domenica 28 settembre 2003

Il barbone colto - Kuala Lumpur, Malesia


Resto quasi tutto il giorno in albergo ma in serata esco per una passeggiata.
Cammino lungo le strade di chinatown, do un'occhiata agli edifici coloniali, simili nella forma a quelli di Singapore ma senza quella patina di nuovo che in quella città fa sembrare tutto finto. Voglio visitare Masjid Jamek, la più importante moschea in città. All'altezza del palazzo della corte suprema - illuminato come un albero di natale - vengo affiancato da un signore dal passo talmente veloce che quasi finisce addosso alle transenne che fiancheggiano il marciapiede.
Quando mi volto per osservarlo mi chiede che ne penso del palazzo. Andava di fretta per acciuffarmi e la domanda è soltanto una scusa per fermarmi.
"Non mi piace l'illuminazione, è un bell'edificio ma lo preferisco al naturale."
"Lo sai che è la sede della corte suprema? Vi si decretano le sentenze a morte."
Non so se sia esatto quel che dice. Comunque ora ne sono sicuro. E' un pretesto per attaccare conversazione. Si dimostra subito critico nei confronti dello stato e in particolare della sua componente islamica. Strano...dall'aspetto mi era sembrato malay, quindi musulmano egli stesso.
Ha la pelle ambrata e increspata sul viso magro. Il profilo è come un piano inclinato con il naso che segue l'angolo della fronte e il mento sporgente. Quando apre la bocca spuntano solo tre o quattro denti.
Gerald John Baptist non fa parte della maggioranza musulmana: è un eurasiatico, di discendenza in parte malay e in parte britannica. E' cristiano e da qui, a suo modo di vedere, nascono tutti i suoi problemi. La madre lavorò duramente per pagargli gli studi fino alla fine della scuola superiore. Al termine dell'ultimo anno si presentò a casa sventolando l'ottima pagella: su quattro materie aveva ottenuto tre A - il voto d'eccellenza - e una B. Per ottenere una sovvenzione statale per le spese universitarie bastava molto meno.
La madre lo sorprese con una risposta che lui giudicò ingenua: "Non capisci? E' finita! Non troveremo mai i soldi per l'università!"
"Sei un'idiota?" esplose con tutta la sua indignazione "Con questi voti ho diritto automatico ad una borsa di studio!".
Il giorno dopo presentò la sua domanda all'ufficio competente. Tre mesi dopo - non avendo ancora ricevuto una risposta - si ripresentò davanti all'addetto chiedendo informazioni.
"Se non ti è arrivata una risposta...significa che la tua domanda è stata respinta..."
Tornò a casa dalla madre e, in lacrime, le chiese scusa per averla offesa e per non averle creduto. Le borse erano state assegnate a richiedenti malay-musulmani che avevano ottenuto punteggi inferiori ai suoi agli esami di maturità. E lo stesso accadde con la maggior parte dei lavori buoni per cui - da allora in poi - fece domanda.
Gerald è un gran narratore. Il suo inglese è corretto e forbito. Sa accelerare e rallentare il ritmo della narrazione a seconda del frangente della storia e dell'emozione che vuole trasmettere. La storia si tinge di toni melodrammatici quando - descrivendo i momenti più toccanti - la voce gli si alza di tono e si rompe quasi come se stesse per scoppiare a piangere. Ma la commozione non dura più di un attimo e Gerald riparte con più rabbia di prima.
Da lungo tempo vive senza una casa. Un amico - l'ultimo che ha avuto, un ragazzo di 27 anni che stava nella stessa sua situazione - un giorno sparì. Dopo un paio di settimane, quando lui già l'aveva cercato alla polizia e negli ospedali di tutta la città, il suo amico ricomparve più sano e contento che mai: si era convertito all'Islam. Quando gli promise che l'avrebbe messo in contatto con i suoi convertitori, Gerald si infuriò...per niente al mondo si farebbe musulmano.
L'unica via di salvezza in cui ancora crede è una "fuga" a Singapore, paese in cui - secondo lui - ci sono meno discriminazioni e in cui i cristiani dell'Esercito della Salvezza si prenderebbero cura di lui.
"Mi laverebbero, mi vestirebbero e mi darebbero da mangiare."
Purtroppo per ottenere il passaporto occorrono molti soldi. Gli dico che a Singapore ci sono stato e che a me non è sembrata una società migliore di quella malesiana. Lì l'accattonaggio e l'elemosina sono formalmente proibiti ma questo non significa che non ci siano i poveri e gli emarginati, e che essi vengano trattati come degli ospiti d'onore. A Singapore i malay e gli indiani si lamentano per i privilegi accordati ai cinesi.
Il governo malesiano non si diverte a tenere prigionieri quelli come lui. Se potesse risolvere il problema scaricando la patata bollente ai "cugini" lo farebbe. Ma non credo che in quell'isola asettica vedano di buon occhio una soluzione di questo tipo.
Gerald non sente ragioni, Singapore è il paradiso che lui cerca. A confermare questa tesi è lui stesso quando mi racconta come - quando la città si prepara ad entrare in scena sotto la luce dei riflettori internazionali - le autorità cercano di sbarazzarsi dell'imbarazzante "fardello" e di "nasconderlo" altrove.
Kuala Lumpur si sta avvicinando ad uno di quegli appuntamenti: a metà del prossimo mese la capitale malesiana ospiterà nel palazzo dei convegni di Putrajaya il summit dell'Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC). Sceicchi, presidenti, sultani provenienti da tutto il mondo islamico nonché i media internazionali convergeranno sulla città che per l'occasione dovrà sembrare un modello di pulizia. Le forze dell'ordine quindi setacceranno le vie del centro e le ripuliranno da qualunque soggetto che possa "rovinare" l'immagine della capitale.
