domenica 20 aprile 2003

Rajasthan: l'illusione di una favola - Dharamsala, India

Svegliarsi la mattina su un sedile di un autobus ed osservare, oltre il finestrino, il paesaggio quasi surreale del Rajasthan meridionale e' come non svegliarsi affatto. Si ha l'impressione di trovarsi in un sogno gia' iniziato di cui pero' non si serba alcuna memoria. La luce del giorno che e' appena nato viene riverberata da tutti gli elementi del paesaggio desertico che scorre al di la' del finestrino. La sensazione e' quella di un chiarore quasi insopportabile. Tutto splende di una luce che non e' pero' quella calda che ci si aspetterebbe. E' piuttosto come quella riflessa dalle nevi sulle vette himalayane del nord, a centinaia di chilometri da qui. A rassicurarci che ci troviamo al posto giusto le testimonianze del deserto sono li' a pochi metri oltre il ciglio della strada: i primi cammelli, la sabbia e qualche arbusto qua e la'. Eppure anch'esse sono pronte a fondersi nel bianco gelido assieme alle pareti delle case o ai segni onnipresenti dell'industria del marmo: le cave, le fabbriche e, accatastate sui loro cortili, le lastre della pietra gia' lavorata.
E' una fresca mattina di Febbraio e l'autobus poco piu' che ordinario che qui chiamano "deluxe" scorre veloce, troppo veloce sulla strada stretta e tortuosa che porta ad Udaipur. Entrato in citta' il mezzo si ferma nella prima periferia, sporca, povera e inquinata come quella di ogni altro centro indiano, e fa scendere una simpatica coppia di professori del Sikkim, un piccolo stato nel nord-est del paese. Gli occhi a mandorla, gli zigomi alti e sporgenti, diversi nell'aspetto dagli altri passeggeri, sembrano anche loro degli stranieri in visita.
E' una storia particolare quella del Sikkim. Piccolo regno himalayano incastrato tra Nepal, Tibet cinese, Buthan e Bengala occidentale fu annesso all'India sulla base del risultato di un referendum tenuto nel 1975. Il plebiscito fu indetto dal sovrano di allora, preoccupato per le turbolente agitazioni del movimento per la democrazia appoggiate tra l'altro dal governo indiano. In passato questo regno era stato sotto il controllo dei tibetani prima e degli inglesi poi. Durante l'occupazione britannica il Tibet, che riteneva per ragioni storiche di avere diritto al controllo sull'area, arrivo' ad invadere il Sikkim, subendo quasi subito la controffensiva inglese. Strano precedente questo per una nazione, quella tibetana, che oggi dalla sede del suo governo in esilio a Dharamsala combatte la battaglia per la liberta' dall'occupazione cinese, supportata dalla solidarieta' di migliaia di stranieri affascinati dal carisma della figura del Dalai Lama, la guida spirituale di questo popolo.
La religione predominante nel Sikkim e' il buddhismo. Le due etnie principali sono quella tibetana e quella nepalese. La lingua di quest'ultima e' quella piu' diffusa. Di indiano in questo stato non c'e' molto. "Anche questo cibo ci e' estraneo" scherza il professore davanti a dal e chapati, che da queste parti sono quasi due simboli nazionali. Ma questo non sorprende poi tanto in un paese come l'India in cui sei religioni contano almeno qualche milione di fedeli e in cui sono presenti 18 lingue ufficiali oltre a piu' di un migliaio di dialetti. Un paese in cui non e' un'esperienza rara ascoltare un gruppo di persone che con disinvoltura conversano in inglese pur non essendo degli stranieri.
L'arrivo ad Udaipur mi riserva una piacevole sorpresa. Il guidatore di rickshaw a cui mi rivolgo per farmi accompagnare al tempio Jagdish mi propone una tariffa di molto inferiore alle migliori aspettative ventilate dalla guida che mi porto appresso. Animato dalle precedenti irritanti esperienze di Calcutta, Varanasi e Nuova Delhi mi ero preparato una risposta indignata che pero' sono costretto a strozzare in gola non senza provare qualche senso di colpa per l'ingiusto pregiudizio. In questo paese si e' purtroppo facilmente indotti a sospettare e dubitare di chiunque. Offre sollievo scoprire che ovviamente la maggioranza della popolazione e' gentile, corretta e disposta ad aiutare l'ospite. Ma al contempo fa anche rabbia scoprire che il nostro cuore si lascia indurire cosi' facilmente dal comportamento dei numerosi personaggi disonesti e spregiudicati con cui il visitatore straniero ha spesso a che fare.
