venerdì 3 ottobre 2003

Birmania: sogni con la cravatta. Kuala Terengganu, Malesia

Seduto in un comodo autobus che scorre via lungo un'autostrada della Malesia, anche i drammi dei popoli e dei paesi più vicini sembrano problemi di un altro continente.
Mi ero preparato ad un lungo e noioso tragitto, da trascorrere leggendo ed ammirando, di tanto in tanto, la stupenda costa orientale della penisola. Come spesso accade invece, è il caso a riservarmi gli incontri più interessanti. Quello che mi attendeva oggi in quest'autobus cambia il sapore della mia comodità, strappa me e la Malesia dall'ovattata illusione dello sviluppo tecnologico e sociale, e ci riporta nel complesso contesto regionale in cui siamo inseriti.
Viaggia sul mezzo un folto gruppo di ragazzi che, a giudicare dall'aspetto e dalla lingua che parlano, non sembrano del posto. Durante una sosta presso una stazione di servizio faccio due chiacchiere con un cinese di Kuala Lumpur, il quale mi spiega che sta accompagnando il gruppo di stranieri nello stato di Terengganu, dove c'è già un impiego che li attende.
Sono birmani, appena arrivati da Rangoon. Ognuno porta al petto un tesserino identificativo. Indossano camicia e cravatta. L'unico di essi che parla un po' di inglese mi mostra orgogliosamente un foglietto su cui ha appuntato l'indirizzo della sorella che vive in California. Poi mi porge il suo passaporto e mi chiede se posso mostrargli il mio.
Il libretto che ho tra le mani mi fa tornare alla mente tante conversazioni avute in Birmania - a volte al tavolo di una "tea house", altre in uno scomodo autobus notturno. Quante volte a Rangoon, a Mandalay, al lago Inle ho sentito parlare di quel documento - apparentemente ordinario - come se fosse il simbolo del sogno di una vita, un tesoro tanto agognato, ma forse irraggiungibile.
Abituati ad averne uno tramite una semplice pratica burocratica, non immaginiamo nemmeno quanto prezioso possa essere un passaporto per il cittadino di un paese come l'Unione del Myanmar. Significa un lavoro all'estero - in Malesia, a Singapore, in Giappone -, significa un po' di denaro per sé e la famiglia, lo stomaco finalmente pieno, la possibilità di mandare il figlio o il fratello all'università o di aprire un'attività una volta tornati in patria. Con quel libretto in mano, mentre osservo il visto malesiano stampigliato sull'unica pagina utilizzata, penso alle probabili storie di quei ragazzi. Quanti sogni dietro a quel viaggio, a quella camicia e a quella cravatta - forse annodata dalla madre all'alba - che alcuni portano con l'aria di non averne mai indossata una.
Quanti sacrifici per pagare il mediatore che si è occupato di "oliare" tutti gli ingranaggi della macchina burocratica, nonché di far saltar fuori l'impiego all'estero. Lavori umili, nelle imprese di costruzione, in qualche fabbrica, i più fortunati in un ristorante. Lavori duri con cui nei paesi più ricchi nessuno più vuole avere a che fare ma che per questi ragazzi - e ancor più per le loro famiglie - valgono come l'oro.
Non hanno molte speranze a casa, in uno stato che al termine dell'occupazione britannica - in quanto a potenzialità - si collocava, in Asia, alle spalle del solo Giappone. Ricca di risorse, con un ottimo sistema educativo, un altissimo livello di istruzione e una diffusa conoscenza dell'inglese, la Birmania si preparava - alla fine della seconda guerra mondiale - a spiccare il salto verso lo sviluppo. E' invece caduta nel baratro della guerra civile, dell'involuzione, della dittatura e della povertà.
Per decenni il popolo birmano ha sopportato le angherie a cui la dispotica giunta militare lo ha sottoposto. A centinaia i dissidenti sono stati arrestati, torturati, mandati ai lavori forzati e uccisi. A volte anche solo per una battuta sui potenti, come successe a Par Par Lay, un componente del gruppo 'Mustache Brother' - i Beppe Grillo o i Roberto Benigni birmani - che andai a vedere una sera a Mandalay. Si esibivano - non essendo autorizzati a farlo in luogo pubblico - nel garage di casa, davanti a cinque o sei spettatori accomodati su semplici sedie da cucina. Durante lo spettacolo il fratello minore raccontò la triste storia di Par Par Lay, finito per sei anni in un campo di lavoro a Myitkyina - nel nord del paese - a causa di una battuta satirica all'indirizzo del governo.
Nonostante tutto i birmani hanno resistito, hanno piegato la testa e hanno continuato a vivere le loro vite, per quanto dure e umilianti queste potessero essere. Ora però devono far fronte ad un'ulteriore minaccia, forse la più tremenda: l'estrema povertà, e con essa la fame. L'incompetenza della giunta e le guerre che il governo centrale ha combattuto contro gli eserciti ribelli hanno messo in ginocchio l'economia del paese. Inoltre le sanzioni economiche internazionali applicate nei confronti della dittatura hanno avuto l'effetto di lasciare a casa migliaia di lavoratori, mandando le loro famiglie sul lastrico.
Mentre ero in viaggio nel paese lo scorso ottobre mi capitò spesso, troppo spesso, di ascoltare delle storie, tutte simili tra loro. Storie di uomini e donne, che si lamentavano per non essere ormai nemmeno in grado di comprare la quantità di riso necessaria a sfamare i loro figli. Storie raccontate solo per far sapere, senza secondi fini, con la dignità di chi non vuole l'elemosina.
Come quella di un tassista di Rangoon che incontrai sull'autobus che da Mandalay mi portava al lago Inle. Andava a trovare la famiglia che vive a Taunggy.
«Con il taxi riesco a mettere assieme una somma...che...qui da noi...è sempre stata più che sufficiente...sai...
«Ma c'è quella maledetta inflazione...e anche uno stipendio come il mio quasi non basta più a sfamare tutte le bocche che aspettano a casa...
«Il mio sogno è quello di raggiungere mia sorella a Singapore. Lì, potrei lavorare per qualche anno, poi tornare ed aprire la mia attività a Taunggy. Così potrei finalmente vivere con la mia famiglia...
«Lavorerei soltanto in un'autofficina...sai...solo lì, altrimenti preferisco continuare a guidare il mio taxi...»

Chissà se ce l'ha poi fatta...
Nel frattempo ce l'hanno fatta questi ragazzi, che si sbeffeggiano e ridono come degli scolari in gita, che sfogliano un dizionario per imparare un po' di 'bahasa Malaysia', che osservano curiosi il mio passaporto, con dignità, perché siamo alla pari, e anch'io sto osservando uno dei loro. E ce l'hanno fatta le loro famiglie, che presto riceveranno i primi 'interessi' sul capitale investito.
Non ce l'hanno fatta invece i sei birmani, tra i 20 e i 30 anni, che sono stati "pescati" in questi giorni dalla polizia malesiana dopo essere entrati illegalmente nel paese.
Non ce l'hanno fatta - non ancora almeno - altri milioni di famiglie, che continuano in Birmania la loro lotta quotidiana. Non già contro la dittatura, bensì contro le avversità, per portare a casa quel po' di riso che serve a tirare avanti.