lunedì 26 novembre 2007

Natale tropicale. Bangkok - Thailandia, 26 novembre 2007

Manca un mese a Natale. C’è una tazza di caffè bollente sul tavolino di fronte a me e in sottofondo vengono diffuse le musichette di rito. Accovacciato nel soffice divanetto del caffè, col grosso libro in mano e i venticinque gradi dell’ambiente, ci potrei restare per ore.

Eppure in questa circostanza le note di White Christmas e Silent night sembrano quasi la colonna sonora di un film comico, se non demenziale. Non perché si tratta di cover jazz o gospel dei pezzi classici, ma semplicemente perché il locale è una riproduzione di un caffè viennese piazzata nel centro di Bangkok. E l’atmosfera dell’ambiente è controllata per mezzo di un efficiente sistema di condizionatori. Non certo dal caminetto finto, illuminato dal rosso dei tizzoni elettrici.

La prima volta che ho trascorso un Natale “fuori stagione” è stata una decina di anni fa. In Argentina, un paese in cui a volte può fare molto freddo. Ma in luglio magari, non certo a dicembre.

Buenos Aires è una città in cui la gente, tornando con la pelle scottata da una giornata di sole in piscina o al parco, passa di fianco a poveracci sottoposti a saune forzate all’interno di pesanti costumi da Babbo Natale e barbe in fibre sintetiche. Costretti a suonare campanacci all’entrata di negozi dalle vetrine decorate con neve spray e disegni di alberelli, renne, candele e comete.

A distanza di dieci anni il Natale ai tropici non mi stupisce più, ma il suo effetto comico non è svanito.
E mi scappa ancora da ridere quando in un ristorante di Kuala Lumpur, ad un tiro di schioppo dall’equatore, osservo una decina di pacchetti finti ai piedi di un alberello in plastica con le decorazioni e le lucine. Mi trattengo fino a quando un gruppetto di turisti svedesi (svedesi!) posa per le foto accanto all’angolino alpino mentre all’esterno, dietro alla vetrina alle loro spalle, una ragazza con la pelle scura, in minigonna e top attillato, accavalla le belle gambe scoperte, mentre si gode lo sbuffo del vapore fresco che il ventilatore le soffia addosso.
Fingo di tossire mentre mi copro la bocca per nascondere la risata.

Passate un buon Natale. E se siete da queste parti...scopritevi bene.

domenica 18 novembre 2007

Mak Nyahs, orgoglio e voce grossa. Kuala Lumpur - Malesia, 18 novembre 2007

Attraversano la strada, schizzando da un marciapiedi all’altro. Dal minimarket all’entrata dell’hotel. Dall’ingresso del vicolo alla curva della strada. Sempre un po’ affrettati, con la schiena dritta e il mento alto. Come le dirigenti delle multinazionali, che di mattina, poco prima delle nove, coprono di gran lena la distanza tra la fermata della monorail e gli ascensori dell’azienda.

Ma è quasi mezzanotte e loro non sono né dirigenti né donne, nel senso stretto del termine. Sono i mak nyahs, i transessuali malesi, che non si impegnano molto per apparire ciò che non sono. Quest’area di Kuala Lumpur – Bukit Bintang – non è il Golden triangle, dove i transgender thailandesi o filippini ronzano attorno al Beach club, confondendosi tra le prostitute. Qui nessun occidentale scambierebbe mai, nemmeno dopo una serata di whisky e canne, un travestito per una ragazza alta e bella.
Voce grossa, spalle larghe, niente forme. E tanto orgoglio, tanta voglia di apparire perfettamente inseriti e dignitosi. I mak nyahs ce l’hanno scritto sulla faccia e sulle falcate: I belong here. Un desiderio sfrenato di accettazione e rispetto. Sembra un triste segnale: maggiore la smania, più forte la frustrazione.
Ci sarà chi, credendo di poter spiegare qualsiasi fenomeno sociale puntando il dito sugli “altri” o sulla “collettività”, dirà che il loro comportamento è una reazione al contesto, ad una società che se da un lato diventa più ricca, dall’altro si fa superficiale e borghesotta. Forse. Molto probabilmente questo c’entra qualcosa.
Altri per anni hanno fatto circolare una leggenda, smentita da alcune recenti ricerche, secondo la quale i transessuali sarebbero vittime di famiglie musulmane che dopo una lunga serie di figli maschi educano l’ultimo genito come se fosse una bambina.

