sabato 6 dicembre 2008

Come una mosca nella tela - Penang, Malesia

Georgetown, il cuore di Penang. Minareti alti e decorati, statue vagamente psichedeliche aggrappate alle colonne dei templi indù, pagode avvolte in nuvole di incenso e case delle corporazioni con facciate dai tenui toni pastello. E poi ristoranti, alloggi, botteghe di artigiani e magazzini di commercianti. Il tutto avvolto da un pallido velo di coloniale e d'antico.

È tardi, le 23. Ho fatto appena in tempo a mettere giù i bagagli che sono già in strada a passeggiare, ad annusare, ad assaggiare e ad osservare per cercare, a volte inutilmente, di afferrare e conservare, se non proprio di ricordare.
Oltrepasso una moschea davanti alla quale un gruppo di signori con vestaglie e copricapi ricamati stanno seduti a chiacchierare. Vengo attratto dalle note di una canzone familiare. Rallento il passo. Come un ragno che si avventa su una mosca intrappolata nella tela, mi viene incontro un signore con la pelle scura e i baffetti sottili.

“Solo un’occhiata...Indonesia!”
“Come?”
Fa un cenno in direzione dell’orchestra e riprende il ritornello.
“Entra...un’occhiata...non piace...andare via.”
Il suo inglese non è buono, ma si vede che il numero è stato provato e riprovato.
“Eh, magari più tardi.”
“No...adesso. Dai!”

Ha un sorriso delizioso, che mi attrae come un cobra davanti al piffero dell’incantatore. Lo seguo all’interno di un cortile.
Conosco la canzone. “È cinese!”
“No, Indonesia!” insiste lui.
In effetti il cantante potrebbe essere indonesiano.
“Sì, ma sta cantando in cinese.”
“Indonesia...anche Cina, Malesia...lingua inglese.”

Ma di che sta parlando? Ci saranno altri complessi?
Poi lo osservo meglio e mi accorgo di un disallineamento tra i nostri sguardi. Mentre il mio fino ad ora stava fisso sul cantante, il suo scorre lungo lo spazio che mi separa da un gruppo di spettatori, anzi spettatrici. La mia confusione dura poco. Faccio le somme tra i vari fattori. Indonesia, Cina, lingua inglese, donne e quel...se non ti piace vai via.
Ma è un magnaccia!

“Ah, no grazie!”

Questo racconto è stato pubblicato nell'e-book "Italians: una giornata nel mondo", un'iniziativa di Beppe Severgnini del Corriere della Sera, editrice Rizzoli Libri ('Ore 23', pag.309)

lunedì 3 novembre 2008

L'alveare - Il Cairo, Egitto

Ramadan al Cairo è un periodo curioso. Passato il tramonto, a causa dell’Iftar, le strade e le piazze sono semi deserte. Svaniscono in un sogno il consueto frastuono e quell’atmosfera da San Siro ad un concerto di Vasco. Se attraversi una strada puoi farlo tranquillo, senza scattare come un gatto tra le auto in tangenziale.

Ma qualche ora più tardi, diciamo all’una, se scendi dall’hotel per mangiare un boccone, varcato l’uscio vieni calamitato da un vortice di suoni, luci ed odori, che osservi impalato con gli occhi strabuzzati. Fino a notte fonda i negozi sono aperti e la gente si accalca davanti alle vetrine, a caccia di scarpe, abbigliamento e dolciumi. La cosa che sorprende è la varietà dei passanti. Non ci sono soltanto uomini maturi, ma pure vecchietti dal passo trascinato e mamme con bambini che fanno la spesa.

Un intreccio di flussi ha invaso ogni spazio. Si scorrono addosso, incrociandosi, attorcigliandosi, scontrandosi e ostacolandosi come mille bisce d’acqua che fuggono all’infinito, di diametro in diametro, all’interno di una bacinella in un mercato vietnamita. Chi ha un po’ di fretta e in preda all’impazienza ha già picchiato le scarpe contro i tacchi di un passante, decide di effettuare un taglio laterale e sfidare i cordoni di veicoli ammaccati. Agli incroci maggiori i flussi si intersecano e come sullo schermo di un vecchio videogioco attraversano a scatti con sequenza alternata.

Poco prima delle due te ne torni in albergo e l’attività dell’alveare non si è ancora placata. Quando sei al buio, sotto le lenzuola, attraverso le fessure tra le ante delle finestre, filtrano ancora, tra i vapori speziati, gli acuti dei clacson, gli strilli degli ambulanti e il rombo baritonale del rumore di fondo.

Questa è Il Cairo durante il Ramadan, qui la ninnananna la cantano così.


Foto pasticceria a Il Cairo, di Fabio Pulito

Quello del globo (ridotto a 2000 caratteri) - Kuala Lumpur, Malesia

Quello del globo, ecco chi era! L’avevo sniffato da qualche secondo, l’olezzo pungente sbucato come un fungo tra gli aromi di spezie nel bazar di Kuala Lumpur. La folla si apre scorrendogli attorno come flutti di fiume attorno a un isolotto, ma il globo, quello scudo che lo circonda, lo scopri col naso e non con gli occhi.

Si avvicina al tuo tavolo con l’espressione di un pazzo che per passare inosservato si finge rimbambito. Allunga la mano come per toccare un alieno. Ti accorgi che d’istinto sei entrato in apnea, mentre alzi di scatto lo sguardo dal libro, poi ignori anche lui come chi l'ha preceduto. Ma quando cerchi il segno che hai perduto, con la coda dell’occhio continui ad osservarlo mentre percorre il marciapiedi con passo strascicato.

Ti chiedi se quell’espressione da matto o deficiente gli stia incollata al muso in maniera permanente o se se la scrollerà di dosso con la stessa lentezza con cui ritira la mano che ha chiesto l’elemosina. Lo osservi ipnotizzato col dito sul libro, dimenticato su una riga che non c’entra nulla, mentre col movimento di un robot antiquato lui gira il collo e punta il pavimento. Raccoglie qualcosa con l’agilità di un vecchio, tu pari la zaffata con l’airbag delle guance e ti chiedi al contempo cosa avrà trovato; che se ne farà di una carta di caramella, di un mozzicone o di un tappo di bottiglia?

Poi l'osservi mentre scruta l’oggetto: se non sapessi già che quello sguardo allucinato è l'espressione naturale con cui compie ogni suo gesto, sospetteresti che tra le dita regga l’artiglio di un mostro. Abbassa la mano e ti fissa sbalordito, ma sai che non sei tu ciò che sta osservando. Quindi riparte con la solita flemma, trova un cestino e vi getta il rifiuto.


Ora la bocca si è aperta pure a te. Ti riprendi di scatto e ti irrigidisci sulla sedia, frughi nella tasca e gli dai qualche spicciolo.

Quello del globo puzza di brutto. Credo che una doccia non l’abbia mai fatta, ma alla pulizia della sua città sembra tenerci parecchio.

Foto Kuala Lumpur, di Fabio Pulito

Da Cremona a Padova - Follia distruttiva sul convoglio speciale

Lucine brillano in fondo al tunnel e rombi di acciaio mi ruotano attorno come se stessi in una sala col sistema surround.

Stavo sognando ma dopo aver aperto gli occhi non mi sembra ancora di essermi svegliato. Osservo uno scorcio di cielo lombardo, la sua versione estiva, tersa e frizzante. Sto seduto su un sedile in finta pelle nocciola, in un vagone riciclato delle Ferrovie dello Stato. Invece che a lato, dal finestrino, il cielo lo osservo oltre uno squarcio sul tetto.

Ore 19, manca poco al tramonto, quelle nuvole di panna su gelato al puffo scorrono su un mondo senza Facebook e I-phone. Le bande di ultrà, gli sfasciacarrozze, sono invece una moda che esiste già.

Una furia distruttiva si è impossessata del convoglio. L’esempio dei capi e la notizia che gli agenti sono stati rinchiusi nel vagone di testa sono bastati ad animare un secchione magrolino che con tanto di occhialetti, zazzera e brufoli, si spezza la schiena per dilaniare una parete. Si ferma, ha il fiatone, si guarda le mani viola, lascia andare il legno, strappa un poggiatesta e lo getta dal finestrino come se fosse una granata.

La notizia ci precede: le stazioni sono deserte, gli ingressi ai binari sono stati sbarrati e nelle città più grosse al di là delle vetrate si ammucchiano gli hooligan delle squadre locali. Si dimenano e ruggiscono come belve in un film muto. Sembrano un branco di cani randagi rinchiusi all’interno di una cella di vetro. Il treno è un carro che attraversa il loro territorio esponendo dei bastardi accalappiati altrove. Il macchinista spinge, non si ferma alle stazioni. Se un ferroviere a terra esce allo scoperto viene ricacciato nel bunker con sedili e lavandini.

Corre il treno, la Lombardia è alle nostre spalle. Alla periferia di Padova strilla il freno a mano: mezzo treno si disperde, noi ripartiamo lentamente. La stazione pulsa di sirene e lampi blu: schierati sul binario, annoiati e nervosi, ci attendono i celerini in assetto antisommossa.

Uno scatto d'orgoglio - Phuket, Thailandia

Patong per reputazione non è un atollo sperduto ma alle 5, alle volte, ha uno scatto d’orgoglio. Un fremito scorre sul profilo della spiaggia. Dopo aver sopportato il caldo, i venditori e bambini, il grosso dei bagnanti fa i bagagli e se ne va. 

Giovani thai, pelle scura e tatuaggi, chiudono gli ombrelloni e impilano i lettini. C’è chi fa ancora un bagno, chi ormeggia il motoscafo e chi con le cuffiette sgambetta sulla battigia. I colleghi gay delle squillo di Bangla giocano a pallavolo con i clienti di ieri.

Finalmente la spiaggia è larga più di cinque metri. Mi siedo, apro il libro e mi sdraio sulla sabbia. Qualche minuto più tardi finisco un capitolo, punto il segnalibro e osservo il golfo. Il sole cala solido e fa splash come un uovo sulla schiuma delle nuvole che farciscono la baia. Acciaio e fiammate fanno a fette il cielo, giocando in parallelo con l’orizzonte sfumato. Con la ritirata dell’orda d’alta stagione, sono riapparse nella foto la sabbia e le piante, un groviglio di foglie fluorescenti e arcuate. Una nuvola d’oro ci avvolge gradualmente: è tornata l’atmosfera, la magia del tropico.