Quelli come Gerald verranno caricati all'interno di un camion, portati a parecchi chilometri di distanza e verrà quindi loro intimato di tenersi a "debita distanza". Al mio amico è già successo una ventina di volte. I senzatetto musulmani possono sempre cercare ospitalità in una moschea. Come prova della fede questi "disperati" devono mostrare la carta d'identità che - oltre alle informazioni ordinarie - contiene anche l'indicazione della religione - un marchio a fuoco che qui pesa parecchio. Per chi non è un seguace di Maometto la casella è riempita con un paio di trattini (--). Nel modulo per la richiesta del documento Gerald indicò 'CRISTIANO CATTOLICO' con grandi caratteri in stampatello, ma le autorità non considerano valida qualsiasi entrata diversa da 'ISLAM'.
"E perché non chiedi ospitalità in chiesa?" Sorride con sarcasmo.
"Le chiese hanno chiuso le loro porte da quando alcune di esse hanno subito tentativi di incendio. E il governo ha puntato il dito sugli sbandati e sui tossico dipendenti. Ma andiamo! Lo sappiamo tutti che i colpevoli sono gli estremisti islamici! I drogati in chiesa al massimo rubano, perché dovrebbero appiccare incendi?"
Non insisto: sembra infatti intenzionato a difendere le chiese locali così come difende Singapore. La vera carta d'identità - o meglio il lasciapassare - di Gerald è invece una rispettabile borsa nera che si porta dietro - piena di cianfrusaglie senza valore - per ingannare le apparenze dando l'impressione di essere un "cittadino rispettabile" che va al lavoro.
Scoppio in una sincera risata al termine della spiegazione di questo trucco geniale da film del neorealismo italiano. Ride con me ma subito dopo, con la grande arte di pilota delle emozioni che fa di lui un ottimo oratore, passa al racconto della drammatica vicenda che lo costrinse ad aguzzare l'ingegno e ad escogitare quella geniale trovata.
Un giorno fu fermato dalla polizia mentre passeggiava innocentemente in una via del centro. L'agente, insospettito dal suo aspetto e, forse, anche dal suo odore, gli chiese chi fosse e dove abitasse. Gerald non rispose e, un paio d'ore più tardi, si trovò in una cella a fare compagnia ad un indiano che gli confidò di essere lì per aver sterminato la sua famiglia. Poco dopo, da un altra cella, un altro recluso lo invitò ad abbassarsi i pantaloni. Quindi Gerald, con la voce di nuovo rotta dall'emozione, mi racconta di aver cominciato a pregare, e di essere quindi caduto in una sorta di trance da cui si risvegliò - senza ricordare nulla di quel terribile frangente - quando già stava fuori.
Ma Gerald nella sua vita sostiene di averne subite molte, e ha altre cartucce da sparare. Un giorno si presentò all'entrata di un ristorantino cinese e, con gli ultimi 3 ringgit che gli restavano in tasca, chiese qualcosa da mangiare. Sapeva che le pietanze più economiche costavano 5 ringgit ma sperava, essendo il ristorante in chiusura, di ricevere qualcosa che sarebbe stato altrimenti gettato.
"In questo locale non vendiamo cibo per cani..." gli rispose il rozzo cinese.
Gerald racconta di non averci più visto dalla rabbia, di aver afferrato il coltellaccio da cucina che stava piantato sul tagliere davanti a lui e di averlo sventolato in faccia allo zoticone. In quel momento un cameriere intervenne provvidenzialmente e lo mise fuori gioco colpendolo sulla schiena con una sedia. Porta ancora riconoscenza a quell'uomo che gli impedì di commettere un crimine della cui sola eventualità si vergogna tuttora.
Tramite dei giornali che pesca nei bidoni della spazzatura si tiene al corrente sulla situazione locale e internazionale. Interessante è la sua versione del caso Anwar. L'ex vice primo ministro nel '98 era ansiosissimo di fare le scarpe a Mahatir e cercò di attirarlo in una trappola mettendogli contro membri del partito e opinione pubblica.
Secondo Gerald, Anwar, che era al tempo anche ministro delle finanze, al fine di destabilizzare il paese stava cercando di alzare il costo del denaro a livelli proibitivi per gli investitori e di fare in modo che il Fondo monetario internazionale intervenisse con dei prestiti forzando in cambio il governo ad orientarsi verso una politica più trasparente e democratica.
Anwar sperava così di creare disordine nel partito e nelle piazze, forzando Mahatir al ritiro. Il cambio al vertice sarebbe stata la rovina del paese che sarebbe stato svenduto agli americani che potevano ricattare Anwar con le prove dei suoi peccati di sodomia - gravissimi agli occhi dei musulmani - commessi durante una sua visita negli USA.
Per "fortuna del paese" anche il premier Mahatir era in possesso di prove di quello e di altri reati e, non appena fiutato il pericolo, fece venire alla luce un dossier Anwar che mise in moto l'ISA e la macchina giudiziaria.
Non male come analisi per uno che non ha nemmeno i soldi per comprarsi un giornale.
Gli chiedo dove dorme e mi accompagna in una discesa che si infila sotto la Piazza dell'Indipendenza. C'è una piccola siepe. Lui estrae dei fogli di cartone e li stende sopra al muretto formando un "materasso", poi piega una tela e ricava una specie di guanciale.
Mi confida che uno dei problemi più fastidiosi glielo creano le zanzare. Ha capito che me ne sto per andare, e quindi passa all'ultimo atto del suo spettacolo: il giro in platea col cappello in mano.
Dalla borsa estrae delle mappe della città e del paese su cui ha annotato in inglese delle utili informazioni supplementari. Per suggerirmi il limite minimo dell'offerta si affretta a farmi sapere che qualche straniero si è "incredibilmente" rifiutato di pagargli il prezzo stabilito di 10-15 ringgit, circa 3 euro. Parecchio, considerando che le mappe sono distribuite gratuitamente dal ministero del turismo e - soprattutto - che in Asia chi fa l'elemosina accetta con un sorriso un decimo di quella somma, se non meno.
Ma non importa. Le sue storie, vere o no, esagerate o rigorosamente attinenti ai fatti, mi hanno intrattenuto per un'ora o più. Gli allungo una mancia, vi aggiungo una boccetta di lozione anti-insetti che avevo nella borsa e lo saluto.
Gerald mi benedice e mi augura la buona notte.