Ma tutto ciò non conta molto, forse niente. Perché questa non è soltanto la percezione dei mak nyahs, o un sistema di relazioni sociali che si può cambiare con un po’ di buona volontà e tolleranza. Questa per loro è la realtà, per niente virtuale. Un marchio, un dato di fatto. Sono loro stessi il dato di fatto.

E quella disinvoltura affettata, quella posa teoricamente dignitosa, invece di mimetizzarli li mette ancor più in evidenza. E’ un po’ come osservare degli esquimesi nel deserto. Di certo più fuori contesto dei loro colleghi (in quanto a prostituzione) stranieri del beach club. I quali magari ti si avvicinano e ti ammiccano, ti tirano un bacio o un pizzicotto, ti mettono in imbarazzo e a volte ti infastidiscono. Ma mai ti fanno pensare che stiano cercando una dignità diversa da quella che si auto riconoscono nell’ambiente che frequentano.

Questo può piacere o no. Non credo sia importante. Alla fine è l’effetto che conta. In fondo è la loro realtà, non la nostra.

domenica 11 novembre 2007

Golden triangle, quartiere metamorfico. Kuala Lumpur - Malesia, 11 novembre 2007

Dal ventiquattresimo piano a terra l’ascensore sembra precipitare, piuttosto che scendere. Col cambio repentino di altitudine si sono persino tappate le orecchie.
Da qualche mese questi siluri sostituiscono quelli che, durante le ore di punta, costringevano centinaia di persone ad attendere al piano per vari minuti, prima di poter finalmente andare a pranzare o tornarsene a casa.
Ma il rinnovo del parco ascensori non è stato di certo l’unica opera di rinnovamento effettuata nei dintorni, e nemmeno la più rilevante.

Esco dall’edificio e al posto di un salotto-bar per amanti del sigaro, un’impresa fallimentare durata poco, mi ritrovo davanti un nuovo ristorante indiano. Viro a destra ed ecco lì uno dei punti di riferimento fissi della zona, il palazzo bianco dell’Ascott. No, un attimo. L’Ascott sta dietro queste due enormi costruzioni, probabilmente non ancora inaugurate, che sono spuntate lì dove soltanto quattro anni fa prosperava un altro ristorantino, sostituito da un parcheggio dal ciclo di vita di una zanzara e infine dal Rum Jungle.
Il Rum Jungle, l’hanno chiuso quindi. Saranno contenti quelli che non sopportavano le iperboli vocali di quel dj buffone dall’accento marcato che, dato che il locale era all’aperto, rimbombavano in tutto il quartiere.
Macché. Svolto all’angolo e il Rum Jungle me lo ritrovo qui. Lo hanno semplicemente spostato all’altro lato della strada. Spostato e rinnovato, ovviamente. Piscina per squaletti dalle pinne nere (veri), ampia zona per divanetti, lungo bancone del bar e vasta pista da ballo. Nonché le note gracchiate dal dj buffone che continuano a rimbalzare tra le torri, nuove e nuovissime, ficcate nel circondario come bombe inesplose in un campo di battaglia.
Vediamo. Nel raggio di mezzo chilometro ci sono: alla mia sinistra i due enormi palazzi per le nuove Service residence che nascondono l’Ascott. Un altro grattacielo in costruzione dietro al Rum Jungle. Oltre l’Ascott un paio di nuovi hotel, ovviamente altissimi. Alle mie spalle, appena prima delle Torri Petronas (già datate, avranno almeno dieci anni...), ci sono altri due grandi edifici in costruzione. Poi le appendici al KLCC aperte da poco, hotel di lusso e affini. E così via.
In una smania di edificare, demolire e ricostruire, rinnovare, ridipingere, sostituire, azzardare, chiudere, rilevare, cambiare, in cui questa e altre zone della città faticano a trovare il loro equilibrio, a fissare i loro tratti distintivi.
Come un viso nemmeno tanto vecchio, sottoposto mese dopo mese a lifting, stiramenti, colorazioni, getti di vapore, trattamenti tonificanti, massaggi, applicazioni di cere, creme, lozioni, essenze, esposizione a raggi, immersioni in atmosfere a temperatura e umidità controllate, cambiamenti, restyling e quant’altro. Ma chi lo riconosce quel tizio, quando torna dopo un periodo di assenza?