L’incantesimo è rotto da un tonfo e delle grida. Un thai con un sidecar ha investito due straniere. Accorrono i soccorsi, si scusa il thailandese, poi ne arriva un altro e scatta un putiferio. Rotolano sulla sabbia, cadono in acqua, tra sibili di pugni e parole grosse. La situazione si calma quando arriva un gigante, due parole delle sue e gli sguardi sono a terra. Nessuno è umiliato, tutti soddisfatti: in Thailandia l’importante è salvare la faccia.

Sulla via del ritorno mi affianca un pick-up. Sul cassone sta in piedi un nervoso elefantino. Tra gente, luci e musica, sembra spaventato. Piazza le zampe sopra la cabina, che cede con rumore di lamiera divelta.

Quando cala sul tetto anche una zampa posteriore, i finestrini esplodono e il parabrezza si crepa. L’animale scivola verso l’esterno, atterra con una capriola e scudisciate di proboscide, poi comincia a correre lungo la viuzza. Alcuni turisti, che scattavano foto, si spaventano e scappano dentro un ristorante. L’elefantino ora trotterella tranquillo, un uomo lo raggiunge e lo afferra per l’orecchio. Ridono tutti, tranne il pilota del Toyota, che scuote la testa mentre controlla i danni.

Mi avvio verso la doccia, sono già le 6. A Patong l’ora migliore termina così.


Foto di Fabio Pulito

Una flebo di linfa vitale - Golfo del Siam, Thailandia

Non c’è rollio né moto di beccheggio, il traghetto scivola dall’isola alla costa, tagliando la calura sul golfo del Siam.

Il motore sbuffa e la barca rallenta, io scollo la schiena dal sedile in velluto. Dal ventilatore giapponese si sviluppa un cono in cui mi rifugio per sfuggire a questo forno. Nemmeno la brezza che fa solletico al ponte indebolisce la presa dell’afa snervante.

Il pilota manovra facendo percorrere allo scafo delle lente mezzelune di avvicinamento al molo. Una colonna di pneumatici riveste un pilastro. La gomma è sgualcita e ridotta a brandelli. Con gli altri passeggeri osservo dal parapetto la complessa manovra d’avvicinamento. Lo scafo arrugginito si appoggia alla struttura stiracchiando le fibre di un pneumatico malmesso. Alcuni frammenti di staccano dal pezzo e si infilano muti tra le piccole onde.

Facendo perno sulla colonna di legno il traghetto lentamente si mette in linea con il molo. Si abbassa il portellone da cui sfilano le auto. Sopra il pontile una pezza di juta sbuffa nuvolette ad ogni passaggio. Tutto attorno a me riflette il grigio del cielo.

Borse in spalla barcollo sulla passerella, attraverso il ponte che cigola e traballa e percorro il corridoio che ci collega al piazzale. Passo dopo passo, senza volare, percorro verso l'alto la penisola malese. Samui-Surat, Surat-Hua Hin, poi l’ultimo pulmino che mi porta a Bangkok, zigzagando tra caldo, palme e baracche, con l’acqua e la polvere sotto le scarpe.

Il viaggio è noia, pensieri e paragrafi, il viaggio è una flebo di linfa vitale.


Foto Koh Samui, di Fabio Pulito

Mani in movimento - Kuala Lumpur, Malesia

È l’una. Interrompo la lezione e porto i miei studenti alle Torri Petronas. Scegliamo un bel caffè coi tavoli all’aperto, investiti da soffici sbuffi d’acqua fresca.

Ci sediamo e apriamo i menu, poi qualcuno chiede: “Ma Huda dov’è?”
Ad un altro tavolo sta seduta una donna, con un velo da cui spunta un viso paffuto e simpatico. Inconfondibile: è Huda, viene dall’Oman.

Quando noi stavamo ancora scegliendo il posto, è scivolata verso un tavolino dalla vista occultata. Di fronte a lei, silenziosa e compunta, si eleva una colonna di metallo opaco.

Io maschero l’imbarazzo dietro al menu. Faccio finta di niente e non faccio niente, perché sono sicuro: è meglio così. Tutto attorno a me si agitano mani. Quelle di Carmen, minuscole e ansiose, si affannano verso Huda per invitarla a unirsi a noi. Il palmo di Huda che si allunga in avanti, per dirci di girarci e di scordarci di lei. Le manone di Aleksandar, lo studente di Zagabria, che stringono i braccioli come fossero pompette, mentre la sua testa si volta nervosa, verso la compagna auto-emarginata. Strizza le labbra e gonfia le gote. Facciamo qualcosa? È la sua domanda muta. Ma cosa? Come? La risposta che non c’è. Le dita degli arabi scorrono lungo il menu. Sereni, imperturbabili: Huda? Ma chi è?

Sono a disagio ma non mi stupisco. Anche quando siamo in mensa non si siede mai con noi. All’inizio del corso ha individuato il suo posto: l’unico tavolino appoggiato alla parete. Se non osserva il cibo che si porta alla bocca, può solo fissare il muro che ha davanti a sé.
 

Terminato il pranzo i sauditi si alzano, salutano, sorridono e poi vanno in moschea.
Anche Huda ha finito, e attende a testa bassa. Quando gli uomini sono lontani si alza pure lei, con un movimento del capo sembra saluti la colonna, poi ci sorride e finalmente si avvia.

Huda silenziosa, pranza con la colonna. Ce l’ha chiesto con le mani, scordiamoci di lei.


Foto Petronas Towers e Patong beach, di Fabio Pulito

Dignità caparbia - Tioman, Malesia

Sto pranzando da solo nel ristorantino sulla spiaggia, quando entra uno straniero di mezza età. Abbigliamento e tratti sono molto dignitosi. Ricorda il signor Higgins, l’amico di Magnum, l’investigatore privato impersonato da Tom Selleck.

Si siede ad un tavolo non ancora sparecchiato. Prende uno dei due piatti e svuota mezza frittata sopra il riso al pollo rimasto sull’altro. Con una forchetta sporca spinge il cibo nel cucchiaio e poi con disinvoltura se lo mette in bocca. La postura è impeccabile, con la schiena dritta, le spalle aperte e gli avambracci composti. Mastica lentamente per trenta volte, prima di deglutire con un movimento lieve.

Poi si rilassa, alza lo sguardo, tira un sospiro e osserva le colline: si volta verso il molo e si concentra. Pensa, sogna e finalmente ricorda. Di quando aveva trent’anni, lassù in Scozia, nel castello imponente sulla riva del lago, seduto al tavolo del suo trisavolo, il conte William Francis Higgins, il cui ritratto, appeso sopra il camino, sovrastava ancora l’enorme sala. Di quando poteva permettersi il servo indiano, che gli portava un fagiano impallinato da lui stesso alla battuta di caccia con duchi e visconti. E lo sente ancora in bocca quel sapore di selvaggina, il retrogusto metallico sul foro del colpo, uno dei migliori che avesse mai tirato.

Lo sguardo dal molo ritorna sul piatto. Potrebbe prenderlo lo sconforto, per quel che c’è dentro, per quel che sta facendo: è invece l’appetito ad avere il sopravvento. William Francis Higgins III scrolla le spalle e spinge in avanti il mento, arcuando le labbra in un broncio indifferente.
“A gratis però, pure ‘sto pollo non è male”, liberamente tradotto dall’inglese forbito che non riuscirà mai a fare a meno di usare.

Il ristoratore non è ancora tornato. Higgins finisce il suo pasto collage, beve un sorso di succo abbandonato e si pulisce la bocca con una salvietta riciclata.

Quindi si alza, sistema la sedia e, così com'è arrivato, con calma se ne va.


Foto Pulau Tioman, di Fabio Pulito

lunedì 13 ottobre 2008

Un mese sull'ovatta - Padova, Italia

Sono in Italia già da due settimane. Il tempo è un cucciolotto che barcolla sull'ovatta. È l’unico mese dell’anno che trascorro qui. Pur senza fare nulla di speciale, la noia non stiracchia ancora l’elastico delle giornate. Scrivo qualcosa, passeggio, mi faccio coccolare da mamma e papà, rivedo i vecchi amici, riscopro il senso delle serate trascorse a casa, mi aggiro tra le stanze con un libro al guinzaglio.

I libri. Ne ho ripreso in mano uno, comprato e letto anni fa a Singapore. È una cosa che faccio di rado, rileggere i libri. A volte ripenso a un bel capitolo, a una sensazione provata, che voglio rimettere alla prova a distanza di anni, ma c’è quasi sempre un nuovo volume che mi cattura, soffocando il proposito quand’è ancora nella culla.
Questo però è un libro unico, una raccolta di racconti brevi, anzi brevissimi, come dice anche il titolo, “Sudden fiction”. Ogni brano dura non più di due pagine, spesso una soltanto, in cui si concentra la magica pozione ottenuta con un personaggio azzeccato, una situazione tesa, un incipit fulminante seguito da un finale a sorpresa. Divori in un boccone i raccontini che ti piacciono e ti sbarazzi in fretta delle storie con cui non fai click. Un libro che, come e forse più delle altre raccolte, lo puoi leggere indifferentemente in un verso e nell’altro, dal primo racconto a seguire o dall’ultimo a ritroso, se ti va persino a saltelli qua e là.