sabato 27 settembre 2003

Kuala Lumpur - Malesia, 27 settembre 2003

Abdul Hadi Awang - il leader del governo locale dello stato di Terengganu - ha dichiarato che il 'Terengganu syariah criminal enactment' (la legge islamica) verrà ufficializzato il prossimo ottobre - prima del ritiro di Mahatir - ed entrerà in vigore immediatamente. Ho deciso di recarmi a Kuala Terengganu e di scrivere un pezzo a riguardo.
Per la giornata di oggi scelgo invece di seguire il consiglio di un cinese di Malacca che alloggia, come me, al Pudu hostel. Il suo nome è Michael, commercia in diamanti grezzi. Li compra dai venditori africani e li rivende in tutta l'Asia. Ha vissuto per 7 anni in Belgio, ad Anversa (Antwerp) - la capitale mondiale del diamante. Mi spiega come funziona il commercio. Gli operatori più affidabili sono iscritti alle borse del diamante. Lui è iscritto alla sede di Kuala Lumpur.
Di solito quando ha bisogno di un fornitore si rivolge ad aziende accreditate e spesso chiede consiglio ai suoi amici di Anversa. Le banche fanno da garanti con delle lettere di credito. Il fornitore spedisce la merce tramite un corriere specializzato (Briks) e il denaro per il pagamento resta congelato fino a che la merce non viene consegnata e accettata.
Michael mi consiglia di recarmi a Genting highlands. Di questa località so che è la sede del più grande centro divertimenti del paese e di molti casinò. Lui me lo conferma ma aggiunge che il tragitto in funivia attraverso la giungla è molto suggestivo.
Nell'autobus incontro un altro cinese con cui faccio conversazione. Quando gli dico che ho la passione della scrittura mi dice che gli piacerebbe che mi dedicassi alla stesura di un libro sul tema "amore e vitalità". Gli chiedo perché non lo fa lui.
«Non ho studiato e non riuscirei mai a scrivere un libro»
«Ma lei parla un ottimo inglese...»
«È perché ho lavorato per un ex-capitano inglese per il quale mia madre prestava servizio. L'ho seguito anche in India e a Londra»

Parliamo un po' della politica malesiana. Proprio lui - un cinese - sostiene che i cinesi hanno in un certo senso rovinato il paese con le loro pratiche di corruzione. A proposito del PAS mi dice che alle prossime elezioni potrebbe aggiudicarsi un altro stato.
«Quale?»
«Johor Bharu...» risponde lui provocando la mia sorpresa.

Poi mi confida che gli piacerebbe che Bush cogliesse l'occasione del summit dell'OIC (Organizzazione della Conferenza Islamica) a KL che si terrà in ottobre per dialogare con i paesi musulmani alla ricerca di una soluzione al problema del terrorismo. Secondo lui una profezia cinese prevede una terza guerra mondiale e questo summit sarà l'ultima opportunità per evitarla.
La vista sulla giungla e sulle montagne ricoperte da una insolita nebbiolina vale in effetti il prezzo del biglietto e il viaggio. Per non parlare della fresca temperatura...un sollievo dopo l'aria soffocante e calda della metropoli.
Continuiamo la conversazione bevendo un caffè a Genting. Comincia a parlarmi delle sue idee sull'amore, che va dato e ricevuto. E che la maggior parte della gente non sa di preciso che cosa sia... Non lo seguo più molto bene, un po' perché le sue teorie mi sembrano un po' confuse e un po' perché mi concentro su altri particolari. Ha un viso interessantissimo. Dice di avere 66 anni ma ne dimostra 10 o 15 in più. Ha pochissimi denti. Un lunghissimo incisivo gli sbarra la bocca quando ride mentre le labbra si piegano verso l'interno avvolgendo le gengive ormai spoglie. La pelle abbronzata si corruga in un disegno complesso che avvolge il viso scarno. Gli occhi sembrano scoloriti dal tempo e dagli eventi. Finalmente mi ricordo dove avevo già annusato l'odore emanato dalla sua pelle. È lo stesso profumo che hanno addosso alcuni vecchi del paese di mio nonno. Un profumo vagamente aspro che nel mio immaginario sa di semplicità, di campagna, di lunghe e lente camminate in collina. Di camicia, giacca nera e cappello di feltro indossati ad agosto. E ancora di enormi forme di pane tagliate con un coltello tascabile, di stalle e conigli, di somari ed escrementi, di campi e di frutta.
Scopro due ennesimi record della Malesia. La funivia è la più lunga e veloce del sud-est asiatico. L'hotel First World ha il banco della reception più lungo del mondo! Non me lo posso perdere e, lasciato il cinese che va al casinò con le sue teorie di metodi e capitali, seguo le insegne per l'albergo del record. È una passeggiata incredibilmente lunga attraverso ristoranti, sale giochi, parchi giochi all'aperto e al coperto, otto volanti e sale per spettacoli.
Arrivo alla 'Lobi' (questa e' la grafia del termine malese) e mi scappa da ridere: il banco sarà lungo almeno 50 metri e ci lavorano decine di persone. Per alcuni servizi è necessario ritirare il bigliettino col numero, per altri bisogna accodarsi a file lunghissime: è sabato e i malesiani arrivano a frotte al loro "centro di divertimenti". Soprattutto cinesi ma anche indiani e un bel po' di musulmani. Mi imbatto, non senza sorpresa e un filo di delusione, anche in una donna coperta - ad eccezione dei soli occhi - dal velo nero del 'purdah'. E' accompagnata dal marito - con la barba lunga e il copricapo musulmano - e dai figlioletti. Ma che ci viene a fare in un posto cosi' una famiglia religiosa islamica?

