lunedì 15 agosto 2005

Kho Phi Phi: paradiso in restauro - Koh Phi Phi, Thailandia

Per chi c’è stato prima del 26 dicembre scorso le isole di Phi Phi, al largo della costa sud-ovest della Thailandia, sono il posto adatto per farsi un'idea precisa sugli effetti dello tsunami e sulle difficoltà connesse al processo di ricostruzione. Molto più della vicina Phuket, dove le tracce del maremoto sono evidenti ma sono, per l'appunto, solo delle tracce: qualche edificio in costruzione, altri evidentemente rinnovati, qualche detrito ammucchiato in un angolo e un odore fetido che esce dai tombini in prossimità della spiaggia. A Phi Phi invece, a più di otto mesi dall'evento, ci si rende conto delle reali dimensioni della catastrofe.
Koh Phi Phi è il nome di una coppia di isole del Mar delle Andamane, situate al largo della costa di Krabi, nella Thailandia sud-occidentale. Phi Phi Ley, dal profilo squadrato e dall'aspetto vagamente tetro, è la minore delle due, è praticamente disabitata e alcuni anni fa fu il teatro di un famoso film americano con l'attore Leonardo Di Caprio, girato nella paradisiaca spiaggia di Maya beach.
L'altra isola, Phi Phi Don, ha la forma di due polmoni di dimensioni diverse, collegati da uno stretto istmo che separa le due baie principali. La prima baia, Ton Sai, si apre a sud-est verso Koh Lanta e se vista dall'alto appare punteggiata dai colori sgargianti delle barche dei sub e da quelli sobri delle imbarcazioni che effettuano i servizi di collegamento con Krabi e Phuket. La baia di Loh Dalum si affaccia in direzione opposta, verso Phuket; è quasi completamente racchiusa dall'abbraccio delle alture dell'isola e offre un romantico punto di osservazione di un rinomato tramonto tropicale. Tra le due baie e fino ai piedi delle colline si sviluppa il paesino di Ton Sai, che raccoglie la maggior parte delle strutture turistiche dell'arcipelago.
Sull'onda della fama portata dal film e dalla sua fotografia di spiagge da sogno, dalla seconda metà degli anni novanta un numero sempre più elevato di turisti è arrivato sull'isola, con i picchi stagionali più alti proprio nella settimana che va da Natale a Capodanno. Per accogliere, nutrire e intrattenere i visitatori Ton Sai si è andato riempiendo di alloggi di ogni livello, ristoranti, scuole di sub, agenzie turistiche, bar e negozi. Non sono pochi i viaggiatori che credendo di arrivare in un intoccato paradiso tropicale sono rimasti allibiti trovandosi di fronte sportelli bancomat, minimarket aperti 24 ore e collegamenti internet via satellite.

Prima dell'arrivo alla baia di Ton Sai, già dalla barca si nota che la prima fila di edifici è stata seriamente danneggiata o distrutta. Dopo essere sbarcati ed aver attraversato il molo ci si trova davanti al primo scheletro di un caduto celebre: l'edificio del Seven/Eleven, riconoscibile soltanto per l'insegna luminosa e per qualche scaffale vuoto tra i detriti racchiusi da tre pareti diroccate; la facciata di vetro invece non esiste più.
Percorrendo le strade del centro ci si imbatte in edifici ricostruiti, altri distrutti e rimpiazzati da strutture provvisorie, e soltanto alcuni rimasti apparentemente intatti.
Qua e là si intravedono cumuli di detriti e pezzi di metallo divelto nascosti alla meno peggio. Fa una certa impressione vedere gli sportelli bancomat - il simbolo dello sviluppo sull'isola - impolverati e fuori uso, a volte con un rozzo
Out of order scarabocchiato su un pezzo di carta appiccicato sullo schermo morto, spesso invece privi anche di quel messaggio lapidario.
Tuttavia ciò che aspetta il visitatore che si sposta verso la baia di Loh Dalum è ancora peggio. Da un certo punto in poi le poche costruzioni che stanno in piedi sono tutte nuove, il resto è soltanto un immenso cumulo di macerie. Continuando a passeggiare verso il mare, arrivati a circa duecento metri dall'acqua, lo spettacolo è agghiacciante. Il dedalo di stradine costeggiato da semplici costruzioni - spesso in legno - che ospitavano alberghi economici, ristorantini, e negozietti è ora un desolante spiazzo aperto, perlopiù ricoperto di rottami. Si fa fatica ad orientarsi, i vecchi punti di riferimento non esistono più. La spiaggia sembra essere ridiventata quel che deve essere stata alcuni anni fa, quando il boom del turismo doveva ancora iniziare e Koh Phi Phi era abitata da qualche decina di pescatori. Di due dei
resort più eleganti restano soltanto un paio di costruzioni in muratura, peraltro in condizioni malmesse. Del bel ristorante italiano, della coppia di "Chiringuito del tramonto" e dei bungalow in legno, paglia e bambù non resta letteralmente niente, nemmeno qualche moncone di legno o delle tracce sull'erba. Le palme sono spelacchiate e gli alberi in gran parte mutilati. A riva è ormeggiata una grande chiatta su cui alcuni operai thailandesi lavorano tra sacchi di detriti e cumuli di sabbia.
La fila di sdraio e i tavolini di un bar in mezzo a quel deserto non migliorano affatto la situazione, ma la rendono anzi ancor più triste, soprattutto una lavagnetta su cui qualcuno ha scritto "PP Princess bar menu": PP Princess era il nome di uno dei
resort spazzati via, questo banchetto che vende bibite è tutto ciò che ne resta.
Lo tsunami generato al largo di Sumatra è arrivato a Phi Phi verso le 10:30 del mattino del 26 dicembre 2004, tre quarti d'ora dopo aver raggiunto l'isola di Phuket. Phi Phi Don è stata investita da due ondate successive, ognuna delle quali ha colpito entrambe le baie. Poco prima dell'arrivo della prima cresta il mare si è ritirato all'improvviso di parecchi metri, lasciando le barche incagliate e i pesci a dimenarsi sul fondo asciutto. Numerosi turisti e residenti incuriositi si sono avvicinati per osservare il corallo esposto all'aria aperta o per afferrare i pesci in agonia. La prima onda si è abbattuta sulla costa ad una velocità di 50 km/h o più, con altezze di 6,5 metri alla baia di Loh Dalum e di 3 metri a Ton Sai. Le ondate provenienti dalle due baie si sono incontrate lungo una linea che taglia in due il paese, poi quella maggiore proveniente da nord-ovest ha spinto l'altra all'indietro. Il mare si è quindi ritirato nuovamente e il processo si è ripetuto per una seconda volta. L'acqua ha attraversato l'isola da parte a parte anche in altri due punti sul "polmone” nord-orientale: tra due baie minori - La Naa e Bakhao - e a Laem Thong, un villaggio di pescatori nomadi.
Il bilancio dei danni è molto serio: il 70 per cento delle costruzioni è stato distrutto o danneggiato, ottocento sono i corpi senza vita ritrovati e milleduecento i dispersi, più di cento i bambini rimasti orfani. Tra le vittime non ci sarebbero membri della comunità dei pescatori gipsy. Sono infatti riusciti a mettersi in salvo per tempo, dopo aver riconosciuto alcuni segni premonitori dello tsunami in fenomeni osservati in mare o nei sogni di alcuni "sensitivi".