Oggi in centro c’era una manifestazione. Un gruppo di immigrati sfila urlando slogan contro il razzismo, toccando i punti strategici dell’organismo cittadino: il comune, la prefettura, le piazze e la zona pedonale. A prima vista si tratta di un gruppo omogeneo, ma basta seguirlo e osservarlo un po’ per notare tutte le sue sfaccettature. C’è il leader naturale, che trova un piano rialzato per mettere alla prova le proprie doti di oratoria. Altri danno fondo al loro bagaglio di italiano per spiegare a due vecchietti la propria frustrazione. Ce ne sono alcuni, una minoranza a dire il vero, che si rivolgono ai passanti inermi con parolacce e gestacci. Sarà quel miscuglio di entusiasmo e luci della ribalta a proiettare ai loro occhi un mondo in bianco e nero, la divisione illusoria tra buoni e cattivi, loro da una parte e tutta l’Italia dall’altra. Dimenticando forse che anche nei cortei di questo tipo si annidano agitatori, opportunisti e volta gabbana. “Se questi italiani ci uccidono, uccideremo gli italiani nei nostri paesi” è uno slogan che può traghettarli dalla ragione al torto.
Ma la maggior parte dei manifestanti per fortuna si comporta bene: gridano la loro rabbia ma dialogano con i cittadini. Ce ne sono infine alcuni, con i quali mi identifico un po’, che incontrano una ragazza carina e si scordano del corteo.

venerdì 26 settembre 2008

La cultura delle mance - Il Cairo, Egitto

In Egitto con una mancia si ottiene quasi tutto, e per qualsiasi cosa un egiziano se ne può aspettare una. Si dà la mancia non soltanto al cameriere che ci serve al ristorante o al portiere che ci porta la valigia nella hall. Nel formicaio del Cairo a caccia di una tip si lanciano anche gli addetti del museo che ci accompagnano ai servizi, i seccatori che posano col turbante per farsi scattare una foto, i ferrovieri che aiutano il viaggiatore a trovare il posto prenotato o gli inservienti che ci porgono la salvietta in bagno. Ovviamente nessuno ha chiesto loro alcunché: più che offrire, impongono un servizio che non si può poi non retribuire. Fortunatamente si accontentano di molto poco, una sterlina egizia basta spesso per comprarsi anche un loro sorriso e tanti complimenti. Alcuni casi però sono alquanto sorprendenti.

A Ghiza, i turisti che fotografano la piramide di Cheope sono tenuti a debita distanza da un cordone che circonda la struttura. A turno una delle guardie approccia e invita il visitatore ad avvicinarsi alla piramide scavalcando il cordone. Il poliziotto ovviamente si aspetta una mancia, ma altrettanto ovviamente quasi tutti rifiutano, perché il cordone sarà pur lì per qualche motivo, e poi non si capisce che differenza potranno fare pochi metri di distanza su una foto dal basso ad un monumento così grande.

In stazione, presso la biglietteria, un agente si avvicina per aiutarci a comprare il biglietto per Alessandria. Un totale di novantasei sterline egiziane. Tiriamo fuori un pezzo da cento, il poliziotto se ne appropria, lo porge all’addetto che gli consegna i biglietti e il resto. L’agente ci allunga i biglietti e le ricevute, ma quelle dannate banconote devono essere incredibilmente appiccicose e non vogliono saperne di staccarsi dai suoi polpastrelli.
“E quelli?” Indichiamo il magro malloppo.
Lui ci sorride e annuisce. Quattro sterline sono un po’ troppe se confrontate con le mance che vengono normalmente pagate per servizi analoghi.
“Che dice, facciamo a metà?”
Il poliziotto non ci pensa nemmeno, ci guarda di nuovo, ci regala un altro sorrisone di denti marci e continua ad annuire, ringraziando. Noi siamo rimasti ipnotizzati ad osservarlo e non ci siamo accorti che le banconote si sono volatilizzate. Gli rivolgiamo un sorriso obliquo, quello che potremmo fare ad un monello che ha fatto il furbo, e rassegnati ci avviamo.
Dopo aver fatto qualche passo qualcuno urla alle nostre spalle. Ci voltiamo, è lo stesso agente.
“Binario numero cinque!” Facciamo finta di credere che l’abbia fatto perché si è reso conto di aver intascato un po’ troppo.
Shokran!” gli rispondiamo. Grazie mille, furbacchione...

La sera facciamo un salto al più famoso bazar del Cairo, Khan El Khalili. Le guide avvertono che si tratta di un posto in cui i turisti vengono trattati come ricconi da spennare, ma a sorpresa, quando arriviamo, tra i vicoletti del mercato regna una calma sospetta: gli egiziani mangiano e bevono e i turisti si aggirano indisturbati tra un negozio e l’altro. C’era il trucco, ovviamente. Una mezz’ora più tardi, i venditori e gli imbonitori che hanno finito l’Iftar, il rito con cui al tramonto rompono il digiuno durante il Ramadan, sono attivissimi e maleducati. Sparano prezzi inaccettabili per paccottiglia dozzinale, cercano di intimidire le loro “prede” - specialmente le donne -, sbarrano loro la strada, le spingono, le afferrano per un braccio e le strattonano. È uno spettacolo davvero fastidioso. Khan El Khalili, com’era prevedibile, non è un gran bel posto, Il Cairo offre attrazioni molto migliori.

A causa dell’Iftar gran parte delle strade, dalle sei della sera in poi, per qualche ora, sono semi deserte. Svanisce come in un sogno il consueto frastuono, è possibile finalmente fare una passeggiata su un marciapiedi che non è intasato come San Siro ad un concerto di Vasco e si può attraversare una strada senza dover procedere con scatti da velocista tra un passaggio e l’altro di macchine lanciate come schegge. Al Cairo tutto ciò è una piacevole sorpresa.

Ma qualche ora più tardi, verso le nove o le dieci, quando si scende dall’hotel per mangiare un tardo boccone, appena fuori dall’uscio si viene calamitati da un vortice di gente e mezzi, rumore, luci, odori e caldo a cui ci si abitua (a stento) soltanto dopo qualche minuto di stupore da bocca aperta e occhi strabuzzati. Fino a notte fonda i negozi sono aperti e la gente si accalca davanti alle vetrine alla ricerca di scarpe, abbigliamento e dolciumi. Molteplici flussi umani si snodano sul marciapiedi scorrendo gli uni sugli altri, incrociandosi, attorcigliandosi, scontrandosi e tagliandosi la strada come bisce d’acqua, che fuggono all’infinito di diametro in diametro all’interno di una bacinella in un mercato vietnamita. Chi ha un po’ di fretta e mosso dall’impazienza ha già picchiato con frequenza la punta delle scarpe sui tacchi del passante che lo precede, decide di tagliare lateralmente e condividere le polverose corsie stradali con gli interminabili cordoni di veicoli ammaccati, leggermente più ordinati di quelli sui marciapiedi ma, manco a dirlo, molto più pericolosi. Agli incroci maggiori i flussi si intersecano e, come in un vecchio videogioco con schermo a maglie, attraversano a scatti con sequenza alternata: uomo-auto-donna-furgone-ragazzini a manina-motocicletta-vecchietto-madre con bimbo in braccio-taxi-autobus, e così via all’infinito. Alle due passate torniamo in albergo e l’attività di questo alveare non si è ancora calmata. Quando mezzora dopo ci stiamo per addormentare, attraverso le fessurine tra le ante delle finestre filtrano ancora, tra i vapori speziati degli spiedi di shawarma, gli acuti dei clacson, gli strilli degli ambulanti e il rombo baritonale delle voci e dei suoni di fondo.
Città energica Il Cairo, che, come dice il tassista che ci accompagna all’aeroporto, never sleeb, terminando con la classica storpiatura araba della P, come in byramids o nell’indignato it’s...un-accebtable. Sono fantasticamente arabi questi egiziani.

Un’ultima nota curiosa. Mentre tutto il mondo fa i calcoli utilizzando i simboli numerici noti col nome di arabi, in Egitto gli arabi locali espongono i prezzi utilizzando delle cifre diverse, che seguono lo stesso sistema ma sono di derivazione indiana. Eccole:


0
1
2
3
4
5
6
7
8
9


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٣
٤
٥
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٨
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È come se in un mondo come il nostro, dominato dalla scrittura con i caratteri romani, gli italiani, proprio loro, leggessero il Corriere della Sera in cirillico. In una realtà parallela, forse lì sì.



lunedì 22 settembre 2008

Lungo la sponda del Nilo - Il Cairo, Egitto

Sono davvero tanti i pezzi esposti al Museo Egizio del Cairo. Dopo aver trascorso quasi un’ora ad ammirare le sequenze buffe e misteriose dei geroglifici e la perfezione dei graniti e degli alabastri levigati, ci si rende conto che si è arrivati soltanto a metà del primo tratto, del primo lato, del primo piano, di questo massiccio e spazioso edificio. Per fortuna la sorpresa iniziale è passata e si può ora scorrere più velocemente tra la fila delle bare ordinate come soldati sull’attenti lungo le pareti e i grandi sarcofaghi sistemati ai loro piedi. E poi, dopo aver girato l’angolo, chinarsi a dare un’occhiata alle teche su cui stanno esposti monili, decorazioni e gioielli; zigzagare tra le statue, le urne, le stoffe, i sandali e un numero incredibile di altri oggetti la funzione dei quali non è sempre chiara.

La bellezza, la raffinatezza e l’ottimo stato di conservazione della gran parte dei reperti contrasta però bruscamente con la scarsa qualità della struttura che ospita il museo. Pavimenti grezzi e rovinati, pareti scalcinate, finestroni opachi catturano di tanto in tanto l’attenzione dell’occhio che vi si va a poggiare per qualche istante prima di tornare ad ammirare la splendida collezione delle antichità, senza però aver mancato di macchiare, anche se soltanto in maniera quasi impercettibile, alcune delle immagini che si andranno ad inserire nella sequenza del ricordo di questa notevole esposizione.

Pure la cura con cui vengono conservate alcune opere stupisce negativamente molti dei visitatori. Una buona parte dei pezzi non sono protetti in alcun modo, altri sono conservati in delle specie di credenze scrostate e sbilenche che poche donne in Italia oserebbero esporre nelle loro cucine. Il risultato è che troppi turisti toccano gli oggetti esposti, a volte distrattamente ma spesso anche volontariamente per seguire con un dito un profilo interessante; altri addirittura ci poggiano sopra una spalla quando è l’ora di riposare la schiena e le gambe. E chi gestisce il museo non ha certo molte ragioni per lamentarsi. Le guide turistiche sono infatti le prime a dare il cattivo esempio, cominciando spesso le spiegazioni su un sarcofago con un sonoro schiaffo sul lato dell’oggetto; o quelle su una statua con una strofinatina dei polpastrelli tra i solchetti delle iscrizioni o sulle curve dei bassorilievi.
I segnali che invitano il pubblico a non entrare in contatto con i pezzi esposti sono pochissimi, piccoli e spesso sistemati in punti non molto strategici, magari in un angolo vicino ad una rampa di scale o mezzo nascosti dal profilo di una teca.