giovedì 25 settembre 2003

Kuala Lumpur - Malesia, 25 settembre 2003

Sono sul moderno e comodo treno che mi porta a Putrajaya, la nuovissima cittadella amministrativa voluta dal premier Mahatir. Il treno sfreccia attraverso il 'super corridoio multimediale' che collega la capitale malesiana al bellissimo (e costosissimo) aeroporto.
In un posto con un nome del genere ci si aspettano chissà quali prodigi della tecnologia. In realtà ad entrambi i lati della linea ferroviaria è la bellezza quasi finta della natura tropicale a dominare il paesaggio. Sotto un pesante cielo gonfio di nuvole grigio-bianche si estende un paesaggio dolcemente ondulato, ricoperto da una vegetazione di un verde molto intenso, interrotta qua e là da macchie brulle color caffellatte. Le piantagioni di palme da olio sono in quest'area soltanto una discreta presenza.
Nella zona residenziale di Putrajaya le case sono tutte color pastello: rosa, beige, noce, giallo paglierino. Estese sono le aree dedicate al verde pubblico. Mi ricorda vagamente Canberra, la capitale australiana.
Scendo al grande piazzale rotondo su cui si affacciano la moschea 'Masjid Putra' e il palazzo in cui ha sede l'ufficio del primo ministro. La moschea ha una stupenda cupola rosa con decorazioni chiare e sta come distesa sulle rive di un laghetto, sulle cui acque "poggia" romanticamente il capo. A poche decine di metri l'edificio che ospita l'ufficio di Mahatir è più grande della Masjid Putra e, con le tre cupole verdi che lo sovrastano, è un esempio perfetto del miscuglio di stile moderno e tradizione islamica che caratterizza un po' tutta l'architettura recente di Kuala Lumpur.
Faccio una passeggiata nei dintorni, il centro nevralgico di Putrajaya è un complesso di edifici moderni e sofisticati - ma sempre con qualche tocco ''moresco" -, belle strade pavimentate, piazze architettoniche, sotterranei ad aria condizionata. Il tutto "ricamato" con un arredamento urbano sofisticato e funzionale - panchine e fontanelle d'acqua potabile sono ad ogni angolo - e decorato con piante e alberi.
Il governo qui non ha certo badato a spese. «L'opera fu completata poco dopo la crisi del '97, la gente a quel tempo era molto preoccupata e in molti non gradirono le spese "folli" dell'amministrazione» mi spiega un ragazzo di Kuala Terengganu che incontro sotto la provvidenziale ombra di un albero davanti alla moschea. Mi torna alla mente la storia di Ibrahim Anwar che, anche per aver criticato spese come questa, si trova da allora in carcere.
Scopro un altro record di questo incredibile paese. Il sistema di trasporto metropolitano LRT di KL è il più lungo al mondo tra quelli automatizzati, senza pilota a bordo.

martedì 23 settembre 2003

Malacca - Malesia, 23 settembre 2003

Faccio un salto all'area coloniale. Il cimitero olandese - che contiene anche le tombe di alcuni coloni inglesi - non è molto grande. Molto più piccolo di quello, sempre olandese, a Cochin nel sud dell'India o di quello inglese a Dharamsala, sempre in India ma molto più a nord, nell'Himalaya.
La storia della vicina chiesa di San Paolo riflette le vicende coloniali della città. Fu costruita nel 1521 dal capitano portoghese Duarto Coelho che le diede il nome di "Nostra Signora della collina". Nel 1548 fu consegnata ai gesuiti che la chiamarono "Annunciazione", la ampliarono e infine la dotarono di un campanile. Quando gli olandesi si insediarono a Malacca si impossessarono della chiesa e le assegnarono il nome attuale, nonché il credo protestante. La abbandonarono nel 1753 quando terminarono la costruzione della vicina "Chiesa di Cristo".
Con l'arrivo degli inglesi l'edificio fu adibito a polveriera, perse il campanile ma acquistò in compenso un faro che ancora oggi si erge davanti alla facciata. La chiesa ospitò per nove mesi la salma di San Francesco Saverio che, proveniente da Macao, dove il missionario era morto, e in rotta verso il suo definitivo luogo di sepoltura a Goa, ha continuato fino ai nostri giorni a resistere agli effetti della decomposizione - seppur mutilata dai furti dei cacciatori di reliquie.
Francesco Saverio, "l'apostolo d'Asia", durante i suoi spostamenti in oriente soggiornò, predicò e convertì anche a Malacca. Si narra che un giorno una tempesta investì l'imbarcazione su cui stava navigando. Il crocifisso che il frate estrasse per invocare l'aiuto divino gli scivolò in mare. Più tardi, in una spiaggia, Francesco Saverio notò un granchio che teneva tra le chele il crocifisso smarrito e decise di benedire il crostaceo. Secondo la leggenda da allora i granchi di quella specie hanno il guscio marchiato da una croce.
Meno famoso è invece un altro personaggio che ha trovato sepoltura in questa chiesa: la moglie di John Van Riebeck, l'olandese che fondò la colonia che ora è Città del Capo in Sud Africa. La salma fu portata in Africa nel 1915 e qui a Malacca è stata installata una pietra in memoria.
Dei ragazzini entrano rumorosamente nella navata diroccata, e vengono attratti da un ambulante che cerca di vendere loro dei fischietti a stantuffo. Un uomo si è sistemato su un seggiolino all'interno dell'edificio. Ha una chitarra e un'armonica e comincia a cantare una vecchia canzone di Bob Dylan. I ragazzini, con la curiosità multiforme di quell'età, si voltano per ascoltarlo ma lo scaltro venditore, che non è disposto a farsi sfuggire l'occasione, li richiama con un urlo, estrae anch'egli un'armonica e riprende le note del musicista. È veramente troppo per i bambini, che non resistono alla tentazione e comprano uno strumento a testa, prima di correre strimpellando fischietti e armoniche a circondare l'uomo che sta ora suonando "Blowing in the wind".

domenica 21 settembre 2003

Malacca - Malesia, 21 settembre 2003

Sono seduto ad un tavolo di un ristorante Mama, dal nomignolo con cui vengono identificati, da queste parti, gli indiani-musulmani. I tavoli sono tutti occupati ed un signore decide quindi di accomodarsi accanto a me. È un uomo di mezza età, i suoi capelli - brizzolati con qualche tocco di bianco qua e là - si diradano sulla fronte alta e abbronzata. Il suo bel viso è una composizione ordinata in cui le linee dritte delle rughe e i volumi di carne morbida di orbite, guance e mento si sostengono e si tendono a vicenda in armonioso equilibrio funzionale. Porta dei baffetti grigi fini e curati.
Ha un pallino nero tatuato sopra il naso, tra le sopracciglia. Altri disegni più complessi sporgono da sotto la scollatura e dalle maniche avvolte della camicia di raso color granata. Il viso è quello di un cinese ma le effigi di un Buddha e di due monarchi siamesi appesi ad una lunga catena che porta al collo ne tradiscono la provenienza thailandese. Infilato al dito medio della sinistra porta un anello su cui grava una complessa e pacchiana figura metallica mentre una pietra che assomiglia ad un occhio castano fa da contrappeso sull'altra mano. Una specie di bracciale d'argento a maglie grosse e pesantemente decorate gli avvolge una caviglia, sopra al calzino di cotone che si infila in una moderna scarpa da ginnastica.
Sta aggiornando un quadernetto su cui tiene della contabilità. All'improvviso si volta verso di me e mi porge, con un inglese eccellente, una domanda strana: «Mi scusi, il monte Everest si trova in Nepal o in Tibet?».
«Senza dubbio in Nepal» gli rispondo io (in realtà l'enorme massiccio si estende attorno al confine tra Nepal e Tibet, ma la maggior parte dei turisti vi accede dal versante nepalese). Rimette il quadernetto al suo posto in un'ordinatissima ventiquattrore, ne tira fuori un altro e ci appunta qualcosa.
«Di dov'è?» gli chiedo.
«Thailandia».
«Lo sospettavo, ho notato la medaglietta di re Rama V. E pure degli ideogrammi cinesi sul suo quaderno».
«In effetti sono thai-cinese». L'uomo comincia a parlarmi del Siam, di re Chulalongkorn che abolì la schiavitù nel suo regno, della saggezza del padre, il protagonista del film "Anna and the king". Del fatto che, per preservare le tradizioni siamesi, ai cinesi veniva proibito l'uso della propria lingua ed imposta la scelta di un nome locale.