Udaipur e' una citta' incantata. Gli stretti vicoli del centro, i saliscendi, i templi, le haveli (le antiche residenze decorate di ricchi mercanti), il lago Pikhola e i palazzi sontuosi danno l'impressione a chi e' appena arrivato di aver effettuato uno strano viaggio che dalla realta' lo ha portato nello scenario di una favola d'altri tempi. Il Lake Palace, su di un'isola nel lago, lo Shiv Niwas Hotel e il Monsoon Palace, sul cucuzzolo di un monte oltre la riva opposta del Pikhola, sono stati il teatro di numerose scene di Octopussy, un film della saga 007. La pellicola viene ora riproposta ogni sera con tenace monotonia nei ristoranti della citta'.
Alcuni edifici nel complesso del City Palace sono sfarzosi al limite del pacchiano. Mosaici, vetri e mattonelle colorate decorano esterni e interni delle ricche sale adibite a museo. Altri due edifici ospitano altrettanti hotel di lusso. Non si riesce a muovere un passo senza dover comprare un nuovo biglietto d'ingresso. La lista delle tariffe e' complicatissima, sembra essere stata compilata da un enigmista o da un burocrate del ministero delle finanze. Il giro in barca sul lago costa 150 rupie ma per attraversare il viale che dalla biglietteria porta al molo bisogna munirsi pure del biglietto d'ingresso all'area ristretta. Quest'ultimo non da' diritto all'entrata al museo per la quale e' necessario comprare un ulteriore tagliando. A meno che non si acceda al museo dalla porta settentrionale bisogna poi pagare l'esosa "tariffa per visitatori". L'entrata delle macchine fotografiche costa come un rullino, quella delle telecamere quattro volte tanto. Una guida costa 70 rupie ma se volete che le spiegazioni siano in una lingua diversa dall'hindi dovete pagare un supplemento di 25 rupie. E cosi' via per numerose altre voci. E' solo un esempio di come in questo paese in cui la vita di tutti i giorni sembra seguire il suo corso senza obbedire ad alcuna regola (e di questo molti indiani tendono a vantarsi) alcune aree della societa' sono invece impigliate in una burocrazia e in una serie di norme che creano ancor piu' confusione, una delle poche cose di cui qui non c'e' sicuramente bisogno.
Il giro in barca permette di osservare da vicino l'elegante esterno del Lake Palace e di visitare il palazzo di Jagmandir che sovrasta l'altro isolotto che fronteggia la citta'. Ma soprattutto offre l'occasione di ammirare lo splendido tramonto da una posizione privilegiata. A quest'ora della sera la magia di Udaipur entra in scena con abiti diversi. Col calar del sole cambiano i colori dei riflessi sulle vetrate, sulle mattonelle e sulle facciate dei palazzi. Alcune abitazioni si mimetizzano, altre sbucano come dal nulla per imporsi sul nuovo sfondo. Ogni elemento trova il suo infedele doppione riflesso sullo specchio d'acqua.
Piu' tardi chiedo ad un turista neozelandese che si e' goduto il costoso buffet al Lake Palace com'e' il palazzo al suo interno. "Bello, ma non tanto quanto ti aspetteresti dopo averlo visto da fuori". Meglio il bar dello Shiw Niwas Hotel in cui per entrare bisogna ingannare la formalissima sorveglianza con qualche innocua bugia. Si dice che i proprietari di questi palazzi, i discendenti degli antichi signori di queste citta', da quando alle loro famiglie sono venute a mancare le entrate provenienti dalle tasse imposte alla popolazione locale, non solo non sono stati piu' in grado di mantenere questi costosi edifici ma nemmeno la vita oziosa e dissoluta che, assieme ai loro familiari, si dice conducano nei luoghi piu' in e costosi del mondo.
Il giorno finisce accompagnato dal suono martellante dei battipanni impugnati dai dhobi - i lavandai - che, per quattro lire, percuotono incessantemente il bucato sui gath, le scalinate che scendono alle acque del lago.

Pushkar, sei ore di autobus a nord-ovest di Udaipur, e' una delle numerose citta' sacre per gli hindu. Decine di Sadhus (individui alla ricerca spirituale dell'illuminazione), con la barba e i capelli incolti, passeggiano per la citta' avvolti nelle loro tradizionali vesti arancioni. Il consumo di alcol, della carne e persino delle uova e' proibito. E' vietato scendere le scale dei gath e avvicinarsi alle acque del lago che da il nome alla citta' senza essersi prima tolti le scarpe. Niente fotografie o riprese nelle vicinanze delle acque sacre.
