martedì 25 ottobre 2005

La realizzazione di un compromesso impossibile. Shanghai - Cina, 25 ottobre 2005

Il viaggiatore è appena arrivato. Fiancheggia un bel palazzo che oggi, come un tempo, ospita di nuovo una banca straniera. Si ferma, getta la testa all’indietro e chiude gli occhi. Inspira a fondo e lentamente. Come cambia in fretta il profumo della libertà. La settimana scorsa a Bangkok, poi Hong Kong e Macao, due giorni fa Xiamen e ora Shanghai. Aerei, navi, corriere e treni.

Aceto e coriandolo. Oggi la libertà profuma di aceto e coriandolo. Riapre gli occhi, si concentra e poi riparte. Svolta l’angolo e si immerge in un sottopassaggio che brulica di mendicanti. La banconota che cade ai loro piedi mostra il volto di Mao, l’eroe del popolo che avrebbe dovuto salvarli. Non c’è riuscito, ma in fondo lo ammette anche la linea ufficiale del partito: il grande leader ha avuto ragione soltanto per il 70%.

Il viaggiatore riemerge in superficie per salire gli scalini del Bund. Si ferma lì, con lo sguardo oltre il fiume, verso la sponda di Pudong. Finalmente l’ha vista, le fa una foto e senza rendersene conto ne ha già scattate altre dieci. E’ la faccia rifatta della Cina che va ai mille all’ora, il paese dei nuovi cosmonauti, la prima donna, la nuova frontiera del millennio appena nato. E' al contempo il dragone di cui molti temono il futuro e la vacca che, per consolarsi nel presente, un po’ tutti vengono a mungere.

E’ la skyline della città nuova, con la torre della TV, il pungiglione del Jinmao, i grattacieli con gli uffici delle multinazionali e gli hotel di lusso. Il viaggiatore si ricorda di qualcosa che ha già visto. Forse a Singapore, o era Hong Kong? Se sfronda la scena di quei riflessi sull’acqua, potrebbe anche immaginare di stare di fronte ai distretti d’affari di Kuala Lumpur, Giakarta o Bangkok.

Eppure sa che non è la stessa cosa. Non era questo il gigante che non bisognava svegliare? Tende l’orecchio e ascolta, percepisce suoni non sempre familiari, ma di una cosa è sicuro: il gigante non russa. Il paese non dorme più, e un numero sempre più elevato di cinesi, fin dall’alba, sono già lanciati nella corsa per diventare ricchi. E' questo l’obiettivo glorioso indicato loro niente meno che da un altro grande leader: Deng Xiaoping.

Bund, questo termine inglese, non già come Shakespeare ma più simile a Kipling, coniato nelle Indie orientali, tra spezie ed elefanti, per descrivere un argine infangato. Anche Shanghai infatti, come l’India, ha un passato che sa di colonia. Di commercio e di soprusi, di battaglie e di eroi nazionali, figure immense, protagonisti di successi e disfatte, seminatori di speranza e terrore.

Un quarto di secolo di regime maoista non è bastato a cancellare l’impronta dell’occidente a Shanghai, una città che prima delle guerre dell’oppio e dell’arrivo dei britannici era soltanto un villaggio di pescatori. La concessione francese, il Bund, gli edifici in stile neoclassico, art deco e georgiano vengono oggi ripuliti e lustrati, esibiti orgogliosamente con tanto di descrizioni in inglese.

Ma la Cina ha anche scelto Shanghai per mostrare i suoi muscoli e per farne il simbolo del suo futuro glorioso. Oltre la sponda orientale del fiume Huangpu, proprio di fronte al Bund, l’intera area della nuova Pudong è stata rasa al suolo per far spazio agli elementi di quella skyline i cui riflessi sull’acqua si allugano come indici ammonitori verso il nostro viaggiatore. E’ il distretto che ospita la stanza dei bottoni del mondo finanziario cinese. Un centro che diventa ogni giorno più potente e che dovrebbe, nei piani delle autorità, raggiungere presto livelli superiori a quelli di Hong Kong, rimarginando così una ferita ancora aperta sull’orgoglio del paese.