Passato il Rum Jungle mi aspettano un ventina di metri di calma prima di arrivare all’Aloha, l’ultimo entrato nella lista dei pub a tema esotico, un posto abbastanza nuovo a cui mi sono quasi abituato. Ma quale calma? Tra i due pub l’amministrazione comunale ha fatto costruire una specie di chiringuito adibito a bagno pubblico.
Subito dopo l’Aloha, apparentemente inalterato, è la volta di Modesto, il ristorante italiano. Sempre lì, da anni ormai, a rappresentare la tradizione nostrana che, almeno quella, non cede il passo ad altre mode passeggere. Sì, ma con delle riserve. Anche Modesto ha infatti visto i suoi periodi blu, rosa, rosetta e azzurrino. Quattro anni fa due sale ristorante: una all’aperto con grande schermo per F1 e calcio e una interna con aria condizionata per pranzi d’affari o cene d’atmosfera. Nel sotterraneo invece una discoteca in cui ragazze musulmane arrivavano vestite da scolarette, con dei vestiti da lap dance nascosti negli zainetti. Un salto in bagno e via a dimenarsi su una piattaforma trasparente sospesa sopra al bancone del bar, da dove sfoggiare la biancheria intima firmata che sbircia a tratti da sotto le minigonne.
Più recente invece l’apertura di un’appendice chiamata Uno, un bar con musica dal vivo. Quindi lo spostamento della sala ristorante interna in un ambiente ricavato tra le due strutture. E la sala così evacuata, obsoleta dopo ben due o tre anni di servizio senza alcuna alterazione architettonica, in fase di ristrutturazione per diventare più colorata e solare.
Non ho ancora capito se la catacomba del peccato sia stata chiusa o no. Ma che importa, questo è un posto in cui bisogna perdere in fretta il vizio di catalogare i locali pubblici e le attività commerciali in un personale stradario mentale della città. Le edizioni, le revisioni e le ristampe si rincorrerebbero ad una velocità insostenibile.

Dopo Modesto ecco Maredo, il ristorante di carne argentina che resiste alle rivoluzioni urbanistiche da ben due anni! Fu sistemato in una piccola struttura fatta edificare per ospitare un ristorante di salsicce tedesche, che qualche creativo aveva deciso di piazzare proprio di fianco ad un caffè americano, su un angolo del cortile del Crown Regency, un altro blocco di Service apartment. Palazzo storico quest’ultimo. Praticamente un’istituzione. Credo rischi di essere addirittura più vecchio delle Torri Petronas. Un po’ come il Beach club, il disco-pub ad alta concentrazione di prostitute filippine e turisti stranieri, che con le note festanti di questo sodalizio multiculturale apre in allegria via Jalan P. Ramlee. Questi sono diventati ormai dei reperti storici, sviluppatisi in un’era precedente – la seconda metà degli anni novanta – sulle macerie del vecchio ippodromo. Demolito per far spazio al Golden triangle, il business district di Kuala Lumpur, la punta di diamante della Malesia che cresce. Così come il nuovo aeroporto e il corridoio multimediale, che interseca Putrajaya e Cyberjaya, le nuove cittadelle – amministrativa e tecnologica rispettivamente – dai nomi in bilico tra passato e futuro.

Per un benvenuto a questo quartiere metamorfico si potrebbe parafrasare lo slogan dipinto sui pannelli di legno che coprono i lavori in corso per i nuovi ristoranti del centro commerciale alle torri Petronas: “C’è sempre qualcosa di nuovo a KLCC...”.

Già, c’è sempre qualcosa di nuovo al Golden triangle. Purtroppo non c’è rimasto più nulla di vecchio.
Ma chissà se di ciò se ne rammarica ancora qualcuno.