Onestamente l’atmosfera creata con il design e le decorazioni nei musei europei è tutta un’altra cosa, così come quella che regna nel sofisticato e avanzatissimo museo di Shanghai, una combinazione molto interessante tra antichità e ritrovati hi-tech. Qui è proprio il balletto sincronizzato tra i profili classici delle porcellane o delle giade e le linee avanzate dell’architettura del complesso a stuzzicare i sensi dei visitatori, oppure gli accostamenti dei colori di oggetti esposti ed elementi delle sale, o ancora i giochi di luce sulle teche e sulle tinte degli schermi divisori.

Al museo del Cairo nella maggior parte degli spazi dedicati alle esposizioni mancano i controlli delle condizioni ambientali, come temperatura, luce e umidità. Ma non è certo perché - o meglio, non solo perché - le sale della tomba di Tutankamon e delle mummie sono le uniche ad essere dotate di aria condizionata che chi vi entra ci resta per un bel po’. È qui infatti che il museo offre il meglio di sé. La tomba di Tutankamon deve essere sembrata a chi l’ha scoperta un incrocio tra una miniera d’oro sudafricana e la sede centrale di Tiffany, nella via più in del cuore di Manhattan. I monili, i copricapi, le gemme e soprattutto i sarcofaghi sono un miscuglio di sfarzo e bellezza sopraffina che lascia chiunque col fiato sospeso. E pensare che quella di questo re è l’unica tomba trovata intatta durante gli scavi ufficiali, ignorata dalle varie spedizioni di saccheggiatori a causa probabilmente della sua “scarsa” rilevanza a confronto di quelle dei faraoni più importanti (Ramses II regnò per quasi sette decenni, mentre Tutankamon morì a diciannove anni, dopo solo dieci sul trono).

Col fiato sospeso ci resta pure chi, dopo aver pagato un biglietto supplementare, entra nella stanza delle mummie e si ritrova a tu per tu con il primo corpicino striminzito, uno scheletrino ricoperto di pelle scura, con i denti a castoro e i capelli di un giallo- arancio talmente fasullo da fare invidia persino ad un punk quattordicenne. Chi si aspettava di vedere una serie di sagome ricoperte di garze sfila sbalordito accanto alla fila delle salme di reali, sacerdoti e balie, facendo il giro della sala anche due o tre volte, fermandosi ad ammirare le forme delle spalle e dei gomiti, addolcite dal sottile strato gommoso della pelle annerita, o la perfezione di un’unghia che sembra fresca di manicure e il vuoto lasciato da due dita mancanti su un piede. Forse per il fatto che sono rattrappiti questi corpi a prima vista sembrano molto piccoli, si scopre poi che spesso la loro statura è di un metro e settanta o più e che il più alto raggiunge addirittura il metro e ottantatré.

Per una passeggiata serale gli addetti della reception dell’hotel consigliano il parco sul lungofiume del Nilo. Ad accogliere ed intrattenere i numerosi vascaroli che convergono al parchetto ci sono degli artisti francesi divisi in due gruppi. Un quartetto di jazzisti fa la staffetta con una compagnia di uomini e donne che pilotano con dei pali metallici le braccia di marionette giganti, che indossano come se fossero dei costumi-zaino.

Un’occhiata alla riva opposta ricorda vagamente - ed è la seconda volta oggi - Shanghai. Per la precisione la camminata del Bund, con la skyline di Pudong dalla parte opposta del fiume. La scena è dominata ovviamente dalle torri dei più importanti hotel di lusso, lo Sherathon, l’Intercontinental, l’Hilton, il Sofitel, ma da pochi edifici di rappresentanza delle grandi multinazionali. Dopo uno sguardo veloce se ne individuano soltanto due. La prima, la Mobil, non è certo una sorpresa, nella capitale di uno stato nordafricano, incastonato tra aree che flottano su bolle di petrolio o gas naturale. La seconda invece fa esclamare un “Ahhh” che può voler dire molte cose. L’insegna luminosa in cima all’edificio proietta un campo rosso su cui in sequenza si accendono le lettere H-A-I-E-R, che brillano per qualche secondo per poi spegnersi e ricominciare da capo.
La sigla non vi dice nulla? Forse non ancora, ma chissà fra qualche anno. Haier è il nome di una multinazionale cinese del settore degli elettrodomestici. L’Electrolux o la Whirlpool di casa loro. Fa parte di quell’avanguardia di marchi che sono riusciti ad emergere da quel magma caotico in cui sguazzano migliaia di imprese cinesi che producono manufatti per le multinazionali straniere o aggeggi di scarsa qualità per i mercatini rionali, e che sono riusciti a ritagliarsi uno spazio nel mercato che conta. O addirittura ad assorbire dei colossi stranieri, come ha fatto l’ex-sconosciuta Lenovo acquisendo la divisione Computers della IBM.

La Cina che avanza è anche questo lento ma costante terremoto delle tradizioni. Un’insegna con un nome che a molti non dice nulla, che lungo il corso del Nilo - e magari anche del Tamigi o del Hudson - si fa largo a spallate tra quelli dei colossi occidentali che da decenni suonano familiari a noi, ai nostri padri e perfino ai nostri nonni.


lunedì 15 settembre 2008

In mezzo al maremoto. Bangkok - Thailandia, 15 settembre 2008

È buio, da un pezzo ormai; me ne rendo conto soltanto adesso, perché laggiù in fondo delle lucine bianche hanno cominciato a brillare ad intermittenza. Vibrazioni metalliche scivolano su traiettorie a parabola, ricordando vagamente quel tipo di suoni piombati che rimbombano da lontano in un cantiere edile. Rombi di sbarre flesse e travi ondeggianti mi ruotano attorno come effetti sonori che scorrono da una cassa all’altra nel sistema Dolby di un multisala.

Ero in un sogno, ma dopo aver aperto gli occhi non sono ancora sicuro di essermi svegliato. Guardo in alto e vedo uno scorcio del cielo lombardo, la sua versione estiva, tersa e frizzante. Ma è come se lo vedessi attraverso un oblò. Sto seduto su uno di quei vecchi sedili in finta pelle color nocciolina, in un vagone riciclato delle Ferrovie dello Stato, i tempi di Trenitalia sono ancora lontani. Il cielo dovrei riuscire a vederlo girando la testa verso il finestrino, invece sta giusto sopra di me, incorniciato dal bordo frastagliato di un enorme squarcio sul tetto.

È il tardo pomeriggio di una domenica di inizio giugno, nel 1991; manca poco al tramonto e la nuvola che mi passa sopra, spruzzata come panna montata su un gelato gusto puffo, scorre su un mondo che non conosce ancora internet e cellulari, voli low-cost e globalizzazione. Le bande di ultrà invece esistono già, e hanno già iniziato a trascorrere le loro liete domeniche dedicandosi alla devastazione di treni in compagnia.

Stiamo tornando dalla trasferta di Cremonese-Padova, partita destinata ad essere decisiva per la promozione in Serie A, divenuta famosa invece per altri motivi. A giudicare da come si impegnano per demolire questo vagone si direbbe che qualcuno li paghi con tariffe orarie, con gli straordinari per il fine settimana, o meglio ancora per chilo di materiale, che divelgono dalla carrozzeria della vettura e gettano poi nei fossi, nei campi o nelle banchine delle stazioni che ci scorrono a lato. Mi ero addormentato alla partenza da Cremona, ma era come dormire su una strada coi lavori in corso, tra un martello pneumatico ed uno schiacciasassi.

La cosa più sorprendente è che all’interno del treno quasi tutti si sono messi all’opera. Sembra essere un impegno a cui non ci si può sottrarre, un istinto contagioso, come quello che spinge a unirsi ai soccorritori che scavano tra le macerie di un terremoto. In pochissimi, come me, si limitano sbalorditi ad osservare. È bastato l’esempio impunito di un gruppetto di professionisti, assieme alla sicurezza infusa dalla notizia che gli agenti della polizia sono stati sequestrati e rinchiusi nel vagone di testa, e il secchione magrolino che mi ansima davanti, con tanto di occhialetti, zazzera e brufoli, si sta spezzando la schiena e scorticando i polpastrelli per cercare di rimuovere la parete dello scompartimento. Si ferma, ha il fiatone, si guarda le mani solcate di viola, manda a quel paese la parete, strappa un poggiatesta imbottito e lo getta dal finestrino come se fosse una bomba ad orologeria, che a momenti rischiava di scoppiargli tra le dita.

Le stazioni lungo il percorso sono state avvertite, le porte di ingresso ai binari sono sbarrate e nelle città più grosse al di là delle vetrate si ammucchiano gli hooligans delle squadre locali. Si dimenano e ruggiscono come belve in un film muto. Sembrano un branco di cani randagi, prigionieri in una grande gabbia di plexiglas, mentre un carro attraversa il loro territorio esponendo un carico di bastardi accalappiati altrove. Il macchinista non si ferma mai e se qualche ferroviere a terra esce allo scoperto viene ricacciato nel proprio bunker con un bombardamento di sedili, bottiglie ed estintori. Il treno fa soltanto qualche sosta forzata quando qualche membro dell’operosa manovalanza decide di prendersi una pausa, tira il freno d’emergenza ed esce a sgranchirsi la schiena e le braccia, lanciando delle pietre contro qualche bersaglio.

Il freno viene azionato per l’ultima volta a Campo Marte, a poche centinaia di metri dalla stazione di Padova. L’istinto e l’esperienza ha suggerito a questi corsari che è meglio defilarsi lungo percorsi alternativi, aggirando in tal modo il grosso contingente di agenti della celere che attendono stanchi, impazienti e probabilmente incazzati l’arrivo del treno alla stazione centrale. Io resto a bordo e osservando la scena dal finestrino mi chiedo se non scappare sia stata una buona idea, fino a quando scorgo i bagliori blu delle gazzelle che battono la zona, sgommando come le Alfa Giulia nei film poliziotteschi degli anni ‘70.

Alla fine siamo in pochi ad arrivare in stazione e all’uscita dal treno passiamo in fila indiana tra due cordoni di celerini che ci fissano in cagnesco. Vorrei guardarli in faccia e dire che non c’entro nulla; in questi momenti però è meglio pressare le labbra, fissare con un interesse vagamente ebete la punta delle proprie scarpe e seguire con passo goffo il culo di quello che ci sta davanti.