Anche a Puxi, ad ovest del fiume, la città cambia volto ad un ritmo allucinante. Vi trova spazio il nuovo museo cittadino, ricco di reperti e hi-tech nel concetto. I centri commerciali di Nanjing Road, una luccicante e colorata via dei balocchi. E i ristoranti di lusso, i club esclusivi, i negozi di design e le gallerie d’arte del sofisticato complesso di Xintiandi. Un dedalo di viuzze tra le quali gli edifici del periodo delle concessioni sono stati rinnovati o ricostruiti. Tra di essi si aggirano, tra gli altri, i giovani rampolli dell’élite cinese. Indossano giacche dal taglio fino, portano acconciature già sperimentate in Giappone, i loro piedi sono fasciati dalle pelli più pregiate. Hanno già imparato ad assumere quell’espressione spregiudicata, sicura di sé e dei propri mezzi, che altri cinesi sfoggiano già da decenni nelle mete storiche della loro diaspora. Sono i figli dei membri della nomenklatura o degli uomini d’affari, coloro che stanno godendosi i frutti degli investimenti stranieri e dell’eccezionale boom economico del paese. Sono tra i pochi che da queste parti hanno il tempo - e le risorse - per dedicarsi allo sfizio delle griffe occidentali o alle nuove tendenze delle arti visive.

Nel bel mezzo di questo tempio della mondanità, di questo monumento al denaro e ai piaceri per pochi, è rimasto in piedi un piccolo edificio. Un po’ asfissiato, a guadagnarsi lo spazio a spallate tra tanto lusso, sembra la povera vittima di un’ironica coincidenza. Al suo interno nel luglio del 1921 un manipolo di sconosciuti visionari si riuniva in segreto, sfidando l’ira delle autorità, per fondare il partito comunista cinese. Sembra che tra di essi ci fosse anche un giovane rappresentante di una sezione di provincia. Il suo nome era Mao Zedong.

Benvenuti a Shanghai, questa è la Cina d’oggi: un posto in cui coesistono senza troppi drammi le pratiche di un capitalismo sfrenato e la retorica di un comunismo ormai morto e sepolto. E’ la culla di una nuova non-ideologia, di un compromesso assurdo.

Potremmo chiamarlo "capi-comunismo".

martedì 18 ottobre 2005

Xiamen - Cina, 18 ottobre 2005

L’impressione di ieri è confermata. La città è carina, alcuni palazzi sono molto belli ma con tutti i turisti che gridano e scorrazzano qua e là, il fascino di ieri notte è svanito.
A proposito, non ho visto nessun turista occidentale, ho l’impressione che io sia l’unico a non essere cinese. Continuo ad avere qualche problema di comunicazione. I cinesi non sembrano essere inclini a venire incontro allo straniero come quasi tutti i popoli che ho conosciuto nel sud-est asiatico.
Per fortuna al Centro di accoglienza per i visitatori incontro un paio di ragazzi che capiscono l’inglese e mi aiutano a sbrigare qualche faccenda. Mi faccio dare una mappa della città, compro una Sim card e anche un volo per Shangai per domani mattina.
Prendo il traghetto e faccio un salto in città dove cammino e scatto foto tra le viuzze del mercato, proprio a ridosso del lungomare.

lunedì 17 ottobre 2005

Xiamen - Cina, 17 ottobre 2005

Dopo alcuni giorni trascorsi a Hong Kong e Macau arrivo nella Cina vera e propria. La mia prima tappa è Xiamen, nella provincia di Fujian (Hokkien).
Alloggio a Gulang Yu, un isolotto di fronte alla città ver e propria. L’atmosfera è coloniale, la città fu uno dei 5 porti aperti al commercio con l’occidente con il trattato stipulato al termine della guerra dell’Oppio. Cammino per le stradine semi-deserte da solo, di notte e, come mi è già accaduto altrove, ho l’impressione che sarà il ricordo migliore che serberò della città.
A volte, svoltando un angolo e ritrovandomi in una piccola piazza racchiusa da case rosse o alzando lo sguardo e osservando un cornicione, mi sembra per un attimo di essere a Venezia.