venerdì 9 novembre 2007

H., la donna araba. Kuala Lumpur - Malesia, 08 novembre 2007

E’ giorno di festa in Malesia. Il Deepavali è una delle occorrenze più importanti nel calendario della comunità hindu. In Malesia, tralasciando quella ebraica, un po’ tutte le religioni sono rappresentate e rispettate. Scuole, aziende e uffici statali si fermano così per celebrare il Ramadan, il Deepavali e ovviamente anche il Natale.
Tutti i miei studenti sono stranieri, a nessuno interessa fare festa oggi e perdere poi un sabato per recuperare la lezione. Siamo regolarmente in classe, oltre a noi però non c’è nessuno. Nemmeno chi di solito ci porta il pranzo, incluso nel prezzo di iscrizione al corso.
Alle dodici e mezzo interrompo la lezione e porto tutti alle Torri Petronas. Scegliamo un bel caffè coi tavoli all’aperto, investiti da soffici sbuffi d’acqua. Un bel posto da cui ci si può godere una vista privilegiata della nuova skyline del Kuala Lumpur convention centre, oltre ai giochi d’acqua delle fontane del complesso. Dietro agli zampilli si scorgono le cupole della moschea, costruita anch’essa con i materiali hi-tech e quelle linee un po’ moderne e un po’ islamiche delle torri.
I camerieri accostano tre tavoli per farci accomodare e noi ci sediamo. Non tutti però, manca Huda. Sarà andata al bagno.
Dietro a noi c’è un tavolino. Ci sta seduta una persona da sola, con il vestaglione nero delle donne arabe e un velo sulla testa da cui spunta un viso paffuto e simpatico, anch’esso scurissimo. Inconfondibile: è Huda. Viene dall’Oman, ma probabilmente ha origini africane.
Mentre noi ci scambiavamo cortesie per scegliere il posto, lei quatta quatta, attenta a non farsi notare, è scivolata verso un tavolino dalla vista occultata, proprio quello che faceva al caso suo. Di fronte a lei, all’altro capo del tavolo, silenziosa e compunta, si alza una massiccia colonna dal profilo di metallo opaco.
Io faccio finta di niente e maschero un leggero imbarazzo dietro al menu. Faccio finta di niente; e non faccio niente, perché conviene non fare niente. Tutto attorno a me si agitano mani. Quelle minuscole e ansiose di Carmen, che si affanna per invitare Huda ad unirsi a noi. Il palmo di Huda che si allunga in avanti, come per creare una distanza o semplicemente per dire di girarci e di scordarci che esiste. Le mani forti di Alexander, lo studente di Zagabria, che stringono i braccioli della sedia mentre la sua testa si volta nervosa verso la compagna auto-emarginata, per poi tornare a fissare il coperto, strizzando le labbra e gonfiando le gote. Facciamo qualcosa? E’ la domanda che sembra ronzargli in testa. Ma cosa?
Le dita degli uomini arabi scorrono lungo le liste dei piatti di pasta, di insalate e dell’ampia offerta di sandwich e gourmet pie. Sereni, imperturbabili. Huda si è seduta da sola? Embè? Direbbero alcuni di loro. Huda...Huda chi? Chiederebbero gli altri.
Non c’è molto di cui stupirsi. Io mi ero anzi sorpreso quando l’avevo vista seguirci verso l’ascensore. Ma come, tutto ad un tratto decide di mangiare con noi?
Ogni giorno infatti, mentre pranzo assieme ad Alexander il croato e Jerry l’indiano, con gli uomini arabi seduti tra loro, Huda, quando non mangia assieme a Carmen, se ne sta da sola. Fin dal primo giorno del corso ha individuato il suo posto presso l’unico tavolino appoggiato alla parete. Forse sistemato a quel modo su sua specifica richiesta. Non vedo infatti altri motivi perché debba esserci un tavolo in quella posizione. Non mi era mai capitato di notarlo, quando ero venuto qui ad insegnare in passato.
E quindi, quando non è impegnata ad osservare il piatto o il cibo che si porta alla bocca e alza la testa, Huda non può far altro che fissare il muro.
Credo che tutto ciò sia dovuto a una regola che proibisce alle donne arabe di pranzare assieme agli uomini. La maggior parte dei musulmani in estremo oriente questa regola non la osserva. Gli arabi apparentemente sì.
Basta vedere la disinvoltura con cui i miei studenti sauditi affrontano senza imbarazzo la scena che ci si presenta davanti. Come alla fine si alzano per recarsi alla moschea senza degnare Huda di uno sguardo.
Quando gli uomini sono già lontani lei si alza, e mi sembra di vederla chinare leggermente il capo come per accomiatarsi dall’altro commensale, che sarebbe la colonna. Ci saluta e si avvia lentamente per unirsi ai suoi fratelli in preghiera.
Huda silenziosa. Huda solitaria, seduta davanti al muro. Huda del Sultanato dell’Oman, la donna araba.