Parecchi anni fa mi piaceva andare allo stadio. I rumori, i colori, la bolgia nel catino delle gradinate, il tutto mescolato con le emozioni dell’evento sportivo, mi mettevano addosso un’eccitazione particolare. Qualcosa che altrimenti ho provato soltanto a qualche concerto.

Arrivando a piedi la domenica pomeriggio, le strade in città erano deserte, l’atmosfera lenta di ozio e pennichelle, il silenzio vivo che colava dai balconi aperti, su cui qualcuno aveva esposto una bandiera, era rotto dall’eco dei boati dei cori, che ti arrivano da davanti, da dietro e dai fianchi, ma persino dall’alto, dal basso e da dentro. Il frastuono era invece attutito alle biglietterie nel sotto-gradinata, dove quasi sempre si aggirava qualcuno per sgraffignare trofei di sciarpe e bandiere. I cancelli erano sorvegliati da un solo bigliettaio, a cui soltanto qualche anno più tardi si aggiunse un poliziotto che sequestrava fibbie e accendini. Infine, dopo l’ultima rampa di scale, oltre la porta su quel mondo blu e smeraldo, disegnato qua e là con un gessetto da lavagna, l’immersione in un’atmosfera da arena romana, elettrizzata per i combattimenti tra gladiatori e belve. Visto da lì il pubblico era una massa unica, compatta e gelatinosa, che trasmetteva le vibrazioni di un impulso ricevuto in curva nord, lungo tutto il cuneo della tribuna dei distinti, mandandolo ad infrangersi sulla cancellata della sud.

E poi gli striscioni, le bandiere e le sciarpe, le maglie biancorosse e la fila di tamburi, su cui qualche bullo a torso nudo picchiava ritmi tribali di una semplicità ipnotica. Ad un tratto nella curva calava il silenzio, compatto e potente, di voci trattenute da centinaia di gole, che i suoni degli altri settori non riuscivano a scalfire. Un altoparlante giocattolo diffondeva una frase gracchiata. Le parole erano come le note di un un grammofono antico che arrivano soffuse da una stanza lontana. Il comando finale si impennava stonato e poi, precedute da una pausa di un’ottava, esplodevano come fucilate le sillabe di un coro poderoso, audace e idiota, gridato dalla curva intera come un urlo di battaglia.

A pochi minuti dall’inizio della partita lo speaker ufficiale leggeva le formazioni. Il pubblico intonava un “olè” per chiunque, campioni e scarponi, a patto che vestissero la maglia giusta. Tra lo sventolio delle bandiere e il rito della “sciarpata”, sul campo cadeva una pioggia di coriandoli, seguita spesso dalla nebbia dei fumogeni. Le squadre si disponevano lentamente in formazione ed il portiere che si avvicinava alla curva poteva ricevere una manna di ovazioni o, se era l’avversario, una grandinata di insulti. Dopo aver controllato le reti con tecniche da pescatore, arbitro e guardalinee si scambiavano cenni misteriosi. Il fischio d’inizio interrompeva l’apnea del pubblico e il suono smorzato dei primi calci sul pallone, assieme al vento che soffiava in cima alla gradinata, marcavano nei sensi il confine tra stadio e salotto, divenuto ormai soltanto un blando surrogato.

Un’emozione unica perché primordiale, istintiva, non coltivata, impossibile da provare negli altri segmenti della vita civilizzata. Io mi ci tuffavo dentro senza timore, perché sapevo che mi avrebbe portato ad un limite che non sarei mai stato in grado di valicare, ma che in nessun altro modo avrei mai avvicinato; un mare in cui sarei rimasto immerso fino ad un attimo prima che mi scoppiassero i polmoni, da cui sarei uscito paonazzo ed emozionato, come un cane a cui è sfuggito un gatto, che ansima esausto ma è felice lo stesso.

Purtroppo non tutti la pensavano come me. Li vedevo confabulare come un plotone di sabotatori, organizzarsi in formazioni e partire di scatto, seguendo in maniera sincronizzata sequenze che mi lasciavano di stucco, per scomparire poi giù per la scalinata, verso una missione avvolta nel mistero. Io li stavo ad osservare sbalordito e per un attimo credevo ancora di giocare al mio gioco. Ma era un inganno, lo scoprivo quasi subito, mi mettevo le mani in tasca e uscivo dallo stadio.

Fino ad un giorno in cui li seguii, armato di curiosità per soffocare la paura. Mi ritrovai in uno spiazzo adiacente la curva degli ospiti (ospiti!), l’orda selvaggia distribuita omogeneamente, dalla curva sud ad una collinetta nei paraggi. Portavano armi bianche e fazzoletti sul viso. Era in corso una battaglia ma non vedevo il nemico, i movimenti di ognuno tradivano rabbia frustrata, il nervosismo di colui a cui è stato teso un tranello. Poi ci fu un fremito e la massa si spostò in blocco, come biglie metalliche in un campo magnetico. Nel garbuglio di grida non capivo una parola, fino a quando un tizio vestito da pirata mi passò vicino, mi diede una pacca sulla spalla e con circospezione mi sussurrò: “gli sbirri, dai, carichiamo!”. Dopo aver percorso dieci metri ed essersi accorto di essere da solo, si voltò senza fermare la marcia e gli si dipinse sul viso un’espressione confusa. Io non ci feci caso, stavo pensando a tutt’altro: avevo appena scoperto chi era il loro nemico.

E allora, per ricollegarmi al tema di questo diario, credo che in vita mia mai mi sia sentito così alieno, così fuori posto come in quello spiazzo polveroso. Ed è curioso pensare che sia successo proprio lì, nel centro della città in cui sono nato. Non invece quand’ero in viaggio solitario, tra città e campagne nel sud dell’India, dove per giorni non incontrai uno straniero, né nei ristoranti dei paesini cinesi, dove non ti capiscono neanche se ordini a gesti. E nemmeno nel cortile del municipio di Phuket, adibito a unità di crisi per le vittime dello tsunami, dove centinaia di disperati cercavano i familiari, gli amici, la maniera di tornare a casa o anche un semplice rifugio.

Muovendomi emozionato tra i banchetti delle ambasciate, gli ospedali da campo, i centri informazione e i chioschi per la distribuzione di cibo e vestiario, mi trovavo sempre dalla stessa parte della barricata, eravamo tutti uniti per aiutare chi era stato colpito dal dramma.

Vent’anni fa, impalato e sbigottito, nel treno o in quello spiazzo a ridosso dello stadio, ero invece da solo.

In mezzo al maremoto.











giovedì 24 luglio 2008

Cina: anarchia antigienica - Kunming, Cina

È passato quasi un anno dal mio ultimo viaggio in Cina.

Esperienze, immagini e odori di quel paese ti restano addosso per sempre, come tatuaggi. Basta tirare su una manica o giù un calzino e mettono fuori la testa, colorati come la bandiera nazionale o multiformi, arzigogolati e magnetici come un ideogramma pennellato con la bella calligrafia di Mao.

E così, basta un’occhiata alle strisce pedonali per ricordarsi di come nelle città cinesi il pedone e lo scarafaggio godano pressapoco dello stesso rispetto. O sedersi a tavola ed afferrare due bacchette per ritrovarsi disorientati con la mente ad annaspare tra le onde e la schiuma (nonché i rifiuti galleggianti) dell’anarchia antigienica che regna nei ristoranti cinesi. Avanzi di cibo e spazzatura a decorare il pavimento, pareti dipinte coi colori delle salse e dei vapori di cottura, camerieri e cuochi che si raschiano l’interno delle narici con unghie lunghe come lame di coltelli, per poi affilarle con dei colpi di dritto e rovescio sui camici dipinti con complessi arabeschi di olio e grasso. In mezzo a questo deserto spuntano qua e là, come degli spinosissimi cacti, regole ferree, da non trasgredire per nulla al mondo, pena il taglio fantozziano della mano. Taglio soltanto morale, ovviamente. I cinesi, come sanno quasi tutti (soprattutto chi in Cina non c’è mai stato), sono cattivissimi - forse mangiano persino i bambini -, ma non sono ancora arrivati a quel punto.

Baozi, dei bocconcini ripieni di carne e verdura. I ristorantini che li servono si riconoscono per la pila di cestelli di bambù eretta sopra il getto di vapore, sistemata di solito di fianco all’ingresso. Appena entrati, si ordina una porzione con il ripieno preferito e ci si va a sedere, su sgabellini che spesso sono progettati per nani.

Il cameriere poggia sul tavolo un piattino di ceramica, le bacchette e i contenitori delle salse. Piattino, tavolo, finestre, l’intera sala da pranzo e l’uscio: è tutto in scala con gli sgabelli, dimensionato sulla taglia dei corpicini di brontolo e mammolo; persino uno dei camerieri è piccolo, piccolissimo, minuscolo. Il ristorante intero è stato scritto da Jonathan Swift. Oltre la finestra invece si alzano i palazzoni, le strade spaziose, le università (ben due in questa stessa via!) con i loro parchi estesi, completi di sculture e ruscelli. Tutto colossale. E per fortuna che questa è Kunming e non Pechino, la capitale (mondiale) del gigantismo.

Ma finalmente arrivano i bocconcini, sistemati ordinatamente sul loro cestello, una specie di scatoletta di bambù senza coperchio, con un fondo intrecciato che in fase di cottura lascia passare il vapore, di scatoletta in scatoletta, fino alla cima della pila. Un sistema antico, semplice e ingegnoso.

Lo straniero che siede davanti a me stringe in maniera un po’ goffa un baozi tra le bacchette, lo intinge nella salsa, lo porta alla bocca e con un morso ne divora metà. Poi lo poggia nuovamente sul cestello, mastica e assapora l’impasto di pane, carne, verdure e spezie. Io inforco le bacchette e mi preparo all’assalto, ma mi blocco quasi subito, con le dita intrecciate in una innaturale posizione intermedia, da crampi.

Dietro a me, dall’entrata della cucina, ho sentito dei passi che si affrettano verso il nostro tavolo, e in sottofondo altri suoni confusi.