mercoledì 12 ottobre 2005

Seul: il ritorno dei figli adottivi - Bangkok, Thailandia

Marie è una ragazza danese ma chi la incontra per la prima volta qui, tra le zaffate di smog e gli sbuffi di peperoncino fritto in un mercato di Bangkok, non lo direbbe affatto. Capelli lisci e neri, corpo minuto, il naso piccolo, gli zigomi sporgenti e gli occhi a mandorla: i suoi genitori l’adottarono quando aveva pochi mesi di vita, prelevandola da un orfanotrofio di Seul. Era la terza e ultima bimba coreana di cui decidevano di diventare mamma e papà.
Pur essendo cresciuta in Danimarca come una qualsiasi altra ragazza europea, è un po’ come se quel filo che la collega all’Asia non si sia mai spezzato. Ai tempi della scuola superiore Marie trascorse un intero anno in una cittadina del Giappone per uno scambio culturale. Alcuni anni più tardi lavorò per alcuni mesi come volontaria in un orfanotrofio a Nong Khai, una città thailandese al confine col Laos. Ora è a Bangkok per un periodo di pratica previsto dal corso per infermieri che sta frequentando a Copenaghen.
Un paio d’anni fa quel filo la portò alla tappa più importante del suo percorso in oriente. Con l’unico indizio del nome di un istituto di Seul stampato sui fogli dei suoi documenti di adozione, decise di mettersi sulle tracce dei suoi genitori naturali. Arrivata in Corea del Sud presentò i documenti ad un’impiegata dell’orfanotrofio. Quella rintracciò facilmente la corrispondente cartella nell’archivio e le comunicò con aria rassicurante che non era affatto un’orfana.
Continuando a scorrere tra le pagine del dossier le spiegò poi che al momento della sua nascita il padre aveva già quarantadue anni e lavorava come manovale in un’impresa di costruzioni. Le ristrettezze economiche in cui si trovava la famiglia, unite al fatto che in casa di bambine ce n’erano già tre, convinse la coppia ad affidarla all’istituto.
Quando chiese informazioni più precise sull’identità dei suoi genitori Marie si scontrò però con il secco rifiuto dell’addetta. In casi come questi la tutela del diritto all’anonimità è di fatto una prassi molto diffusa in Corea.
Durante la sua permanenza nella metropoli asiatica Marie ebbe modo di venire a contatto con la comunità dei “bambini” adottati all’estero che tornano nel paese natale alla ricerca delle loro origini. Una comunità variegata i cui membri sembrano avere in comune soltanto alcune caratteristiche somatiche e la missione che li ha portati lì. Persone di varie età, provenienti dagli angoli più disparati del mondo occidentale, che parlano una babele di lingue diverse. Anime che lasciano trasparire una serie infinita di impressioni, sentimenti, modi di vedere ed interpretare la loro situazione, il loro futuro, il loro rapporto con i paesi in cui sono cresciuti e con gli altri membri delle comunità in cui sono stati trapiantati.
Il governo sud-coreano ha considerato a lungo la pratica delle adozioni come un’importante fonte di introiti, incoraggiando benestanti coppie straniere ad inoltrare la richiesta per un bambino in cambio di un’ingente somma di denaro. E così, a partire dalla fine della guerra civile dei primi anni cinquanta, migliaia di famiglie hanno deciso per vari motivi di consegnare i loro neonati agli appositi istituti. Non solo orfani quindi, ma anche i figli di coppie non abbienti, o bambine nate in famiglie già ricche di figlie femmine, figli di ragazze madri, e persino figli illegittimi frutto di rapporti clandestini. Sono tutti andati a riempire le fila di un esercito di circa 250000 individui che sono stati cresciuti ed educati da padri e madri danesi, canadesi, italiani, australiani, in società prevalentemente occidentali, portandosi addosso le prove indiscutibili della loro origine asiatica. Un contrasto che, nonostante alcuni dei paesi ospitanti sbandierino queste realtà come delle storie di successo, ha generato non poche complicazioni, rintracciabili tra le frustrazioni e la rabbia negli ambienti della comunità dei “bambini” adottivi che si riuniscono a Seul.