Poi comincia a parlare di zodiaco cinese. Mi spiega che io sono del segno del cane del tempio. Prima o poi quindi riceverò una chiamata spirituale e mi rivolgerò al buddismo per la ricerca della verità e dell'illuminazione.
Comincia quindi con una digressione sul buddismo, sulla rettitudine, sui mali da evitare e mentre sto scrivendo un appunto che mi ha appena dettato estrae di soppiatto dalla valigetta una cartolina raffigurante un bonzo seduto nella posizione del loto. Dopo averlo incensato per un paio di minuti mi spiega che posso avere una copia dalla cartolina e la benedizione eterna per "soli" 20 ringitt, circa 5 euro. Dopo aver incontrato il mio cortese rifiuto mi fissa per qualche secondo in silenzio da dietro un paio di occhiali scuri. Mi ricorda un venditore di enciclopedie porta a porta. Rilancia a 10 ringitt. Rifiuto proponendo una mia visita con relativa offerta al tempio del monaco presso Ubon Rachathani, nel nord-est della thailandia. Rispondendo ad una mia domanda di qualche minuto prima (inizialmente ignorata) mi indica il suo nome su un bigliettino da visita. Quindi si alza e si incammina dicendo: «Ti manca la saggezza».
«Come?» gli rispondo più per sorpresa che per curiosità.
«Ti manca la saggezza...» guarda il cielo come se vi cercasse le parole «...al 50%!».

venerdì 19 settembre 2003

Malacca - Malesia, 19 settembre 2003

Lungo la strada che porta a Malacca c'è la solita distesa di palme da olio che domina il paesaggio rurale malesiano un po' ovunque. Sarebbe una bella vista se gli alberi non fossero disposti lungo le file regolari delle piantagioni. Una studentessa di economia incontrata l'anno scorso sull'autobus per Taman Negara mi spiegava che per decenni la Malesia è stata un eccezionale produttore di gomma naturale, ma negli ultimi anni si è convertita quasi completamente all'olio di palma, sempre più richiesto un po' in tutto il mondo. Ricordo che Domenico, un cuoco friulano conosciuto tempo fa in Vietnam, mi spiegava che anche nei ristoranti italiani è ormai un prodotto molto utilizzato.
La sera passeggio tra gli edifici rossi dell'epoca coloniale. Speravo invano che a quell'ora tarda la chiesa, il palazzo del governatore, la porta di Santiago si scrollassero di dosso quell'atmosfera da museo che li avvolge durante il giorno. Di notte, con le porte chiuse, senza i bigliettai, senza i turisti alcuni posti offrono un viaggio indietro nel tempo. È il caso di Hoi An, in Vietnam, che di notte ridiventa Faifo, antico centro nevralgico dei commerci tra portogesi, cinesi, olandesi e giapponesi. Con le case dei mercanti che non sembrano i negozi di souvenirs in cui sono state convertite. E il bel ponte in legno costruito dai giapponesi che non fa da sfondo alle foto delle coppiette di turisti.
Faifo e Malacca al culmine del loro splendore erano contemporanee, anche per questo nutrivo la speranza di rivivere le emozioni di quelle passeggiate notturne. Purtroppo non accade: da un vicino bar arrivano le note stonate di un musicista da quattro soldi. Poi, improvvisamente, la piazza centrale viene invasa da un nugolo di rickshaw rumorosi e inghirlandati di fiori variopinti che portano a spasso un gruppo di cinesi dall'aria stordita.

Mi arrendo e mi incammino verso l'albergo. A metà strada mi si avvicina un'auto guidata da un cinese del posto che vuol fare conversazione. Fa molta propaganda gratuita e banale al suo paese ma mi lascia con un pensiero su cui riflettere. Gli abitanti di Singapore, a differenza dei malesiani, non possono investire i loro risparmi in terreni o case. Perciò spendono, spendono, spendono e basta...
L'albergo in cui alloggio è gestito da una famiglia di eurasiatici. «Il mio nome è Franco, sono un "portoghese locale". Parlo portoghese». L'ultima precisazione anticipa la domanda che probabilmente tutti gli rivolgerebbero. Potrebbe sembrare un malay ma alcuni tratti del volto sono effettivamente europei. Ancor più quelli di un suo amico con cui parla portoghese. «È una versione antica della lingua. Quella moderna la capisco a malapena». Mi racconta che "portoghesi" a Malacca e dintorni sono circa 2000.

