venerdì 3 ottobre 2003

Birmania: sogni con la cravatta. Kuala Terengganu, Malesia

Seduto in un comodo autobus che scorre via lungo un'autostrada della Malesia, anche i drammi dei popoli e dei paesi più vicini sembrano problemi di un altro continente.
Mi ero preparato ad un lungo e noioso tragitto, da trascorrere leggendo ed ammirando, di tanto in tanto, la stupenda costa orientale della penisola. Come spesso accade invece, è il caso a riservarmi gli incontri più interessanti. Quello che mi attendeva oggi in quest'autobus cambia il sapore della mia comodità, strappa me e la Malesia dall'ovattata illusione dello sviluppo tecnologico e sociale, e ci riporta nel complesso contesto regionale in cui siamo inseriti.
Viaggia sul mezzo un folto gruppo di ragazzi che, a giudicare dall'aspetto e dalla lingua che parlano, non sembrano del posto. Durante una sosta presso una stazione di servizio faccio due chiacchiere con un cinese di Kuala Lumpur, il quale mi spiega che sta accompagnando il gruppo di stranieri nello stato di Terengganu, dove c'è già un impiego che li attende.
Sono birmani, appena arrivati da Rangoon. Ognuno porta al petto un tesserino identificativo. Indossano camicia e cravatta. L'unico di essi che parla un po' di inglese mi mostra orgogliosamente un foglietto su cui ha appuntato l'indirizzo della sorella che vive in California. Poi mi porge il suo passaporto e mi chiede se posso mostrargli il mio.
Il libretto che ho tra le mani mi fa tornare alla mente tante conversazioni avute in Birmania - a volte al tavolo di una "tea house", altre in uno scomodo autobus notturno. Quante volte a Rangoon, a Mandalay, al lago Inle ho sentito parlare di quel documento - apparentemente ordinario - come se fosse il simbolo del sogno di una vita, un tesoro tanto agognato, ma forse irraggiungibile.
Abituati ad averne uno tramite una semplice pratica burocratica, non immaginiamo nemmeno quanto prezioso possa essere un passaporto per il cittadino di un paese come l'Unione del Myanmar. Significa un lavoro all'estero - in Malesia, a Singapore, in Giappone -, significa un po' di denaro per sé e la famiglia, lo stomaco finalmente pieno, la possibilità di mandare il figlio o il fratello all'università o di aprire un'attività una volta tornati in patria. Con quel libretto in mano, mentre osservo il visto malesiano stampigliato sull'unica pagina utilizzata, penso alle probabili storie di quei ragazzi. Quanti sogni dietro a quel viaggio, a quella camicia e a quella cravatta - forse annodata dalla madre all'alba - che alcuni portano con l'aria di non averne mai indossata una.
Quanti sacrifici per pagare il mediatore che si è occupato di "oliare" tutti gli ingranaggi della macchina burocratica, nonché di far saltar fuori l'impiego all'estero. Lavori umili, nelle imprese di costruzione, in qualche fabbrica, i più fortunati in un ristorante. Lavori duri con cui nei paesi più ricchi nessuno più vuole avere a che fare ma che per questi ragazzi - e ancor più per le loro famiglie - valgono come l'oro.
Non hanno molte speranze a casa, in uno stato che al termine dell'occupazione britannica - in quanto a potenzialità - si collocava, in Asia, alle spalle del solo Giappone. Ricca di risorse, con un ottimo sistema educativo, un altissimo livello di istruzione e una diffusa conoscenza dell'inglese, la Birmania si preparava - alla fine della seconda guerra mondiale - a spiccare il salto verso lo sviluppo. E' invece caduta nel baratro della guerra civile, dell'involuzione, della dittatura e della povertà.
Per decenni il popolo birmano ha sopportato le angherie a cui la dispotica giunta militare lo ha sottoposto. A centinaia i dissidenti sono stati arrestati, torturati, mandati ai lavori forzati e uccisi. A volte anche solo per una battuta sui potenti, come successe a Par Par Lay, un componente del gruppo 'Mustache Brother' - i Beppe Grillo o i Roberto Benigni birmani - che andai a vedere una sera a Mandalay. Si esibivano - non essendo autorizzati a farlo in luogo pubblico - nel garage di casa, davanti a cinque o sei spettatori accomodati su semplici sedie da cucina. Durante lo spettacolo il fratello minore raccontò la triste storia di Par Par Lay, finito per sei anni in un campo di lavoro a Myitkyina - nel nord del paese - a causa di una battuta satirica all'indirizzo del governo.
Nonostante tutto i birmani hanno resistito, hanno piegato la testa e hanno continuato a vivere le loro vite, per quanto dure e umilianti queste potessero essere. Ora però devono far fronte ad un'ulteriore minaccia, forse la più tremenda: l'estrema povertà, e con essa la fame. L'incompetenza della giunta e le guerre che il governo centrale ha combattuto contro gli eserciti ribelli hanno messo in ginocchio l'economia del paese. Inoltre le sanzioni economiche internazionali applicate nei confronti della dittatura hanno avuto l'effetto di lasciare a casa migliaia di lavoratori, mandando le loro famiglie sul lastrico.
Mentre ero in viaggio nel paese lo scorso ottobre mi capitò spesso, troppo spesso, di ascoltare delle storie, tutte simili tra loro. Storie di uomini e donne, che si lamentavano per non essere ormai nemmeno in grado di comprare la quantità di riso necessaria a sfamare i loro figli. Storie raccontate solo per far sapere, senza secondi fini, con la dignità di chi non vuole l'elemosina.
Come quella di un tassista di Rangoon che incontrai sull'autobus che da Mandalay mi portava al lago Inle. Andava a trovare la famiglia che vive a Taunggy.
«Con il taxi riesco a mettere assieme una somma...che...qui da noi...è sempre stata più che sufficiente...sai...
«Ma c'è quella maledetta inflazione...e anche uno stipendio come il mio quasi non basta più a sfamare tutte le bocche che aspettano a casa...
«Il mio sogno è quello di raggiungere mia sorella a Singapore. Lì, potrei lavorare per qualche anno, poi tornare ed aprire la mia attività a Taunggy. Così potrei finalmente vivere con la mia famiglia...
«Lavorerei soltanto in un'autofficina...sai...solo lì, altrimenti preferisco continuare a guidare il mio taxi...»