Arrivano a decine o centinaia ogni anno e orbitano attorno all’istituto di provenienza e alle ONG che sono nate per difenderne i diritti. Una volta in Corea, in mezzo a tanta gente che ne condivide la sorte, si sentono finalmente liberi di esprimere quei sentimenti che si sono tenuti dentro per tanti anni. Ed è così che escono allo scoperto le frustrazioni di giovani uomini che generalmente non vengono considerati attraenti dalle donne del loro paese, la confusione di ragazze che si sentono spesso l’oggetto delle attenzioni di concittadini alla ricerca di un’esperienza esotica, il disorientamento di chi deve dare risposte contorte a semplici domande sulle proprie origini. O ancora il senso di alienzione di giovani che, pur avendo trascorso tutta la vita nel paese adottivo, si sentono ancora a disagio davanti all’immagine della bandiera o al testo dell’inno nazionale. Nei casi più estremi arrivano addirittura a negare ogni senso di appartenenza alla nazione che li ha accolti.
Gran parte del merito per la creazione di un ambiente che li mette a proprio agio va alle ONG, create nella maggior parte dei casi da elementi stessi della comunità. Queste organizzazioni forniscono assitenza per le operazioni di ricerca delle famiglie naturali e fanno pressioni sul governo di Seul per il riconoscimento di alcuni diritti degli adottati che ritornano. Tra le loro conquiste figurano i corsi gratuiti di lingua coreana e il rilascio di visti e permessi di lavoro su presentazione di domanda accompagnata dai documenti di adozione.
Alcuni di questi individui riescono effettivamente a rintracciare i genitori coreani, i quali spesso si rivelano curiosi e inclini ad incontrare quei figli che non hanno visto per anni, a volte dopo averli lasciati pochi minuti dopo la nascita. Superato l’imbarazzo iniziale le due parti cominciano ad osare e ad aprirsi, alla ricerca delle risposte con cui cercano di completare un puzzle che fino a pochi giorni prima non conteneva nemmeno un tassello.
Molto spesso durante i primi incontri non mancano le reazioni stupite all’aspetto “diverso” dei figli cresciuti all’estero. A causa del clima, della dieta e dello stile di vita differenti, i figli adottivi sono normalmente più grandi e robusti dei membri delle loro famiglie naturali, hanno un diverso colore della pelle e in alcuni casi persino la forma degli occhi sembra essersi “occidentalizzata” un po’. Non tutti gli incontri però hanno luogo senza generare qualche problema.
In alcuni casi la madre era riuscita in qualche modo a tenere il padre all’oscuro della gravidanza e della conseguente adozione. Alcune famiglie sono andate in rovina quando il figlio si è fatto vivo e l’ignaro coniuge è venuto finalmente a conoscenza della storia.
Altre volte invece il giovane che chiede di incontrare i genitori è il figlio di un rapporto extra-familare. In questi casi il padre, per evitare problemi con la famiglia legittima, nega la propria disponibilità o acconsente soltanto ad un incontro fugace e segreto.
Di recente Marie è venuta a sapere da altri membri della comunità che insistendo un po’ è possibile convincere gli impiegati degli istituti a fornire le generalità dei propri genitori. Ha deciso quindi di ritornare in Corea per riprovarci. Cercherà anche di contattare qualche giornale e di apparire in TV.
“Da un pò di tempo cerco spesso di immaginare come si svolgerà l’incontro”.
Proverà emozioni forti o, come invece è accaduto ad alcuni degli altri “bambini”, vivrà quei momenti con distacco e freddezza, come se quelle persone mai viste prima, che parlano una lingua diversa dalla sua, siano dei completi estranei, che nulla hanno a che fare con lei e con la sua vita, così come si è andata sviluppando dal giorno in cui è stata allontanata da loro.

“Non importa” dice come per troncare una conversazione con se stessa “vada come vada, basta solo che non si rivelino delle persone odiose o stupide. Quello proprio non riuscirei a sopportarlo”.
Ma Marie è una ragazza sensibile e in gamba. Si destreggia tra lo zig-zag dei toni crescenti e cadenti della lingua thailandese o tra le mitragliate piatte di quella giapponese con la stessa agilità con cui parla l’inglese e il francese. Se il buon sangue non mente, quando incontrerà i suoi genitori naturali non dovrebbe proprio rimanere delusa.