martedì 16 settembre 2003

Johor Bharu - Malesia, 16 settembre 2003

Sto facendo colazione con roti canai e caffè in un ristorantino davanti alla Convent School. Autobus scolastici, taxi e auto private scaricano numerose ragazze all'entrata dell'istituto. Le studentesse cinesi e indiane indossano una uniforme celeste su una camicetta bianca, la gonna arriva al ginocchio. Quelle musulmane hanno il capo coperto da un 'tudong' bianco e il corpo fasciato da un candido camice che - dal ginocchio in giù - lascia spazio ad una lunga gonna celeste.
Mi colpisce il fatto che sia una scuola a carattere realmente misto - mi riferisco alle etnie, non ai sessi - pur con i compromessi relativi alle uniformi, che uniformi in senso stretto non sono. Assieme alla NEP era stata attuata nei primi anni '70 anche una riforma del sistema scolastico che aveva imposto il 'bahasa malaysia' come unica lingua di insegnamento nelle scuole malay, escludendo quindi l'inglese. Le scuole cinesi potevano continuare invece come prima. La riforma stabiliva inoltre un limite minimo - molto elevato - di studenti 'bumiputera' nelle università statali. Come conseguenza le famiglie della comunità cinese - ricca e urbana - mandarono i loro figli in istituti cinesi - statali per le elementari e privati per le medie e l'università. Da allora nella maggior parte dei casi i bambini dei due gruppi sono cresciuti in ambienti separati allargando così le spaccature sociali.
La Convent school è una scuola statale ed è per questo che mi stupisce il suo marcato carattere multietnico. Chow è dell'opinione che ciò è dovuto al fatto che la scuola gode di un ottima fama per quanto riguarda il livello dell'insegnamento. L'impronta cristiana e occidentale, quindi in un certo senso neutrale, ha agevolato l'integrazione. Le altre scuole in città sono essenzialmente monoetniche. Le maggiori sono tutte malay tranne un grande istituto cinese non lontano dal terminal dei traghetti e dalla spiaggia di Stulang Laut. Al di là dello stretto svettano le torri rosse e bianche della centrale termo-elettrica di Singapore.

lunedì 15 settembre 2003

Johor Bharu - Malesia, 15 settembre 2003

La Malesia è un paese che tiene i piedi in due staffe.
Sono seduto ad un tavolo di uno di quei caffè moderni - all'americana. Quelli in cui ordini alla cassa, scegliendo prodotto e formato, paghi (molto) in anticipo e ti porti al tavolo la tazza su un vassoio. Sembra di stare a Singapore - distante da qui due chilometri e due decenni. Vengo rispedito bruscamente in Malesia dal canto di un 'Muezzin' che invita i fedeli alla preghiera. Sono questi i simboli di un paese che ha predicato sia la dottrina dello 'sviluppismo' sia quella dell'etnicismo che per la maggioranza malay, impegnata a limitarare il potere economico dei cinesi, ha spesso fatto rima con islamismo.

La politica discriminatoria dei 'bumiputera' - i figli della terra - ha dato sì i frutti sperati ma ha anche giocato dei brutti scherzi al paese. Per non cadere nella rete della NEP (Nuova politica economica) - che imponeva alle grandi aziende di avere almeno un 30% di malay tra gli azionisti e altrettanti tra i dipendenti - i cinesi hanno limitato la dimensione delle loro aziende e i 'grandi affari' sono stati affidati, spesso tramite giochi di corruzione e favoritismo, a faccendieri i cui azzardi, finanziati dalle numerose banche, sono venuti al pettine della crisi del '97.
C'è comunque da dire che la Malesia è riuscita a venirne fuori prima e meglio delle vicine Thailandia e Indonesia. Lo stato ha acquisistato dalle banche i loro crediti inesigibili ed è riuscito a convincere gran parte dei debitori a restituirli. I numerosissimi istituti di credito esistenti prima della crisi sono stati ridotti - attraverso decise operazioni di fusione - in un più ristretto numero di conglomerati. Alcuni - ma non tutti - dei protagonisti delle attività più sporche sono stati allontanati dal sistema.

sabato 13 settembre 2003

Johor Bharu - Malesia, 13 settembre 2003

Ieri Chow con la sua moto - la Harley locale - mi ha accompagnato alla ricerca di una copia della rivista Aliran che non ero riuscito a trovare il giorno precedente in alcune delle maggiori librerie del centro. Proviamo a Chinatown - un quartiere di periferia - ma niente da fare: sembra non ne conoscano nemmeno l'esistenza. Il fatto che in un paese dove la stampa è fortemente controllata dal governo ci sia una rivista indipendente di cui non si riesce a trovare nemmeno una copia - in una città di un milione di abitanti - e della cui esistenza i negozianti non sembrano nemmeno essere a conoscenza mi incuriosisce ancor di più circa i suoi contenuti.
Dopo pranzo ci rimettiamo in sella e ci spostiamo verso il vecchio quartiere del centro. È questa un'affascinante griglia di stradine a ridosso del mare sulle quali si affacciano variopinte casette coloniali.
Proviamo un paio di librerie in cui la nostra richiesta incontra la solita reazione confusa. Portiamo dei vecchi giornali ad un gruppetto di simpatiche e carine amiche indonesiane di Charles che ci offrono un paio di caffè. Poi il mio centauro mi lascia davanti all'ufficio centrale delle poste. Dopo una puntata veloce al parco del Grand Palace torno alla città vecchia e faccio un tentativo in un negozio di libri usati: il tentativo fallisce. Mi avvio quindi verso il centro moderno della città e lungo il cammino, all'altezza del coloratissimo tempio Hindu, mi imbatto in una piccola edicola circondata da negozi di fiori e e articoli religiosi in cui finalmente trovo una copia dell'Aliran: è vecchia di tre mesi ma - per quanto riguarda i temi nazionali - risulterà infinitamente più utile di qualsiasi quotidiano fresco di giornata. La panoramica sul quadro politico malesiano è soddisfacente. Molto interessante è un servizio sulla 'New politics'. La crisi finanziaria che ha investito il sud est asiatico nel '97 e la nascita del movimento 'Reformasi' in seguito all'incarcerazione, in forza del famigerato ISA, del vice primo ministro Ibrahim Anwar, reo di aver attaccato il premier Mahatir sui temi della corruzione, del favoritismo e delle spese enormi per la realizzazione di inutili mega-progetti, promossero l'entrata in scena nel '98 di una nuova coalizione - BA, coalizione alternativa. La BA si rivelò alle elezioni del '99 un sogqetto in grado di opporsi efficacemente - per la prima volta nella storia del paese - allo strapotere dell'UMNO e del suo leader Mahatir. Questi erano stati negli ultimi decenni i fautori dello "sviluppismo", una politica mirata alla crescita economica basata quasi esclusivamente sugli investimenti di capitale straniero sotto forma di stabilimenti di assemblaggio per prodotti di esportazione. Una strategia di questo tipo aveva bisogno di una grande stabilità politica che l'UMNO assicurò attraverso un forte dirigismo politico e una serie di pratiche antidemocratiche - controllo della stampa, corruzione e favoritismo, soppressione di movimenti e individui "non graditi" ricorrendo anche, se ritenuto opportuno, all'Internal Security Act.