Nessun divieto invece riguardo il consumo di charas (l'hashish indiano). I Bang Lassi, yoghurt liquidi "insaporiti" con un pizzico di charas, vengono serviti ai tavolini dei bar improvvisati lungo la via principale. Al gath orientale, ottimo punto per osservare un suggestivo tramonto, nessun divieto per chi, dopo essersi zelantemente tolto le scarpe, cerca di vendere patacche o raggirare le decine di turisti assiepati sulle scalinate. Nessuno proibisce ad un saltimbanco locale in equilibrio precario su una strana biciclettina di esibirsi nelle sue evoluzioni, alcune delle quali masochistiche e alquanto disgustose. Si passa la fiamma di una candela sulla pelle, si cosparge il corpo con la cera bollente e infrange delle lampade al neon con il petto provocandosi sanguinose ferite. Non contento termina il suo spettacolo masticando e inghiottendo i frammenti di vetro del tubo utilizzato nel numero precedente. "Che s'ha da fa' pe' campa'"...viene da pensare. Donne indiane insolitamente loquaci e aperte camminano con le loro borraccette di henna - il pigmento con il quale, per qualche rupia, dipingono le mani dei passanti con dei disegni propiziatori. Una volta assicurata l'illusione del sacro, in questa citta' il profano e' libero di prendere il sopravvento.
Pushkar e' troppo piccola per sopportare l'enorme flusso di "hippy della domenica" che vi arrivano ogni giorno. Ha l'aria di una citta' stravolta, dal volto sfigurato. Quale fosse la sua faccia originale, di quando era semplicemente un piccolo centro sacro, io non lo so, lo posso solo immaginare. Forse non lo ricordano nemmeno i vecchi, dall'aria sconfitta, che trascorrono le giornate seduti sul ciglio della strada, tra spazzatura e sterco di vacca, con la mano tesa per chiedere l'elemosina.

Ho visto abbastanza, decido di proseguire. La mia prossima meta e' Jaisalmer, costruita attorno ad un enorme forte, nel mezzo del deserto del Thar, non distante dal confine con "l'odiato" Pakistan.
L'autobus si ferma per una breve sosta a Pokaran, pochi chilometri ad est di Jaisalmer. In quest'area nel 1998 il governo indiano fece eseguire dei test con cinque ordigni nucleari. La scelta della zona di confine come teatro delle esplosioni non fu casuale. Pochi mesi dopo le autorita' pakistane, accettando la provocazione, decisero di testare le loro atomiche. L'escalation della crisi ha portato alcuni mesi fa alcuni rappresentanti dei due governi ad ammettere il rischio di un conflitto nucleare - facendo rabbrividire l'opinione pubblica internazionale. Solo l'intervento diplomatico degli Stati Uniti aveva convinto le due parti ad abbassare i toni. In un articolo d'opinione - pubblicato da un noto quotidiano indiano in lingua inglese - l'autore si chiedeva come la piu' grande potenza mondiale potesse essere in grado, a soli pochi mesi di distanza, di affrontare la questione sub-continentale con tanta abilita' e quella irachena con tale inflessibile ottusita'.
La questione indo-pakistana affonda le proprie radici nel terreno minato del processo d'indipendenza dal dominio britannico, al termine del quale i due stati furono ufficialmente creati. Correvano i tempi delle "battaglie non violente" di Gandhi e dei suoi seguaci. Piu' l'ipotesi dell'indipendenza sembrava realizzabile, piu' la frattura tra la fazione hinduista e quella musulmana si allargava. Al momento della partenza degli inglesi, contro le resistenze del "Mahatma", due stati furono creati: l'India, nell'area a maggioranza hindu, e il Pakistan, in quella in cui l'Islam era la religione predominante. Per tragica ironia quest'ultima soffriva di una soluzione di continuita' e il Pakistan risulto' composto da due blocchi - occidentale e orientale - separati da migliaia di chilometri di territorio indiano. Quest'assurda "frattura nella frattura" porto' alla creazione, venticinque anni piu' tardi, del Bangladesh, sulle ceneri - o meglio sulle pianure allagate - di quello che era stato il blocco orientale dello stato musulmano.
Subito dopo l'ottenimento dell'indipendenza la tragedia intuita da Gandhi non tardo' a manifestarsi in una disumana esplosione di disperazione, miseria e violenza. Interminabili colonne umane cominciarono a snodarsi lungo le strade che attraversavano i confini. Famiglie intere con bambini, anziani e i pochi oggetti che riuscivano a trasportare lasciavano le case, i parenti, gli amici e la loro storia alle spalle per raggiungere la terra assegnata al loro credo. Innescata da un miscuglio di disperazione, diffidenza, panico e odio scoppio' la bomba della violenza che, alimentata dalla propaganda dei fanatici, si diffuse a macchia d'olio tra le carovane e nelle citta'. In nome della propria fede si cominciarono a commettere i crimini piu' assurdi e terribili. Senza alcun freno etico o perlomeno umano succedeva cosi' che un padre hindu a cui era stato ammazzato il figlio scegliesse a caso uno o piu' bambini di famiglia musulmana e li sventrasse senza pieta' a colpi di machete. E viceversa. La gente moriva a migliaia. In gran parte innocenti, donne e bambini. Il macello, i massacri metropolitani cessarono ancora una volta anche per merito di Gandhi. E questo fu l'ultimo atto della sua eroica vita, prima di essere assassinato da un gruppo di integralisti hindu.