Chissà se ce l'ha poi fatta...
Nel frattempo ce l'hanno fatta questi ragazzi, che si sbeffeggiano e ridono come degli scolari in gita, che sfogliano un dizionario per imparare un po' di 'bahasa Malaysia', che osservano curiosi il mio passaporto, con dignità, perché siamo alla pari, e anch'io sto osservando uno dei loro. E ce l'hanno fatta le loro famiglie, che presto riceveranno i primi 'interessi' sul capitale investito.
Non ce l'hanno fatta invece i sei birmani, tra i 20 e i 30 anni, che sono stati "pescati" in questi giorni dalla polizia malesiana dopo essere entrati illegalmente nel paese.
Non ce l'hanno fatta - non ancora almeno - altri milioni di famiglie, che continuano in Birmania la loro lotta quotidiana. Non già contro la dittatura, bensì contro le avversità, per portare a casa quel po' di riso che serve a tirare avanti.

domenica 28 settembre 2003

Il barbone colto - Kuala Lumpur, Malesia


Resto quasi tutto il giorno in albergo ma in serata esco per una passeggiata.
Cammino lungo le strade di chinatown, do un'occhiata agli edifici coloniali, simili nella forma a quelli di Singapore ma senza quella patina di nuovo che in quella città fa sembrare tutto finto. Voglio visitare Masjid Jamek, la più importante moschea in città. All'altezza del palazzo della corte suprema - illuminato come un albero di natale - vengo affiancato da un signore dal passo talmente veloce che quasi finisce addosso alle transenne che fiancheggiano il marciapiede.
Quando mi volto per osservarlo mi chiede che ne penso del palazzo. Andava di fretta per acciuffarmi e la domanda è soltanto una scusa per fermarmi.
"Non mi piace l'illuminazione, è un bell'edificio ma lo preferisco al naturale."
"Lo sai che è la sede della corte suprema? Vi si decretano le sentenze a morte."
Non so se sia esatto quel che dice. Comunque ora ne sono sicuro. E' un pretesto per attaccare conversazione. Si dimostra subito critico nei confronti dello stato e in particolare della sua componente islamica. Strano...dall'aspetto mi era sembrato malay, quindi musulmano egli stesso.
Ha la pelle ambrata e increspata sul viso magro. Il profilo è come un piano inclinato con il naso che segue l'angolo della fronte e il mento sporgente. Quando apre la bocca spuntano solo tre o quattro denti.
Gerald John Baptist non fa parte della maggioranza musulmana: è un eurasiatico, di discendenza in parte malay e in parte britannica. E' cristiano e da qui, a suo modo di vedere, nascono tutti i suoi problemi. La madre lavorò duramente per pagargli gli studi fino alla fine della scuola superiore. Al termine dell'ultimo anno si presentò a casa sventolando l'ottima pagella: su quattro materie aveva ottenuto tre A - il voto d'eccellenza - e una B. Per ottenere una sovvenzione statale per le spese universitarie bastava molto meno.
La madre lo sorprese con una risposta che lui giudicò ingenua: "Non capisci? E' finita! Non troveremo mai i soldi per l'università!"
"Sei un'idiota?" esplose con tutta la sua indignazione "Con questi voti ho diritto automatico ad una borsa di studio!".
Il giorno dopo presentò la sua domanda all'ufficio competente. Tre mesi dopo - non avendo ancora ricevuto una risposta - si ripresentò davanti all'addetto chiedendo informazioni.
"Se non ti è arrivata una risposta...significa che la tua domanda è stata respinta..."
Tornò a casa dalla madre e, in lacrime, le chiese scusa per averla offesa e per non averle creduto. Le borse erano state assegnate a richiedenti malay-musulmani che avevano ottenuto punteggi inferiori ai suoi agli esami di maturità. E lo stesso accadde con la maggior parte dei lavori buoni per cui - da allora in poi - fece domanda.
Gerald è un gran narratore. Il suo inglese è corretto e forbito. Sa accelerare e rallentare il ritmo della narrazione a seconda del frangente della storia e dell'emozione che vuole trasmettere. La storia si tinge di toni melodrammatici quando - descrivendo i momenti più toccanti - la voce gli si alza di tono e si rompe quasi come se stesse per scoppiare a piangere. Ma la commozione non dura più di un attimo e Gerald riparte con più rabbia di prima.
