se l’interesse comune per un prospero e pacifico sviluppo resisterà anche a questo colpo improvviso.
Pubblicato da Peacereporter nella sezione reportage

sabato 8 marzo 2008

Bandierine e trombette: elezioni quasi libere. Kuala Lumpur - Malesia, 08 marzo 2008

Jalan Sultan Ismail è un largo viale che collega Bukit Bintang e il Golden triangle, due delle zone più vivaci della città. Più multietnica, asiatica e caotica la prima, come un grande bazar all’aperto; più business ed elegante, come un moderno centro commerciale, la seconda.
Ai due lati della strada si alternano hotel di lusso e grandi edifici commerciali, prime avvisaglie del business district in cui mi sto per addentrare. Al centro, tra le due carreggiate, una decina di metri sopra le teste dei passanti si libra la struttura della Monorail, una ferrovia metropolitana i cui vagoncini scivolano abbracciando una rotaia di cemento a cui sembrano stare aggrappati con delle rotelle orizzontali.
Un sistema di trasporto che ha del futuristico – rimandando alla scenografia di film alla Blade runner – e che nelle più avanzate città europee, impegnate spesso ancora nello sviluppo di linee di tram e filovie, la gente si sogna soltanto.
Mi è sembrato di udire dei suoni insoliti. Mi concentro un attimo e ascolto con attenzione: sono urla e trombe da stadio. Il rumore arriva attutito, come dall’interno di un palazzetto dello sport in cui si gioca una partita di pallacanestro.
Proseguo per alcuni metri e alla fine di una lunga curva, proprio sotto la stazione della Monorail, mi trovo davanti un folto gruppo di ragazzi in motorino. Stanno fermi al bordo della strada, su uno spiazzo vuoto. Sono molto giovani, i più grandi non hanno più di vent’anni. Sembrano i tifosi di una squadra di calcio: alcuni indossano magliette colorate e quasi tutti sventolano bandiere blu con una bilancia bianca disegnata nel centro.
Non sono i colori sociali di una squadra sportiva, bensì quelli del Fronte Nazionale (Barisan Nasional), la coalizione di governo. Anche la Malesia è infatti nel bel mezzo della campagna elettorale. Non credo che da noi se ne parli molto, anzi forse non se ne parla per niente. Con le primarie negli Stati Uniti che catalizzano l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale e le politiche in Italia e Spagna, le elezioni in un paese lontano come la Malesia non sono un argomento che fa notizia.
Qui, come nella vicina Singapore, la stampa è a dir poco docile nei confronti del regime. Si può sicuramente dire che in un paese tutto sommato meno sviluppato come la Thailandia la stampa è di gran lunga più libera e autonoma di quanto lo sia qui. E lo è stata persino nel periodo compreso tra il colpo di stato di fine 2006 e le recenti elezioni democratiche.
Choose well” titola oggi un quotidiano in inglese distribuito gratuitamente alla popolazione malesiana. Segue l’invito a non votare pensando agli interessi particolari preoccupandosi invece del bene collettivo del paese; tradotto: votate per il Fronte Nazionale. E nelle pagine di politica interna per tutta la settimana vari articoli riportavano le interviste ai canditati della maggioranza, improntate spesso alla demolizione della reputazione degli avversari. La priorità in Malesia non è data come da noi al concetto di Par condicio, bensì a quello di Security, dove con Security si intende ovviamente la sicurezza della propria poltrona di parlamentare o ministro.