Il processo di ricostruzione è in corso: muratori e falegnami lavorano sui siti degli edifici distrutti, operai thailandesi e volontari, in gran parte stranieri, ripuliscono la spiaggia dai detriti.
Chi è riuscito a ricostruire in fretta e chi non ha subito danni si gode gli introiti della macchina del turismo che ha ricominciato a funzionare. In molti espongono insegne con messaggi volti a sensibilizzare i passanti. Ad un centro di massaggi si legge: "Le donne che lavorano qui devono mantenere le loro famiglie colpite dallo tsunami, aiutatele e viziatevi al tempo stesso". Un venditore di bigiotteria scrive: "Lo tsunami ha distrutto il nostro negozio e non abbiamo i soldi per comprare nuova merce. Siamo cinque in famiglia, di cui tre bambini. Non abbiamo niente! Aiutateci".
Le cifre tuttavia non sono ancora ritornate ai livelli di quelle precedenti il disastro. Alcune settimane fa la CNN intervistava il proprietario di un'azienda che fornisce il servizio di collegamento con la terraferma. Fino all'anno scorso le sue barche erano quasi sempre piene e in alta stagione doveva noleggiare le imbarcazioni di altri operatori. Ora le barche sono semivuote e l'azienda è spesso costretta a operare in perdita.

C’è anche chi in questo scenario di distruzione riesce comunque a trovare un lato positivo. Una turista canadese mi fa sapere che in fondo non le dispiace essere stata qui proprio ora, quando molte delle strutture spazzate via dall’acqua non sono ancora state ricostruite e gran parte dell’isola presenta in un certo senso la sua faccia naturale.
Non mancano inoltre storie di complotti e tesi cospiratorie. Circola una voce secondo la quale alcuni poteri economici, con il sostegno di qualche personaggio del mondo politico, starebbero pianificando di convertire Phi Phi in una meta per turisti di alta categoria, con la costruzione di costose strutture di lusso. A causa della resistenza opposta da alcuni dei residenti questi personaggi si starebbero impegnando per ostacolare il processo di ricostruzione e di rilancio del turismo. E' una storia simile a quella che circolava tempo fa a proposito di altre isole del paese. L’unico esempio che si raccoglie a sostegno di questa tesi riguarda lo smantellamento dei rifiuti che venivano regolarmente trasportati sulla terraferma e che da qualche tempo sarebbero invece lasciati a marcire sull’isola. I cumuli di spazzatura a Koh Phi Phi sono in effetti grandi e maleodoranti, ma risulta alquanto difficile considerarli una prova schiacciate a favore delle accuse di malaffari. Se ne possono infatti trovare di simili in tutte le altre isole del sud-est asiatico, comprese quelle che non sono state colpite dallo tsunami.

Saliti a bordo della barca per Phuket e osservando da lontano gli operai che si muovono sugli edifici in costruzione come api attorno a un alveare, si ha l’impressione che in tempi relativamente brevi l’isola ritornerà a essere quella di prima, essendosi data pure una mano di vernice nuova. Alcune attività avranno cambiato proprietario, i sopravvissuti e i nuovi arrivati avranno perso alcuni mesi di profitti, ma il flusso di turisti, che già aumenta di settimana in settimana, ritornerà forse agli antichi splendori.
A ricordare le vittime resteranno un giardinetto intitolato ai caduti, le targhe esposte da qualche esercente, e un paio di murales dipinti da un turista.

Pubblicato da Peacereporter nella sezione "Reportage"
http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idart=3784