La tensione, l'odio, la diffidenza e la propaganda pero' non svanirono mai. E non e' solo una questione fra i due governi. La maggior parte degli indiani considera i pakistani como loro nemici, senza averne nella grande maggioranza dei casi mai incontrato uno. Mi e' capitato di parlare di questo argomento con il capo di una pattuglia di poliziotti a Varanasi, dei passeggeri in treno, gente comune al ristorante, nei negozi e per la strada. Ascoltavo sempre la stessa cantilena. "I musulmani, i pakistani fomentano il terrorismo, cercano lo scontro, sono mossi dall'odio". E ancora: "Il nostro paese deve difendersi, la comunita' internazionale deve aiutarci a combattere il terrorismo e il Pakistan". E' proprio questo uno degli aspetti piu' controversi della vicenda. Ripetutamente infatti le autorita' indiane hanno cercato di cavalcare l'onda della lotta al terrorismo con l'intento di coinvolgere le potenze occidentali nella questione delle terre contese del Kashmir. E gli Stati Uniti si guardano bene dall'assecondare le richieste indiane, preoccupati come sono di mantenere la preziosa alleanza del Pakistan nella loro crociata al terrorismo.
'Chello Pakistan!' significa: 'Ma vai in Pakistan!'. E' questa l'espressione con cui gli indiani si mandano scherzosamente a quel paese. Loro ridono, io chiedo perche'. "Nessuno vorrebbe andare in Pakistan, non capisci?" mi risponde un giovane che aveva appena sfottuto con quell'espressione un vecchio mendicante. Io non capisco. "No, probabilmente mi sfugge l'umorismo indiano" rispondo in tono leggermente provocatorio. Il giovane non comprende a cosa io mi riferisca, non gli passa nemmeno per la testa che qualcuno possa effetivamente voler andare in Pakistan. Continua a ridacchiare cercando consensi. Non si capacita del fatto che qualcuno non colga l'evidente ironia del "chello Pakistan!" e nemmeno immagina che io quell'espressione la disprezzi. E ancor meno che la consideri la punta dell'iceberg dell'odio ingiustificato, di una propaganda subdola ed estremamente pericolosa.
Ma dove e' andata a finire la spiritualita' dell'India? Una delle facce di una cultura millenaria, di una filosofia che parte da presupposti diversi da quelli occidentali. L'alternativa, l'altra via, la possibilita' di salvezza. Quella spiritualita' che tanti giovani europei, americani, australiani, israeliani, giapponesi e coreani sono venuti e continuano a venire a cercare. E' chiusa all'interno degli Ashram? Delle comunita', delle sette? Nei centri di yoga o di meditazione vipassana? Nelle pratiche Ayurvediche? Segregata, senza contatti con l'esterno? E' appannaggio dei soli guru e dei loro seguaci? Perche' non se ne vedono i segni nella societa' civile, per le strade? Quelle strade in cui la mancanza di risorse primarie per la maggioranza della popolazione ha liberato il campo per l'odio, l'egoismo e la violenza.
Dovunque vado l'India mi sbatte in faccia i suoi problemi e i suoi peccati. A brutto muso, senza tanti veli. L'odio verso i nemici esterni e interni non e' l'unica piaga che affligge il paese. Sporcizia, poverta', inquinamento, "maleducazione civica", e un becero materialismo saltano prepotentemente agli occhi di ogni osservatore.
La spazzatura, a tonnellate, sgorga da ogni angolo, scende verso i fiumi e i laghi. Dalle scarpate ferroviarie e dai burroni di montagna. Dai palmeti nelle spiagge verso il mare. La noti dappertutto, tranne che nei cestini dei rifiuti. E la ragione e' semplice: di cestini non ce ne sono, o ce ne sono pochissimi. Il cittadino "responsabile" puo' camminare per chilometri con un sacchetto di plastica o una carta sporca in mano, prima di arrendersi e buttarla in un cumulo che forse qualcuno spazzera'. La pratica comune e' un'altra. I rifiuti vengono candidamente gettati dai finestrini dei treni, degli autobus e delle auto. Lasciati cadere in mare da qualsiasi imbarcazione. Buttati dalla finestra della cucina, magari sulla testa di qualche malcapitato. I passanti se ne disfano sovrappensiero insozzando marciapiedi e prati.