Mi giro e vedo la stessa cameriera che ci ha servito mentre punta dritto verso di noi, fissa qualcosa sul tavolo e parla, in un incomprensibile dialetto yunnanese. Non c'è nessun altro davanti a lei, ma non sembra che le interessi se noi capiamo o no. Dà l'impressione di rivolgersi a qualcuno in cucina, a se stessa, a Buddha o a nessuno. Mentre passa di fianco ad una credenza, senza fermarsi o voltarsi stende un braccio verso una colonna di piatti e con la mano che si muove a memoria ne afferra due. Arrivata al nostro tavolo ce li mette davanti, uno a testa. Poi, cercando di contenere la seccatura, ci fa segno di poggiare i baozi già morsicati sul piattino, e NON sul vassoio di legno.

Seduta vicino a noi c’è una ragazza cinese che conosco di vista. Ho notato che osservava la scena in silenzio. Sono confuso. Le chiedo discretamente che cosa è successo. Mi risponde a bassa voce e farfugliando, un po’ imbarazzata. Alla fine capisco che il cibo parzialmente consumato non va poggiato sulle scatolette. Credo di intuire anche che i cestelli di bambù passano direttamente dal tavolo alla pila di cottura, con un nuovo carico di panini, senza essere lavati. Vengono quindi utilizzati soltanto come sostegno, non come piatto vero e proprio. Per ovvi motivi igienici, le pietanze che sono già state a contatto con la bocca di un cliente non possono esservi poggiate sopra. Così come non si intingono le proprie posate nei contenitori di salsa che stanno al centro della tavola, quelli che vengono utilizzati da tutti. Ogni cinese lo sa e non lo farebbe mai. Sarebbe un po’ come se in Italia qualcuno pescasse il sale o lo zucchero dal contenitore comune con il cucchiaio bavoso che si è appena sfilato dalla bocca. In effetti non fa un gran bel vedere.

La regola ha senso, non c’è niente da dire. Se lo straniero avesse saputo che i cestelli vengono utilizzati in quel modo, non avrebbe mai commesso l’errore. Ed io non sarei stato sul punto di fare altrettanto. Il fatto è che in Cina è difficile tenere alta l’attenzione per questo tipo di dettagli. Se per caso ti cade l’occhio sotto il tavolo, ti si presenta uno spettacolo di costolette spolpate che fermentano in mezzo ai tuoi piedi tra salviette sporche e stuzzicadenti; se poi per dimenticare quello schifo ti volti a dare un’occhiata fuori dalla finestra, a pochi metri dal tuo cibo c’è lì una truppa di topi che banchetta tra i cumuli di pattume accatastati sul marciapiede; poggi allora i gomiti sul tavolo e ti metti le mani davanti agli occhi, per non vedere nulla, ma sei assalito dalle note di una sinfonia rugosa, dove gli archi e i fiati delle gole schiarite sono seguiti dalle percussioni delle scatarrate che precipitano al suolo. Lo spettacolo degli sputi, tra l’altro, così come quello del fumo di sigaretta, va in onda ovunque: bar, ristoranti, cybercafe, cinema, autobus, vagoni letto, ospedali! Non dico che uno ci si abitua in fretta e comincia a seguire l’esempio, ma di certo in tema di igiene dopo un po’ l’asticella degli standard si abbassa e le aspettative vengono ridimensionate, così come la fiducia nel buon senso e nelle regole che questo dovrebbe suggerire.

Dopo alcuni mesi in un posto così - diciamo - originale, chi se lo aspettava di essere rimproverati per aver semplicemente poggiato il panino al vapore su quello che credevamo fosse il nostro piatto? E come per Fantozzi al ristorante giapponese, se fai un errore salta fuori un samurai, che con una secca stoccata di katana ti tronca di netto la mano fallosa. Zac!

No, per carità, non parliamo di Giappone in casa dei cinesi: in quel caso, oltre alla mano, potrebbero decidere di tagliarti pure la lingua...



lunedì 21 luglio 2008

Quello del globo. Kuala Lumpur - Malesia, 21 luglio 2008

“Quello del globo”, ecco chi era! L’avevo “sniffato” già da qualche secondo, il suo olezzo pungente sbucato come un fungo nel prato degli aromi da bazar di Bukit Bintang, ma fino a quando non l’ho individuato il mio istinto andava a caccia di una sorgente d’altro tipo.

Quando si trascina stanco lungo il marciapiedi, la folla gli scorre attorno, allargandoglisi davanti e chiudendosi alle sue spalle, con l'andamento costante dei flutti di un fiume che si adattano morbidamente al contorno di un isolotto.

Urtarlo è impossibile, perché si entra in stato di allerta già quando ci si trova a qualche metro di distanza. Il globo, quello scudo, la bolla che lo circonda, un guscio che si porta dietro come una tartaruga, lo percepisci prima con l’olfatto e soltanto più tardi con la vista. È un odore acido e secco, il fetore di un fluido fermentato che si è asciugato di recente su di un letto di paglia. Uno sbuffo talmente forte di cui solo una parte intercetta il naso, costringendo la frazione che non riesce a penetrare a conficcarsi come una pioggia di spilli nella smorfia che ti ha contratto il muso.

Ha in mano una copia di un giornale gratuito. In cima agli scalini sui quali si è accovacciato è stato da poco sistemato un ufficio di cambio, la versione gigante di una vaschetta da frullatore. Il grosso cubo di vetro e fibre plastiche potrebbe essere la fermata sospesa di un autobus a levitazione, nel cielo di una metropoli dell’anno 3000.

“Quello del globo” alza gli occhi, sembra che mi fissi ma non mi vede. Il sorriso ebete è sprofondato nella barba, un cespuglietto ben potato di pelo nero e riccio. La metà del viso dal naso in su sta compressa nel tubetto della sua faccia ad ampolla, spaziosa in basso per le labbra e i pochi denti, ma troppo stretta in alto per accomodare gli occhi strabuzzati da insonne cronico. Il rettangolino di pelle che gli copre gli zigomi ha l’aspetto morbido, lucido e leggermente madido della fettina di una cintura in cuoio su cui il metallo della fibbia ha lavorato per mesi.

“Quello del globo” è un barbone originale. Quando ti si avvicina con l’espressione di un pazzo che per passare inosservato si finge rimbambito e ti allunga la mano come per toccare un alieno, tu alzi di scatto lo sguardo dal libro e ti accorgi che d’istinto sei entrato in apnea, poi lo ignori come hai ignorato chi l’ha preceduto. Ma quando ti appresti a ritrovare il segno che hai perduto, con la coda dell’occhio noti i suoi movimenti da bradipo, mentre rientra nella sua corsia preferenziale sul marciapiedi. Ti chiedi se quell’espressione da matto o deficiente gli stia incollata al muso in maniera permanente o se se la scrollerà di dosso con la stessa lentezza con cui non ha ancora finito di ritirare la mano dell’elemosina. Resti ipnotizzato ad osservarlo, col dito sul libro, dimenticato su una riga che non c’entra nulla, mentre col movimento rallentato di un robot antiquato lui gira il collo e punta un rifiuto sul pavimento. Si china per raccoglierlo piegando la schiena da novantenne, tu pari la nuova zaffata con un airbag di guance gonfiate e allo stesso tempo ti chiedi cosa avrà trovato; che se ne potrà mai fare dell’incarto di una caramella, di un tappo di bottiglia o di un mozzicone di sigaretta?

Poi lo osservi mentre scruta l’oggetto: se non sapessi già che quello sguardo allucinato è l'espressione naturale con cui compie ogni suo gesto, sospetteresti che tra le dita regge l’artiglio di un dinosauro. Abbassa la mano, si gira e ti fissa sbalordito, ma probabilmente quello che osserva non è ciò che ha davanti agli occhi. Quindi riparte con la solita flemma, trova un cestino e vi getta il rifiuto.

Ora la bocca si è aperta pure a te e ti sorge il sospetto che quella sua espressione tonta la riesci ad imitare abbastanza bene. Ti riprendi di scatto e ti irrigidisci sulla sedia, ti infili una mano in tasca, tiri fuori qualche moneta e cerchi in fretta il modo di attirare la sua attenzione.

Ve lo posso assicurare, “quello del globo” puzza di brutto. Credo che una doccia non se la faccia da anni, ma alla pulizia della sua città sembra tenerci parecchio.





venerdì 4 aprile 2008

Un velo di coloniale e d'antico. Penang - Malesia, 4 aprile 2008

All’improvviso mi rendo conto che da lungo tempo la mia mente stava svolazzando, quasi in un sogno. Di una cosa sono sicuro però, non stavo dormendo. E come potrei? Con questo continuo ronzio nelle orecchie.

La ragazza cinese che siede davanti a me da due ore almeno non smette di parlare al telefono. E non intendo dire: non smette di telefonare; quello che voglio dire è proprio: non smette di parlare al telefono.

Non so chi ci sia all’altro capo della linea ma posso affermare con certezza che si tratta di un interlocutore passivo, estremamente passivo.

Forse è muto e le scriverà in seguito le risposte via email.

Oppure la ragazza sta lasciando un messaggio in segreteria, sperando per lei e per chi deve ascoltarlo che all’altro apparecchio ci sia uno schiavo, pronto a cambiare la cassetta al momento giusto, o meglio ancora che utilizzino un capiente hard disk per le registrazioni.

O sarà invece un depresso suicida che minaccia di saltare giù dal davanzale non appena la nostra amica smette di parlare?

Allora no, non ti fermare! Vai, parla, parla! Della tua infanzia, di quello che scorre fuori del finestrino, dei passeggeri dell’autobus, di quel che hai mangiato a pranzo.

E su quest’ultimo argomento di cose da dire ne deve avere parecchie.

Quando l’autobus si ferma per una pausa alla stazione di servizio, la osservo mentre passeggia. Indossa dei jeans a zampa d’elefante: non per via della scampanatura, ma per la dimensione di quei quarti, da pachiderma africano appunto, o forse addirittura da mammuth.

Ha le cosce talmente grosse che quasi non se ne nota il movimento durante la falcata. È come se sotto ai suoi piedi ci fosse un congegno atto a creare un potente campo magnetico, che le permette di scorrere senza attrito, come su un cuscinetto d’aria. Cammina un po’ come quei Barbapapà, i personaggi dei fumetti francesi degli anni ‘70. Pure il suo corpo ne ricorda un po’ la forma. Sembra un ellissoide, o un uovo, che scorre senza ruotare, con l’asse maggiore in verticale. O forse, visto il colore della “magliettina” - che un'altra ragazza potrebbe indossare come un camice - si può dire che assomiglia ad un’oliva. Un’oliva gigante.