Uno degli obiettivi preferiti dai candidati della coalizione di governo sembra essere Anwar Ibrahim, un ex-membro del partito di maggioranza arrivato a ricoprire ruoli di prestigio come quelli di ministro dell’istruzione, ministro delle finanze e persino di vice-premier. Dopo aver “pestato i piedi” al suo capo – Mahatir Mohamad – Anwar fu incarcerato senza processo, cosa che da queste parti è possibile facendo ricorso al famigerato Internal Security Act, uno strumento piuttosto antidemocratico condannato da varie agenzie internazionali per la difesa dei diritti umani. Tornato in libertà dopo alcuni anni, Anwar ha formato la propria lista elettorale e si è presentato alle elezioni.
“Anwar Ibrahim era anti-cinese” spiega all’intervistatore uno dei leader di quel partito della coalizione di governo che difende gli interessi della minoranza cinese. L’accusa si riferisce ad una vicenda di molti anni fa. Anwar, al tempo ministro dell’istruzione, mosso da sentimenti di natura razzista si sarebbe opposto all’invio di un gruppo culturale di etnia cinese a Pechino. Un accorato appello al presidente buono, padre virtuale di tutti i malesiani e amico di tutte le minoranze etniche – il mitico Mahatir – sarebbe poi stato accolto, mandando così in frantumi il disegno diabolico del razzista Anwar.
Storie ingenue, un po’ infantili che vedono i buoni dei partiti di governo contrapposti ai cattivi dei partiti di opposizione, musulmani o cinesi che siano. Storie che comunque colpiscono in maniera calcolata una buona fetta della popolazione che poi alle urne segue come sempre il consiglio del quotidiano in inglese, scegliendo bene e mandando al governo la Barisan Nasional, la squadra dei buoni, la forza equilibrata, la coalizione della bilancia, con una maggioranza bulgara.
Un’altra delle tecniche un po’ ridicole utilizzate dalla Barisan Nasional – e, in misura minore, da tutti gli altri partiti – per animare la campagna elettorale e rinfrescare la memoria ai cittadini che devono “Choose well”, è appunto il reclutamento di questi militanti-ragazzini motorizzati, che vengono muniti di bandierine, fischietti e trombette, rimborsati probabilmente delle spese per la benzina e omaggiati di un paio di pasti economici, in cambio delle loro rumorose corse per la giusta causa.
Scherzano, si picchiano le aste delle bandiere sui caschi, le ragazze sorridono smorfiose e i maschietti gonfiano il petto. In pochi sembrano essersi interrogati sulla vera natura della loro attività. Non si muovono ancora, si voltano ad osservare la strada, sembra che attendano qualcuno.
Poi arriva un gruppo di auto strombazzanti, su cui sventolano altre bandiere blu nelle mani di giovani seduti sui finestrini, con i corpi protesi all’esterno. Fanno dei segnali ai ragazzi dei motorini, questi rispondono con grida e colpi di tromba, poi salgono in sella e si aggiungono al corteo festante. Per loro è soltanto un gioco.
Da questo momento fino a notte fonda percorreranno senza sosta le vie del centro, sforzandosi di sensibilizzare gli elettori malesiani e riuscendo ad incuriosire prima e a infastidire poi gli increduli turisti stranieri che sentiranno a lungo il baccano raggiungere le loro stanze d’albergo.
Signore e signori, ecco a voi la Malesia, una delle tigri d’Asia. Elezioni quasi libere, campagna subdola e stampa compiacente. Un cocktail micidiale ma rigorosamente analcolico, per un paese in cui la maggioranza segue i dettami dell’Halal.