La situazione raccapricciante delle 'slums', le pessime condizioni igieniche di questi quartieri le cui case sono costruite con vecchi sacchi di riso e fogli di nylon ridotti a brandelli, la vedi scorrere al di la' del finestrino del treno che esce o entra nelle stazioni di Delhi, Calcutta o Bombay.
Le orde di bambini e vecchi con le mani e i piedi mutilati, sporchi, vestiti con stracci maleodoranti, con le chiome che sembrano cespugli, ti assalgono ad ogni angolo di qualsiasi citta'. E tutti imparano, chi prima chi dopo, chi in un modo chi in un altro, a ignorarli. A fare finta che non ci siano o a minimizzarne il dramma della situazione. Diventano come delle mosche sporche e fastidiose. Ci sono, non ci si puo' far niente. E poco importa se le mutilazioni sono frutto di incidenti e malattie o se sono state tremendamente inflitte ad arte per impietosire, per sciogliere il cuore del generoso passante. I moncherini sono li', davanti a te, la carne annerita dal sudicio o da chissa' quale strumento o infezione. Le vacche non vanno mangiate perche' sono sacre agli hindu. I maiali perche' sono immondi per i musulmani. Questi derelitti invece non li difende nessuna tradizione. Li puoi pure prendere a calcioni se danno fastidio alla clientela del tuo locale.
"E' la sovrappopolazione" ti dicono quelli che stanno bene. "Se ci fosse meta' della popolazione questo sarebbe un grande paese". Uno prende atto dell'ammissione del fatto che un gran paese quindi l'India non lo e'. E su questo, nonostante tutto, non sono completamente daccordo. Ma qui parlano di sovrappopolazione come se fosse una calamita' naturale, un fendente improvviso calato dal cielo che in un solo attimo ha fatto piu' che triplicare il numero di abitanti. Poco piu' di trecento milioni negli ultimi decenni della dominazione coloniale, includendo anche gli attuali Pakistan e Bangladesh. Oltre il miliardo ora. Di preciso chi lo sa? Non credo che qualche zelante funzionario dell'istituto nazionale di statistica sia andato a censire la popolazione delle 'slums'. Me lo vedrei proprio, vestito di tutto punto, con le cartelle in mano, su strade infangate, tra bambini affamati che piangono, vacche sudice, cani rognosi, di catapecchia in catapecchia, di porta in porta (che poi sono dei semplici sacchi di riso), chiedere: "Signora, in quanti vivete in questo angusto tugurio? Quindici? Ah, no...quattordici, capisco, il piu' piccolo non ce l'ha fatta, se n'e' andato ieri notte...".
"Non credo che ve ne siate accorti solo ora di essere in sovrannumero" chiesi una sera ad un signore durante uno dei miei interminabili viaggi in treno "forse lo stato sarebbe dovuto intervenire in passato".
"Questo e' un paese democratico" rispose lui con piglio orgoglioso "qui le politiche di controllo delle nascite come quelle della Cina non si possono attuare. Qualcuno ci ha provato ed ha miseramente fallito". Si riferiva probabilmente al disastroso e impopolare programma di sterilizzazione forzata promosso da Sanjay, figlio di Indira Gandhi e fratello di Rajiv.
"Ma in un paese democratico si possono utilizzare gli strumenti della sensibilizzazione, dell'educazione, si puo' insegnare alla gente che un figlio in piu' non significa necessariamente un maggior reddito per la famiglia. Si puo' insegnare alla gente ad usare i metodi di contraccezione. Cosa ha fatto il governo indiano in merito? E, se ha fatto qualcosa, quando ha cominciato?". Sguardi perplessi, risposte vaghe e un po' stizzite. La sovrappopolazione intesa come calamita' naturale e' una spiegazione che probabilmente fa comodo a molti.

Il traffico, l'inquinamento e l'assenza di educazione stradale, in particolare la mancanza di rispetto per i pedoni, fanno apparire al confronto Napoli, Roma o Milano delle citta' modello in stile scandinavo. In molte citta' indiane l'aria e' indubbiamente irrespirabile. Il traffico e' spesso paralizzato e l'unica soluzione al problema che viene in mente all'automobilista locale e' quella di infierire sul clacson della propria vettura. Le rilevazioni statistiche di una nota guida turistica hanno rivelato che il clacson di ogni veicolo viene in media utilizzato dalle 10 alle 20 volte per chilometro! Attraversare la strada nelle metropoli indiane puo' essere spesso un'impresa impossibile. Anche se il traffico e' bloccato gli automobilisti tendono a disporre i loro mezzi in modo da non lasciare spazio sufficiente nemmeno per il passaggio di una persona a piedi. Se il traffico poi non e' bloccato la situazione non migliora di molto. Pochissimi automobilisti tendono a fermarsi nel caso la carreggiata sia impegnata da un pedone. La maggior parte di essi si aspettera' che l'importuno si tolga di mezzo prima dell'arrivo del loro veicolo. Degli 80.000 morti annuali per incidenti stradali, il 10% sono pedoni e ciclisti. Gli autisti degli autobus, poi, sono spesso pagati in base al numero di passegeri che utilizzano il mezzo e multati per ogni minuto di ritardo accumulato a fine corsa. Nel caso di corse notturne a lunga percorrenza sembra che l'uso di anfetamine tra i conducenti sia una pratica in continua diffusione. Si possono facilmente immaginare le tragiche conseguenze di questo folle mix di regole assurde e comportamenti irresponsabili.