Sono in un ristorantino in cui ho ordinato chicken rice. Il signore che lo prepara indossa un guanto in plastica usato che tocca ripetutamente con l'altra mano. Con la mano scoperta maneggia anche la carne e la verdura. Non capisco perché indossi il guanto.

giovedì 11 settembre 2003

Johor Bharu - Malesia, 11 settembre 2003

Oggi si celebra il secondo anniversario del tragico attacco alle torri gemelle di New York. Più i mesi passano e più risulta chiaro che quel giorno ha cambiato la storia. Ma la nobile speranza di Tiziano Terzani che una tragedia di quelle dimensioni potesse diventare l'opportunita' per un nuovo approccio alla politica internazionale sembra essere stata dolorosamente delusa.
Per quanto riguarda la ricomparsa del virus della SARS a Singapore, le analisi hanno confermato la presenza del coronavirus nel sangue del giovane medico ma, non essendosi manifestati i tipici sintomi - febbre alta e tosse secca - questo non può essere considerato un caso SARS secondo i parametri fissati dalla OMS. Siamo quindi di fronte a quello che può essere definito un portatore sano. Non mi è chiara la strategia che si vuole adottare.
L'archiviazione del recente caso come portatore sano è bastata a gettare acqua sul fuoco e a rassicurare l'opinione pubblica. Un numero relativamente limitato di casi bastava invece, fino a qualche settimana fa, ad alimentare il panico generale e a mettere in ginocchio l'economia di un considerevole numero di paesi - in gran parte paesi in via di sviluppo - anche dopo che notizie incoraggianti erano arrivate da stati in cui l'epidemia era stata prima arginata e poi debellata - primo tra tutti il Vietnam dove gran merito andava ad un coraggioso medico italiano.
Sto leggendo una copia dell'Economist dello scorso Aprile. C'è un'interessante inchiesta sulla Malesia. Gi articoli offrono una panoramica sui temi più delicati della politica, dell'economia e della società malesiane. Dalle figure del premier Mahatir e del suo vice - nonché prossimo successore - Badawi a quella di Nik Aziz, leader del PAS, il partito fondamentalista islamico che minaccia il predominio dell'UMNO, a cui ha già strappato i governi degli stati Terengganu e Kelantan. Il PAS si batte per l'applicazione della "Sharia", la legge islamica, e dello "Hudud", la relativa lista delle pene che comprende il taglio della mano per i ladri, la lapidazione per l'adulterio e le 100 frustate per rapporti sessuali tra persone non sposate.
C'e' un articolo che tratta delle applicazioni arbitrarie dell'Internal Securiti Act, spesso ai danni di scomodi oppositori come Ibrahim Anwar, l'ex vice di Mahatir, che osò accusare quest'ultimo di corruzione, di nepotismo e di sperperare denaro con gli inutili mega progetti che hanno dotato Kuala Lumpur - la capitale di un paese in via di sviluppo - delle torri Petronas, le più alte del mondo, di un modernissimo aeroporto e del futuristico "corridoio multimediale" che lo collega alla città.
Infine viene affrontato il tema delle difficoltà economiche di un paese che vede gran parte degli investimenti stranieri, su cui si fondava la grande crescita degli anni '80 e '90, prendere la via della Cina.
Il Malaysiakini web site è citato dall'Economist come uno dei pochi esempi di stampa indipendente.

mercoledì 10 settembre 2003

Johor Bharu - Malesia, 10 settembre 2003

I quotidiani malesiani in lingua inglese non mi forniscono assolutamente una visione imparziale della situazione del paese. Il New Straits Times è leggibile solo nelle sezioni esteri (quando non entrano in gioco interessi nazionali), sport e costume.
Un amico malesiano mi conferma che i quotidiani sono controllati, più o meno direttamente, dal partito di governo: l'UMNO. Secondo lui l'unico giornale malesiano indipendente è il periodico Aliran.
Non c'e' stato nessun test nucleare e nessun lancio di missili da parte della Corea del Nord nella giornata di ieri, anniversario della fondazione della repubblica stalinista.
Ieri è stata confermata la notizia di un nuovo caso di SARS a Singapore. Spero che non scatti il panico generale.

martedì 9 settembre 2003

Johor Bharu - Malesia, 9 settembre 2003

Steve ieri è tornato a Singapore da dove procederà per l'Indonesia.
Io sono partito stamane e sono arrivato a Johor Baru. C'ero già passato molte volte ma mai mi ci ero fermato. Credo che possa meritare una sosta. Come per dimostrarlo ho subito pranzato in un ottimo ed economico ristorante indiano.

Alla Footloose G.H. ho incontrato Heather, una scrittrice neozelandese di mezza età con la quale ho avuto una piacevole conversazione.

sabato 6 settembre 2003

Mersing - Malesia, 6 settembre 2003

Da Singapore sono partito, al fianco di Steve, alla volta di Mersing, una piccola città sulla costa orientale della Malesia, nello stato di Johor Bharu.
Gran parte dei turisti stranieri arriva a Mersing per imbarcarsi su uno dei traghetti che portano all'isola di Tioman. Io ci sono venuto perché il visto di Singapore scadeva oggi, perché non volevo andare troppo lontano e perché Steve c'era già stato e ne parla bene. I turisti si imbarcano non appena arrivati in città o, al più tardi, il giorno seguente. Io conto di trascorrere qui qualche notte e sull'isola potrei non andarci affatto. Non ho ancora deciso se allontanarmi definitivamente da Singapore e dalla sua società distorta sulla comprensione della quale ho già investito un bel po' di tempo.