sabato 1 marzo 2008

Pickpockets and Ladyboys - Isola di Samui, Thailandia

Il "Sound pub" è un locale all'aperto situato al centro della zona più calda di Chaweng. L'ambiente si sviluppa in lunghezza. Alle estremità vi sono due aree con bar e piste da ballo coperte da tettoie che riparano i clienti dagli agguati dei monsoni. Nell’area centrale invece gli ospiti si rinfrescano in un giardino che circonda una piscina illuminata. Osservata da una pedana rialzata offre un bel colpo d'occhio: una svirgolata di vernice celeste fluorescente nel centro della notte.

Con una birra in mano cammino verso le panchine sistemate sotto gli alberi. Mentre assorbo tutto il sapore e la freschezza del primo sorso che mi inonda la lingua, un travestito con un vestitino bianco mi si para davanti. Mi invita a ballare e mi passa delicatamente una mano sul petto. Sorrido, con un passetto scarto a sinistra e proseguo lungo il mio tragitto.

Proprio quando il travestito si appresta a sferrare il secondo attacco mi accorgo che la mano di qualcun altro tenta di intrufolarsi in una delle tasche posteriori dei miei jeans. Spingo istintivamente il bacino in avanti e con il braccio libero cerco di allontanare le dita intruse.

Un ladro astuto si sarebbe già reso conto di aver fallito e si defilerebbe in fretta confondendosi tra la gente che balla. Questo invece non molla e cerca di aggirare la mia mano per raggiungere nuovamente l’interno della tasca. Il ladyboy che mi sta davanti continua nel frattempo a toccarmi le braccia. Con un movimento più brusco mi divincolo e mi affretto verso un’area più sicura.

Mi giro e con la coda dell’occhio vedo la coppia di borseggiatori che passeggia tra la folla. Sembra che si siano completamente dimenticati di me.

Resto in piedi per alcuni istanti, senza reagire, imbambolato. Mi porto distrattamente la bottiglia alla bocca: il secondo sorso di birra non sa di niente. Non sento né lo splash del liquido ghiacciato nella gola né il formicolio dell’anidride carbonica sulla lingua.

Mi riprendo, mi concentro e penso ad una cosa che mi accadde alcuni anni fa. In un locale simile, in un’altra isola, mi vennero sfilate alcune banconote dalla tasca dei jeans e la macchina fotografica dalla custodia agganciata alla cintura. Me ne accorsi soltanto più tardi, quando al Seven/Eleven cercavo i soldi per pagare una Coca Cola. Per un po’ di tempo mi sentii arrabbiato e frustrato. Quella esperienza mi servì da lezione: da allora tengo sempre i soldi nelle tasche anteriori. Ma ogni volta che ci penso mi incazzo ancora un po’.

Torno verso la pista da ballo, salgo le scalette della pedana e osservo attentamente la gente davanti a me. Per un paio di minuti non noto niente di strano. Poi ad un tratto scorgo il ladro adescatore - la spalla - che finge di ballare con un ragazzo alto che indossa un berretto. Il ragazzo è ubriaco e non sente la mano del borseggiatore che rovista all’interno della tasca dei suoi pantaloni. Sono proprio di fronte a me. La spalla gli tiene gli occhi puntati in faccia e lo distrae, il ragazzo balla e barcolla ruotando attorno ad un asse verticale, mentre il secondo travestito gli resta appeso addosso con una mano infilata nella tasca. Faccio un paio di passi in avanti e lo colpisco con una manata. Non gli faccio male ma riesco ad attirare la sua attenzione. Lo guardo in cagnesco, lui mi si avvicina.

"Sì? Che c’è?"
Cerca di utilizzare un tono cortese.
Io non cambio espressione e continuo a fissarlo.
"Poco fa ci avevi provato anche con me..."
"Cosa?"
"Che stavi facendo con la mano nella tasca di quel ragazzo?"
"Come? Che dici?"
"Ci avevi già provato con me."
Questa volta ho scandito le parole. E lui accusa il colpo.
"Io...non so..."
"Se non la pianti immediatamente avverto la sicurezza."
"Non so...sono arrivata a Samui soltanto oggi...non so..."

A quel punto il complice gli afferra un braccio e lo trascina via.
Osservo il ragazzo col berretto che non si è accorto di nulla e continua a ballare.

Mando giù un altro sorso di birra e ascolto la musica.
Mi sono tolto un sassolino dalla scarpa.
Stava lì da un paio d’anni.

Ora mi sento un po’ meglio.

Foto Ladyboys di Axel Boldt (PD), da wikipedia.org