La cosa che forse piu' ferisce, pero', e' lo scoprire come il materialismo e l'avidita' abbiano fatto passi da gigante in India. Chi non ha niente sembra essere lasciato al suo destino. I pochi che hanno in abbondanza vivono imbambolati nella favola occidentale. Basta osservare quello che la pubblicita' e le serie televisive cercano di propinare alle classi piu' abbienti per rendersi conto di quali e quanti falsi miti siano stati importati dall'occidente. Se la societa' indiana fosse quella mostrata dalla TV, essa girerebbe attorno a telefonini, campi da golf, profumi, cosmetici, vestiti costosi e cioccolatini. Basta uscire dalla propria stanza d'albergo e fare quattro passi per rendersi conto che la realta' e' ben diversa. Colpa nostra? Beh, per buona parte forse si'. Ma se e' vero che l'occidente e' uno zelante docente in materialismo, e pur vero che l'India puo' essere considerata un allievo modello.
Cosa si puo' dire poi del resto della popolazione, chi non muore di fame e non e' nemmeno ricco sfondato? E' una domanda che resta facilmente senza risposta ma se l'osservatore dovesse valutare con gli occhi del turista il giudizio sarebbe davvero scoraggiante. Il visitatore straniero e' visto troppo spesso come una mazzetta di dollari con le gambe e le braccia ma stranamente senza testa. Truffe, raggiri, rapine e persino atti di violenza sono all'ordine del giorno, dell'ora e del minuto. Non c'e' turista straniero in India che non sia costretto a tenere gli occhi aperti tutto il tempo e che non sia stato piu' o meno consapevolmente "fregato" (nel migliore dei casi) numerose volte. Ne ho la conferma proprio nel tragitto verso Jaisalmer. Devo cambiare autobus a Jodhpur. Il mezzo e' gia' entrato in citta', io sto chiacchierando con Giuseppe, un pugliese che abita a Milano. L'autobus si ferma. Alcune persone si avvicinano ai finestrini e ci invitano ad uscire. Ci informano che siamo arrivati al capolinea. Noi non siamo convinti. Non ci sembra di essere in una stazione degli autobus e molti dei passeggeri indiani non si alzano dai loro posti. Perplessi decidiamo di restare a bordo. A quel punto pero' si fa avanti il controllore che ci conferma la notizia: siamo arrivati a Jodhpur, e' l'ora di scendere. L'autorita' del controllore ci ha quasi convinto, stiamo per prendere i bagagli e uscire. Per scrupolo chiediamo informazioni ad un passeggero che, a bassa voce, senza farsi notare, ci fa sapere che la stazione degli autobus e' a qualche chilometro di distanza e ci consiglia di restare nel mezzo. Scopriamo il retroscena: gli individui che ci invitavano a scendere sono autisti di autorickshaw in cerca di accaparrarsi una corsa e il controllore guadagna una "percentuale" per ogni "vittima" consegnata nelle mani dei "carnefici". Mi accorgo solo dopo averlo fatto di aver mandato a quel paese con un'espressione da osteria uno dei truffatori che candidamente mi sorrideva e salutava mentre l'autobus ripartiva.

Arrivare in una citta' come Jaisalmer e' un'esperienza che ti riappacifica con questo pur sempre gran paese.
Le guide turistiche e gli opuscoli descrivono Jaisalmer come una citta' da "Arabian nights", da "Mille e una notte". Non si puo' che essere d'accordo. Il mastodontico forte, al cui interno vivono ancora migliaia di abitanti, sovrasta tutto il resto. Al suo interno templi, palazzi, case e negozi sono tutti di un colore. Lo stesso della sabbia del deserto e del manto dei cammelli. Alla luce del tramonto tutto sembra dorato, da cui il soprannome della citta': "The golden city". Camminare lungo il labirinto di strettissime viuzze e' un piacere che ha un sapore misto di antico e di irreale. Da un punto di osservazione sopra le mura si scorge chiaramente, a qualche centinaio di metri di distanza, il limite netto della citta'. Oltre tale limite il nulla, anzi il deserto, che nulla proprio non e'.