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Certo che la Malesia vista in campagna sembra proprio un’immensa piantagione di palme da olio.

Pigliate un autobus che vada da qualsiasi centro urbano ad un altro e provate il seguente giochino. Chiudete gli occhi e assopitevi per qualche minuto, la comodità di queste poltrone da ufficio dovrebbe agevolarvi il compito. Oppure fissate il libro davanti a voi, o fate qualsiasi altra cosa, purché non guardiate fuori dal finestrino.

Poi, dopo alcuni minuti voltatevi e osservate il paesaggio.

Ripetete il trucco una decina di volte. Sette o otto volte vi troverete davanti i filari di queste piante. È facile imparare a riconoscerle, un po’ per la frequenza con cui le si trova e un po’ perché in effetti sono inconfondibili. Possono essere a tronco esile e lungo, o basso e tozzo. Ma il “ciuffo” è sempre simile, a “testa di capelli cotonati”. Una specie di calotta formata da una serie di lunghi rami arcuati, che partono verso ogni direzione dal centro del nodo. Alcuni a centottanta gradi verso l’alto, poi altri ad angoli via via minori, fino a quelli inferiori che spiovono verso il basso.

Da ognuna di queste “sciabole” si dipana di traverso, in due versi opposti, una serie di foglie non molto grandi, di un verde piuttosto scuro.

L’olio, esportato in tutto il mondo, si ottiene da semi incastonati in grandi “pigne”, che sbocciano dal centro del bulbo.

Da quando il lattice naturale non è più l’elemento principale per l’ottenimento della gomma, queste palme hanno sostituito come coltivazione nazionale le piante di caucciù. Qua e là spuntano ancora alcune chiazze coltivate con questi alberi, simili a betulle, alla base dei quali sono spesso inchiodati dei gusci di cocco, in cui viene fatta colare la resina che esce dalla corteccia.

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Il centro di Georgetown, nel cuore di Penang, non me lo ricordavo così grande. La stessa area ospita una rumorosa Little India e un’operosa Chinatown. Minareti alti e decorati, statue dalle tinte sgargianti e vagamente psichedeliche aggrappate alle colonne e ai tetti dei templi hindu, pagode cinesi avvolte in bianche nuvole di incenso e case delle corporazioni con massicci portoni in legno e facciate dai tenui toni pastello. E poi ristoranti, alloggi, botteghe di artigiani e magazzini di commercianti. Il tutto avvolto da un pallido ma onnipresente velo di coloniale e d'antico.

Ho fatto appena in tempo a mettere giù i bagagli che sono già in strada a passeggiare, ad annusare, ad assaggiare e ad osservare per cercare, a volte inutilmente, di afferrare e conservare, se non proprio di ricordare.

Oltrepasso una moschea davanti alla quale un gruppo di signori con vestaglie ampie e copricapi ricamati stanno seduti a chiacchierare su un semicerchio di sedie disposte attorno all’entrata. Vengo attratto dalle note della musica proveniente dall’interno di una food court, uno spiazzo delimitato che ospita numerosi ristoranti, in prevalenza cinesi, varie tavolate e un complesso musicale al centro. Rallento il passo. Come un ragno che si avventa su una mosca caduta sulla tela, mi viene incontro un signore piccolino con la pelle scura e dei baffetti neri e sottili.

“Solo un’occhiata...solo un’occhiata...Indonesia...”

“Come?”

Fa un cenno in direzione dell’orchestra e riprende il ritornello.

“Entra...un’occhiata...non piace...andare via...”

Il suo inglese non è buono, ma si vede che il numero è stato provato e riprovato.

“Eh, magari più tardi.”

“No...adesso...dai!”

Ha un sorriso delizioso, che mi attrae come se fossi un cobra davanti al piffero in cui soffia il suo incantatore. Lo seguo all’interno.

Riconosco la canzone, quante volte l’ho ascoltata a Kunming.

“Ma è cinese!”

“No! Indonesia...Indonesia...” insiste lui.

In effetti il cantante, che assomiglia alla mia “guida”, potrebbe essere indonesiano.

“Sì, ma sta cantando in cinese...”

“Indonesia...anche Cina, Malesia...lingua inglese...”

Ma di che sta parlando? Ci saranno altri complessi?

Poi mi accorgo di un disallineamento tra i nostri sguardi. Mentre il mio fino ad ora stava fisso sul cantante, il suo copre ad intervalli regolari lo spazio che separa me e un gruppo di spettatori, seduto attorno a tre tavolini in metallo. Si tratta anzi di spettatrici. La mia confusione dura soltanto altri due secondi. Poi faccio le somme tra i vari fattori. Indonesia, Cina, lingua inglese, occhiata, se non piace vai via: è un magnaccia!
“Ahhh, no grazie. Non mi serve. Arrivederci...”


lunedì 31 marzo 2008

L’isola delle sorprese. Tioman - Malesia, 31 marzo 2008

La procedura di imbarco sul ferry che da Mersing, sulla terraferma, porta all’isola di Tioman, è da raccontare nel dettaglio.

Dopo aver prenotato il viaggio, dall’agenzia ci portano al molo con un furgoncino. All’uscita dal mezzo l’autista ci chiede di esibire il biglietto per la barca, strappa il talloncino più piccolo e se lo mette in tasca. Restiamo un po’ sorpresi ma accettiamo in silenzio, prendiamo i bagagli e ci avviamo. Ci presentiamo allo sportello dell’operatore, dove una ragazza, che per colmare le lacune del suo inglese sorride in continuazione, ci controlla nuovamente il biglietto (la parte che abbiamo conservato) e ci fa compilare un modulo con i campi del nome, della nazionalità, il numero di passaporto e le altre generalità.

“Nel caso affondassimo...” commenta ironicamente un turista inglese.

Quando arriva l’ora dell’imbarco il cancello si apre e una fila di tre addetti si apposta per controllare nuovamente i biglietti. O almeno così ci sembrava.

Scopriamo invece che ad ognuno dei tre è stata affidata una mansione diversa. Il primo effettivamente controlla il biglietto e ci consegna un tesserino giallo valido per una tratta semplice. È la stessa ragazza che ci ha fatto compilare il modulo, a cui tocca quindi controllare il biglietto due volte nel giro di cinque minuti.

Il secondo intercetta nuovamente il foglietto che ognuno, credendo che ne abbiano abbastanza, sta per rimettersi in tasca, e ne strappa un lembo per invalidarlo.

Il terzo infine, in piedi ad un solo metro dalla ragazza che ci aveva consegnato il talloncino giallo, ce lo ritira per certificare l’avvenuto imbarco. Il cedolino ci è rimasto tra le dita per un tempo talmente breve che viene quasi voglia di tenerlo stretto tra le dita un altro po’, senza consegnarlo.

Dopo le tre fasi di questa sequenza, i turisti si incamminano sulle assi di legno del pontile, con un sorriso incredulo tra le labbra.

Riassumendo: l’agenzia vende il biglietto composto da due parti. L’autista del furgoncino lo controlla e strappa il cedolino più piccolo. Allo sportello il biglietto viene verificato nuovamente al momento del riempimento del formulario. Al cancello dell’imbarco una fila di tre addetti si occupa 1) di verificare per la terza volta il documento di viaggio, consegnando in caso di riscontro positivo un ulteriore talloncino, 2) di strappare un lembo al biglietto, e 3) di ritirare il tagliando appena consegnato.

Non male, ricorda la procedura da seguire per salire in un treno nella Cina Popolare. Lì uno se la spiega con l’esigenza del governo di dare un lavoro, o meglio uno stipendio, a qualche centinaio di milioni di cittadini. Ma in Malesia? Chissà...

Sbarchiamo alla spiaggia ABC, uno spiritosissimo acronimo per il nome malay della località. I malesiani, come i singaporiani, sono dei grandi amanti di acronimi, sigle e abbreviazioni. Probabilmente più degli stessi americani, che cercano costantemente di imitare.

ABC è solo l’ennesimo di una lunga lista. KL è ovviamente Kuala Lumpur, la capitale. JB è Johor Bahru, la città che fronteggia Singapore sul lato malese dello stretto. KLCC è il complesso del Centro conferenze, che comprende anche le torri Petronas, a cui spesso ci si riferisce con la stessa sigla. KLIA è l’aeroporto internazionale principale, ma LCCT è quello utilizzato dalle compagnie low cost, la più importante delle quali è Air Asia, la Ryan Air d’oriente. E così via.

Qui si cerca di abbreviare tutto. I nomi originali sono alle volte un po’ lunghetti e non c’è tempo sufficiente per pronunciali interamente. Come dare torto ai poveri malesiani? Provate per esempio a dire: Kuala Lumpur convention centre. Quando ce l’avrete fatta la conferenza potrà nel frattempo essere già terminata.

Qualcosa di ancor più fastidioso potrebbe capitarvi poi se al check-in per il vostro volo vi salta in mente di pronunciare per intero Kuala Lumpur International Airport o Low Cost Carriers Terminal.

Ma a parte tutto l’isola di Tioman è davvero bella.

L’acqua è calma e limpida e persino sporgendosi dal parapetto del molo a cui ha attraccato la nostra barca è possibile restare incantati ad osservare i variopinti branchi di pesci che sfrecciano, avanzano, si voltano tutti assieme e tornano indietro, fuggono spaventati da chissà cosa, o procedono stancamente, senza mai rompere le fila, con movimenti sincronizzati, comandati da un solo cervello, rimodellando di volta in volta con armonia la forma della loro “bolla”.

La marea è bassa, non vale la pena nuotare ma si può comunque restare immersi a pancia in su, fluttuando dolcemente, con lo sguardo rivolto verso l’isola, da principio per controllare la borsa lasciata incustodita in riva, ma poi scordandosene facendosi catturare dalla bellezza della foto che, dal basso verso l’alto, si sviluppa con una striscia di arena luccicante, seguita da una fila di palme e altri alberi a foglia larga, dalle fronde di un verde talmente vivido da sembrare saturato in maniera artificiale. Fila interrotta qua e là dal riquadro rosso-marrone di un bungalow, che da queste parti chiamano chalet. Un po’ più in alto scorre la fascia frastagliata e fuori fuoco delle colline retrostanti, avvolta dalla schiuma delle nuvole color panna che macchiano il cielo opaco, gonfio di umidità.