Durante le conversazioni con Steve o quelle che assieme abbiamo con qualcun altro le sue teorie mi appaiono sempre più chiare e sensate. Il motivo per cui concentra la sua attenzione sui bambini e sui giovani studenti ha a che fare non solo con la solidarietà e la simpatia che prova nei confronti di questi soggetti deboli e spesso vittime della frustrazione, della rabbia, dell'incoscenza, dell'incompetenza e dell'insensibilità di genitori e insegnanti. Ha soprattutto a che fare con la soluzione che propone alla maggiorparte dei problemi che affliggono la società moderna. "Se decine di corpi arrivano a valle in balia del fiume non ha senso continuare soltanto a tirarli fuori: bisogna anche concentrarsi sulle cause del problema a monte".
L'interpretazione del concetto di "giustizia" come mera punizione per chi commette un crimine non riuscirà mai ad offrirci, come unica misura, una società migliore, più sicura, più giusta. Occorre intervenire sul processo educativo dei più giovani, ai quali vengono spesso provocate ferite psicologiche, morali ed emozionali difficili da rimarginare e che spesso producono individui disadattati, depressi e, nel peggiore dei casi, con istinti autodistruttivi o criminali. Punire i bambini senza aiutarli - in modo costruttivo e quindi realmente educativo - a comprendere e a porre rimedio ai propri errori ne è un tipico esempio. Altrettanto dannosa è la tendenza di alcuni adulti a forzare sui bambini la convinzione che alcune loro emozioni, desideri, reazioni, impulsi o comportamenti naturali siano da considerarsi oggettivamente negativi, quindi socialmente inaccettabili e in buona sostanza invalidandone - è proprio questo il termine utilizzato da Steve - gli istinti.
Mi trova in questo perfettamente d'accordo: la punizione come unica interpretazione del concetto di giustizia, nell'educazione dei giovani così come nella teoria Bushana della sicurezza internazionale - "we'll bring them to justice" = li puniremo - non è la via verso un mondo migliore.

(Steve Hein cura un paio di siti sui temi dell'Intelligenza emozionale e dei problemi dei minori: http://eqi.org/ e http://stevehein.com/)

mercoledì 3 settembre 2003

Singapore, 3 settembre 2003

Ieri un'amica Malay mi ha portato a spasso per la citta' in auto. Abbiamo cenato a katong, una stretta striscia di case molto vecchie in cui tradizionalmente vivevano i Peranakan - i mezzosangue - i discendenti dei primi immigrati cinesi che, essendo tutti maschi, si sposavano con donne malay. Col passare degli anni sentendosi esclusi da entrambe le comunità da cui discendevano, diventarono molto fedeli ai dominatori britannici. Questo li favorì nelle attività commerciali con cui molti di essi si arricchirono.
Abbiamo mangiato Laksa, una zuppa di curry e latte di cocco con dei molluschi e verdura. Più tardi abbiamo incontrato un paio di sue amiche, una delle quali era impegnatissima a stendere una lista della spesa da consegnare ad uno spasimante che le ha promesso regali senza limiti di budget. L'episodio la dice lunga sull'ingenuità e la venalità dei singaporiani.

Sono nella cattedrale di S. Andrea, dedicata al santo patrono della Scozia. Dall'esterno sembra una bella chiesa coloniale simile ad altre che ho visto in Asia. L'interno porta invece i tratti dell'ideale di città sul quale Singapore si è andata modellando negli ultimi anni: arredamento moderno, aria condizionata e schermi sospesi sui quali Dio sa cosa verrà proiettato ogni domenica. Persino la scelta dei colori per l'intonaco ricorda il design di alcuni dei negozi di abbigliamento che abbondano nei centri commerciali della città. A Singapore non è un problema mischiare il sacro ed il profano.
Faccio un salto all'istituto di cultura italiana, un piccolo ufficio al settimo piano di un grattacielo che ospita varie ambasciate e, al piano terra, l'immancabile centro commerciale. Sono pronto a scommettere che la signora con cui parlo non è italiana (e nemmeno asiatica), credo che il suo accento sia del nord Europa. La cosa mi lascia perplesso. La signora è comunque gentile e mi promette di aiutarmi nella ricerca di un editore (o "editoriale" come lo chiama lei) per i miei pezzi.

Per cena vado a "little India", un quartiere a maggioranza Tamil e mangio un buon "tali". Gli indiani cominciarono ad arrivare qui all'inizio del 19° secolo. La maggior parte proveniva dal Tamil Nadu, uno stato del sud, ed era impegnata nei lavori più umili. Altri si inserirono nell'organizzazione amministrativa, in quella militare e nella polizia. All'inizio si trasferirono prevalentemente gli uomini, le donne arrivarono solo in un secondo tempo.
Ripensavo alla sera di ieri, alle ragazze malay e all'episodio della lista dei regali. Ricordo bene come quelle stesse ragazze solo tre mesi fa in Thailandia si scandalizzavano davanti al comportamento delle "ladies" thailandesi che "agganciano" gli stranieri al bar o in discoteca in cambio di una manciata di bath o di qualche regalino. Qual'è la differenza tra i loro comportamenti? Chi si mette in vendita e chi invece no? Qual'è la definizione di prostituzione? Chi ha meno scusanti per essere caduta nella trappola del consumismo, dell'apparenza, della venalità? L'ex mondina delle province povere di I-Saan attratta dalle "luci colorate della vita metropolitana" o l'istruita insegnante di una scuola privata della ricca e avanzata Singapore che presenta la lista della spesa ad uno spasimante?
Il culmine è stato toccato quando la ragazza, cercando probabilmente di apparire meno materialista, ha pensato di inserire nella lista dei desideri: "l'uomo dei miei sogni". Le era incredibilmente sfuggito il fatto che "l'uomo dei suoi sogni" era esattamente ciò che il suo genio della lampada cercava (o sperava) di essere.

lunedì 1 settembre 2003

Singapore, 1 settembre 2003

Ho fatto un salto al Raffles place, l'area su cui il "fondatore" della colonia aveva deciso di costruire il centro finanziario e commerciale della città. Fu edificato a partire dal 1822 su terra "rubata" al Singapore river e porta il nome attuale dal 1858, in memoria del suo ideatore.
All'interno della sottostante stazione della metropolitana sono appesi alle pareti foto e dipinti che ritraggono la piazza così com'era agli inizi del secolo scorso. I palazzi e le strade assomigliano a quelli di una vecchia città europea. Bellissima.
Negli ultimi decenni gli edifici delle case commerciali, delle banche e dei negozi sono stati abbattuti - spiega orgogliosamente un'indicazione turistica - e al loro posto sono stati eretti alti grattacieli. Della vecchia piazza non resta ormai che il nome, quello di un uomo che in queste recenti realizzazioni riconoscerebbe poco o nulla del suo progetto, pure ambizioso.