Per rendersene conto basta trascorrervi una notte. Stare seduti in completa solitudine sulla sommita' di una duna che sovrasta le altre durante l'ora che precede il tramonto. I pensieri scelgono autonomamente il loro percorso incoraggiati dall'atmosfera di pace e tranquillita' che regna in questo posto, in questo momento. Questa falsa prospettiva regala l'illusione di dominare il deserto. Niente di piu' falso. La percezione sarebbe ben diversa senza la rassicurante presenza dei cammelli e delle guide. Le nostre "navi del deserto", finalmente libere dal pesante fardello di selle e bagagli, pascolano in compagnia delle femmine, inadatte al trasporto di uomini e merci a causa della loro naturale irrequietezza e percio' utilizzate solamente per scopi riproduttivi. I cammellieri, sul focolare che hanno acceso, preparano la cena. Gente del deserto, nata qui e mai stata altrove.
"Ho cominciato a fare il cammelliere a 8 anni, da allora non ho fatto altro" racconta uno dei due, l'unico che parla un po' di inglese. Ora di anni ne ha 20 ma il suo volto, con la pelle annerita e seccata dal sole, e' quello di un quarantenne.

In citta', come in tutta l'India, e' scoppiata una nuova febbre. L'argomento delle conversazioni e' uno solo. Non l'imminente guerra in Iraq che, non fosse altro per la grande presenza musulmana nel paese, dovrebbe generare interesse e apprensione. E' bensi' quello dei mondiali di cricket che sono appena iniziati in Sud Africa e Kenya. Questa disciplina un po' antiquata, eredita' coloniale dell'impero britannico, e' qui considerata sport nazionale. "Per noi e' come una fede, una religione" mi dice un giovane il cui sogno e' quello di emigrare in Europa. In effetti e' forse piu' di una religione. Mette infatti daccordo fedeli di ogni credo, membri di caste diverse, centralisti e indipendentisti, poveri e ricchi. Tutti si ritrovano ipnotizzati davanti agli schermi onnipresenti che trasmettono le partite della nazionale. Chiunque si cimenta nel batting: cercare di ribattere la palla lanciata dall'avversario usando un martellone poco maneggevole. Almeno sul cricket, in India, non ci sono spaccature.

Ho avuto fortuna. A Jaisalmer in questi giorni si tiene il festival del deserto. Gare di cammelli, musiche tradizionali, competizioni per i baffi piu' belli, per l'arrotolamento del turbante, per Miss e Mister deserto ed altre esotiche attivita' compongono il programma. Allo "stadio" il vincitore della gara dei baffi esibisce orgoglioso i sui mustacchi: ogni estremita' e' lunga piu' di mezzo metro, e' curatissima, di un brillante nero corvino e viene normalmente tenuta arrotolata.
E' quindi l'ora delle competizioni dei turbanti: quella per indiani e quella per stranieri. Durante la seconda accade qualcosa che rompe l'atmosfera di seriosa formalita' che regna sul festival. Un tizio pelato sale sul palco esaltatissimo e dopo pochi secondi si e' gia' capito che non e' assolutamente interessato alla natura della competizione. Lo riconosco, fa parte di un gruppo di artisti italiani che ho visto al forte qualche giorno prima: i "Giullari senza frontiere". Il giovane improvvisa un numero irresistibile. Dopo il segnale d'inizio del serissimo giudice i partecipanti si impegnano alacremente per arrotolarsi in testa la striscia di stoffa che hanno a disposizione. Il clown, con mosse professionali degne del miglior Charlot, ci si impiglia dal collo ai piedi, sembra non potersene piu' liberare. Per un paio di minuti continua ad inventarsi delle trovate esilaranti.
All'inizio il pubblico e' spiazzato, poi lentamente capisce. Le prime risate sono quelle dei bambini a cui si aggiungono poco dopo i genitori e gli altri spettatori. Quando l'artista per liberarsi un braccio finge di strozzarsi o di spremersi le pudenda le gente e' piegata su se stessa dalle risate, si regge lo stomaco, molti hanno le lacrime agli occhi. Gli altri concorrenti non se ne accorgono o non capiscono e continuano imperterriti ad arrotolare i loro turbanti. Al fischio finale il clown afferra con entrambe le mani la matassa informe e se la poggia sulla testa. Quindi fa scivolare abilmente i pantaloni a terra e, fermo in mutande con le mani in testa a reggere il turbante, si rivolge al pubblico con un'espressione sorpresa e imbarazzata alla Stallio e Ollio. Poi per tirarsi su i calzoni lascia cadere il turbante. Decide quindi di reggerli entrambi. Ora che la situazione e' sotto il suo controllo sfoggia un sorriso soddisfatto e annuisce ai suoi vicini. Ormai anche lo speaker e' stato catturato, si e' lasciato andare e commenta le goffe gesta del bravissimo comico. Il pubblico si e' ormai dimenticato della competizione e continua a sbellicarsi dalle risate. Nessuno segue la premiazione che avviene proprio mentre il pagliaccio porge un capo della sua striscia di stoffa ad un concorrente, si preme l'altra sulla fronte e comincia a girare su se stesso per arrotolarla. Conclude facendosi allacciare i pantaloni dalla vincitrice, sfoggiando mosse e sguardi maliziosi. Esce quindi esultando e salutando tra l'ovazione del pubblico.