Ad ammirare il profilo di Tioman ci si scorda quasi di essere immersi, fino a quando una scossa di nervi ci mette in allarme, ricordandoci che l’acqua, pur caldissima, ci ha sottratto calore per quasi un’ora. Ci alziamo, camminiamo con cautela cercando di evitare i ciottoli che riusciamo a scorgere attraverso la superficie trasparente, ma qualche ondina maligna ci sbilancia e cominciamo ad avanzare come su un letto di braci, emettendo urletti imbarazzanti ogni volta che un piede si poggia su una pietra o su un pezzo di corallo.

Arrivati in riva ci voltiamo e ci accorgiamo con meraviglia che è come se qualcuno avesse premuto sul telecomando il tasto “+” del controllo dei colori. La U della baia si esibisce in pose diverse cambiando abito ogni cinque minuti, mentre il cielo da celeste-grigio, seguendo una sequenza impensabile di tonalità sfumate, finisce per diventare nero-viola.

Ma a questo punto noi stiamo già seduti al tavolo del ristorante in riva, pronti a dare l’assalto al piatto succulento che il cameriere malay ci poggia davanti. Circondato da una collinetta di patatine fritte e da un altopiano di verdure cotte in una salsa di curry piuttosto piccante, sta steso a pancia in su un grande trancio di tonno, pescato in giornata.

In questo locale servono pure la birra, nonostante i divieti pubblicati su enormi cartelli che proibiscono ai malay di consumare, comprare o persino vendere birra, liquori o qualsiasi altra sostanza intossicante. Pena prevista un multa non troppo elevata e la somministrazione di un buon numero di frustate con il rotan. Una canna che provoca delle ferite a carne viva molto dolorose, come documentato dal video-shock di un’esecuzione, che venne pubblicato anche dai quotidiani italiani alcuni mesi or sono.

Allo stesso tavolo stanno seduti anche una ragazza giapponese e un canadese che insegna inglese a Nagoya.

Il proprietario del locale, un malay sveglio dalle orecchie lunghe, mentre passa a raccogliere i piatti sporchi coglie al volo un nostro commento su alcune pratiche sospette adottate dalle agenzie turistiche nella città di Mersing, da dove partono i collegamenti con l’isola.

Sia l’autobus proveniente da Malacca che quello partito da Kuala Lumpur con cui è arrivato il canadese si sono fermati a sorpresa davanti ad un’agenzia turistica, ben prima di arrivare al capolinea. Dopo una breve telefonata effettuata dall’autista malay, un cinese sorridente è salito ad annunciare che chi era diretto all’isola poteva fermarsi qui per sbrigare le pratiche di imbarco per il Ferry. Una volta che ci si rende conto di essere all’interno di un’agenzia e non alla biglietteria del molo, il sospetto si trasforma in realtà.

Questi furbi esercenti allungano una mancia agli autisti degli autobus provenienti dalle località più popolari del paese, ottenendo in cambio lo “sgancio” all’entrata del loro negozio dei turisti ignari, che confusi e stanchi si faranno magari convincere non solo a comprare il biglietto per il viaggio in barca ma pure a prenotare un bungalow presso una delle strutture “consigliate”.

Il proprietario del ristorante conferma la tesi e ci rovescia addosso tutta la sua frustrazione. Si rammarica per il fatto che le autorità non fanno nulla per evitare che queste “sanguisughe” intercettino una parte importante degli introiti del turismo che arriva sull’isola.

“Si prendono percentuali altissime per le stanze che riescono a far prenotare, facendo quindi lievitare i prezzi e costringendo per giunta gli operatori dell’isola a ridurre i propri incassi.

Io da loro non accetto nessuna prenotazione, ho solo pochi chalet e riesco quasi sempre a riempirli senza il loro aiuto. Ma sono in molti qui a rivolgersi alle agenzie di Mersing, le quali alla fine si accaparrano una fetta troppo grande della torta, senza peraltro contribuire, come facciamo noi qui, alla preservazione dell’ambiente e allo sviluppo delle strutture e della qualità del servizio offerto. Ma il governo dove sta?”

All’inizio abbiamo cercato di intervenire con qualche commento, ma il ristoratore è un fiume in piena e finiamo per trascorrere vari minuti ascoltandolo in silenzio. Alla fine si accorge di essersi lasciato risucchiare in un monologo. Sta in piedi, con una pila di piatti sporchi accatastati su un avambraccio, mentre l’altro si agita nell’aria. Si ferma e ci osserva in silenzio per qualche secondo.

“Scusate, a volte parlo troppo.”

“No, no. Si figuri. A noi interessa sapere anche queste cose.”

Ma lui, da bravo oste, sa che le chiacchierate con i clienti devono essere brevi e possibilmente divertenti, quindi ci sorride, si scusa di nuovo e torna in cucina.

Quando poche ore fa la barca stava per approdare a Tekek, la fermata che precede quella di ABC, mentre quasi tutti con le fronti incollate al finestrino ci eravamo lasciati andare ad ammirare la bellezza del paesaggio, l’apparizione da dietro le palme di un aeroplano in fase di decollo ci ha strappato dai nostri sogni di tramonti tropicali e nuotate tra pesci e coralli, lasciandoci di stucco.

Ebbene sì. Questo paradiso del golfo del Siam, senza una strada, in cui per andare da una spiaggia all’altra bisogna spesso salire su una barca, ha un aeroporto!

E questa non sarà l’unica sorpresa che ci riserva l’isola di Tioman.

Durante il pranzo presso il semplice ristorantino di un bungalow resort, proprio da dietro a me arriva una coppia di ragazze danesi accompagnate da un signore europeo che si rivolge al proprietario.

“Queste sono le due ragazze che hanno prenotato un bungalow per oggi.”

Mentre le ragazze vengono accompagnate al loro chalet, il signore se ne va. Poi le due danesi tornano al ristorante, si siedono e ordinano il loro pranzo. Quando hanno finito si alzano e si avviano verso la cassa per pagare. Vengono quindi intercettate dal signore che è riapparso all’improvviso nel locale.

“Ciao ragazze, posso sedermi con voi a fare quattro chiacchiere?”

“Ah, purtroppo noi stiamo uscendo.”

“Beh, non fa niente. Fatemi sapere allora se volete che vi presti le maschere e le pinne. Ciao.”

Osservo bene quest’uomo di mezza età. Indossa una magliettina polo in raso grigio e un paio di bermuda con disegno scozzese in tinta rosso-blu. Ha la pelle abbronzata e lentigginosa, è completamente pelato e porta un baffetto fino, che non capisco se sia biondo o bianco. Il viso è sottile e lungo, i suoi tratti sono molto dignitosi, quasi aristocratici. Mi ricorda vagamente il signor Higgins, l’amico di Magnum, l’investigatore impersonato da Tom Selleck nella famosa serie americana ambientata alle Hawaii.

Le ragazze se ne vanno e Higgins si va a sedere al loro tavolo, che non è ancora stato sparecchiato. Prende uno dei due piatti e svuota gli avanzi di frittata sopra il riso al pollo rimasto sull’altro.

Ma che sta facendo? Da una mano a riordinare? Ma chi glielo fa fare?

Afferra le posate, e in perfetto stile asiatico comincia a spingere con la forchetta il cibo all’interno del cucchiaio, e poi se lo mette in bocca. Assume una posa da perfetto galateo, con la schiena dritta, le spalle spinte indietro e gli avambracci poggiati con eleganza sul bordo del tavolo. Mastica lentamente, trentacinque volte, prima di deglutire con un movimento quasi impercettibile la sacca di impasto farinoso che gli è rimasta sul fondo del palato.

Poi aspetta, si rilassa, alza lo sguardo e osserva le colline davanti a sé, si volta dunque verso il molo alla sua destra e pensa, sogna, si ricorda. Di quando aveva trent’anni, lassù in Scozia, nel castello in riva al lago, seduto al vecchio tavolo in ciliegio già appartenuto al suo trisavolo, il conte William Francis Higgins, il cui ritratto, appeso vicino al camino, sovrastava l’enorme sala. Di quando ancora aveva i soldi per permettersi il servo indiano, che gli portava il vassoio col coperchio a cupola in argento, al centro del quale stava spaparanzato il fagiano che aveva centrato al petto la mattina presto, durante una superba battuta di caccia nel bosco di castagni, con i suoi amici duchi e visconti.

E gli sembra ancora di sentirla in bocca quella carne tenera e saporita, il leggero retrogusto metallico proprio lì vicino al foro in cui era passato il colpo, uno dei migliori che avesse mai tirato.

Lo sguardo dal molo torna di nuovo sul piatto, davanti a lui. Potrebbe prenderlo lo sconforto, per ciò che c’è dentro, per quel che sta facendo; è invece l’appetito ad avere il sopravvento. William Francis Higgins terzo scrolla le spalle e spinge in avanti il mento, arcuando le labbra in un broncio di superiore indifferenza.

“A gratis, pure ‘sto pollo fritto non è poi così male”, liberamente tradotto dall’inglese forbito con cui, anche in un ambiente come questo e con i tempi che corrono, non riesce proprio a fare a meno di esprimersi.

Ci rimette dentro le posate e ricomincia da dove aveva interrotto: la cucchiaiata, le trentacinque masticate e l’ingoio calmo del serpente. Poi fissa il tavolo, senza fretta, non come uno che sta cercando di sbafarsi gli avanzi di nascosto, ma piuttosto come un cliente che cerca di gustarsi con calma il piatto a cui anelava da qualche ora e che ha appena ordinato.

Il ristoratore non arriva. Higgins fa in tempo a mangiare l’abbondante porzione di riso, frittata e carne che è riuscito a mettere assieme. Tira anche un paio di sorsi da una cannuccia che si infila in un succo d’arancia. Poi si pulisce la bocca con una salvietta riciclata, si alza, sistema la sedia sotto al tavolo, e se ne va. Sempre con calma, come se niente fosse. Senza curarsi di chi nel locale lo sta osservando. Senza apparentemente essersi mai preoccupato di un’eventuale comparsa del proprietario nella sala.

Tutto ciò nel giro di sole ventiquattr'ore.

All'inizio sembra graziosa ma un po’ noiosa l'isola, invece...