Un componente del gruppo mi spiega che i "Giullari senza frontiere" viaggiano prevalentemente in paesi in via di sviluppo e si esibiscono in citta' o in piccoli villaggi per la gioia di grandi e piccini. Non hanno scopi di lucro. Se le autorita' locali decidono di aiutarli con qualche sovvenzione ovviamente accettano. Altrimenti non fa niente. Lo spettacolo si fa comunque! E' una bella iniziativa quella di questo gruppo italiano di volontari che viaggia, anche in Asia, per far ridere la gente. Che svolgano bene il loro compito e' dimostrato dalla reazione degli indiani ai loro spettacoli.
Molte delle ONG e dei loro volontari che operano in questo continente lavorano seriamente e con competenza. I risultati raggiunti sono incontestabili. Alcune situazioni in cui mi sono imbattuto in Laos, tanto per fare un esempio, mi hanno pero' lasciato perplesso. A Luam Namta, una citta' del nord, mi capito' di osservare una volontaria giapponese che saliva su una delle bellissime e bianchissime Jeep di una ONG, assieme a due amiche, evidentemente due turiste, sicuramente non delle volontarie. Chiacchieravano e scherzavano. Le udii chiedere all'autista di accompagnarle in un villaggio. Davano l'impressione di andare a trascorrere un'allegra giornata in compagnia. A Vientiane, la capitale del Laos, sedevo ad un tavolo di un buon ristorante francese. Ad un tratto un folto gruppo di persone entro' e si venne a sedere a pochi metri da me. "Spiando" la loro conversazione capii subito che si trattava di volontari di una o piu' ONG. C'erano dei francesi, degli inglesi e delle belle ragazze laotiane. Erano tutti vestiti con abiti cari e alla moda e chiacchierarono per tutta la serata affrontando argomenti vari. Mai pero' li udii soffermarsi su problemi o avvenimenti legati alla loro attivita' nel paese, se non per raccontare qualche divertente aneddoto. Alla fine della loro costosa cena si avviarono verso un altro locale.
Scene dello stesso tipo se ne vedono spesso a Vientiane, a Phnom Phen e nelle altre localita' del sud est asiatico in cui la presenza delle organizzazioni internazionali e' massiccia. Si puo' sicuramente obiettare che in tutto cio' non vi sia niente di male. Una ragazza porta le amiche in un villaggio, a visitare la scuola in cui insegna. Un posto molto pulito. Dei ragazzi occidentali, a migliaia di chilometri da casa, dopo una giornata di lavoro, si ritrovano per una serata assieme e vogliono parlare di qualche argomento che non sia inerente la loro attivita' quotidiana. Qualcuno di loro vive li' gia' da molti mesi e si e' innamorato di una bella ragazza del posto. Niente di male, no? Gia', niente di male. Ma non e' a causa di qualche maliziosa deduzione che fui e resto perplesso. E' per la forte sensazione che provo ogni volta che sono testimone di episodi del genere. Mi sembra che ad alcune persone di quello che fanno in quei paesi non importi poi molto. Come se fosse una copertura per un piacevole soggiorno in una bella localita' esotica. Ecco, questa impressione i "Giullari senza frontiere" non me l'hanno data. Hanno l'aria di chi ama la professione che ha scelto. La loro missione e' semplice ed efficace. E soprattutto non sembrano nascondere ipocritamente il loro desiderio di godersi anche tutte le altre soddisfazioni che un viaggio in India, Brasile o Palestina puo' regalare.

Lascio Jaisalmer con un autobus per Jodhpur dove mi trattengo solo per qualche ora. Giusto il tempo per dare un'occhiata al forte, al quartiere blu, dal colore con cui gli occupanti hanno dipinto alcune delle case, e l'enorme cappa di smog che copre la citta', paurosamente visibile da un'altura nei pressi della torre dell'orologio.
Salgo quindi su un treno notturno per Nuova Delhi e, tra venditori di chai, samosa, riso, e catene con lucchetto per assicurare i bagagli, mi lascio alle spalle il Rajasthan, una terra che, come il resto dell'India, si dice che o l'ami o l'odi. Quando lo chiederanno a me non avro' dubbi, rispondero' che l'odio e l'amo.