Da lungo tempo vive senza una casa. Un amico - l'ultimo che ha avuto, un ragazzo di 27 anni che stava nella stessa sua situazione - un giorno sparì. Dopo un paio di settimane, quando lui già l'aveva cercato alla polizia e negli ospedali di tutta la città, il suo amico ricomparve più sano e contento che mai: si era convertito all'Islam. Quando gli promise che l'avrebbe messo in contatto con i suoi convertitori, Gerald si infuriò...per niente al mondo si farebbe musulmano.
L'unica via di salvezza in cui ancora crede è una "fuga" a Singapore, paese in cui - secondo lui - ci sono meno discriminazioni e in cui i cristiani dell'Esercito della Salvezza si prenderebbero cura di lui.
"Mi laverebbero, mi vestirebbero e mi darebbero da mangiare."
Purtroppo per ottenere il passaporto occorrono molti soldi. Gli dico che a Singapore ci sono stato e che a me non è sembrata una società migliore di quella malesiana. Lì l'accattonaggio e l'elemosina sono formalmente proibiti ma questo non significa che non ci siano i poveri e gli emarginati, e che essi vengano trattati come degli ospiti d'onore. A Singapore i malay e gli indiani si lamentano per i privilegi accordati ai cinesi.
Il governo malesiano non si diverte a tenere prigionieri quelli come lui. Se potesse risolvere il problema scaricando la patata bollente ai "cugini" lo farebbe. Ma non credo che in quell'isola asettica vedano di buon occhio una soluzione di questo tipo.
Gerald non sente ragioni, Singapore è il paradiso che lui cerca. A confermare questa tesi è lui stesso quando mi racconta come - quando la città si prepara ad entrare in scena sotto la luce dei riflettori internazionali - le autorità cercano di sbarazzarsi dell'imbarazzante "fardello" e di "nasconderlo" altrove.
Kuala Lumpur si sta avvicinando ad uno di quegli appuntamenti: a metà del prossimo mese la capitale malesiana ospiterà nel palazzo dei convegni di Putrajaya il summit dell'Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC). Sceicchi, presidenti, sultani provenienti da tutto il mondo islamico nonché i media internazionali convergeranno sulla città che per l'occasione dovrà sembrare un modello di pulizia. Le forze dell'ordine quindi setacceranno le vie del centro e le ripuliranno da qualunque soggetto che possa "rovinare" l'immagine della capitale.
Quelli come Gerald verranno caricati all'interno di un camion, portati a parecchi chilometri di distanza e verrà quindi loro intimato di tenersi a "debita distanza". Al mio amico è già successo una ventina di volte. I senzatetto musulmani possono sempre cercare ospitalità in una moschea. Come prova della fede questi "disperati" devono mostrare la carta d'identità che - oltre alle informazioni ordinarie - contiene anche l'indicazione della religione - un marchio a fuoco che qui pesa parecchio. Per chi non è un seguace di Maometto la casella è riempita con un paio di trattini (--). Nel modulo per la richiesta del documento Gerald indicò 'CRISTIANO CATTOLICO' con grandi caratteri in stampatello, ma le autorità non considerano valida qualsiasi entrata diversa da 'ISLAM'.
"E perché non chiedi ospitalità in chiesa?" Sorride con sarcasmo.
"Le chiese hanno chiuso le loro porte da quando alcune di esse hanno subito tentativi di incendio. E il governo ha puntato il dito sugli sbandati e sui tossico dipendenti. Ma andiamo! Lo sappiamo tutti che i colpevoli sono gli estremisti islamici! I drogati in chiesa al massimo rubano, perché dovrebbero appiccare incendi?"
Non insisto: sembra infatti intenzionato a difendere le chiese locali così come difende Singapore. La vera carta d'identità - o meglio il lasciapassare - di Gerald è invece una rispettabile borsa nera che si porta dietro - piena di cianfrusaglie senza valore - per ingannare le apparenze dando l'impressione di essere un "cittadino rispettabile" che va al lavoro.
Scoppio in una sincera risata al termine della spiegazione di questo trucco geniale da film del neorealismo italiano. Ride con me ma subito dopo, con la grande arte di pilota delle emozioni che fa di lui un ottimo oratore, passa al racconto della drammatica vicenda che lo costrinse ad aguzzare l'ingegno e ad escogitare quella geniale trovata.
Un giorno fu fermato dalla polizia mentre passeggiava innocentemente in una via del centro. L'agente, insospettito dal suo aspetto e, forse, anche dal suo odore, gli chiese chi fosse e dove abitasse. Gerald non rispose e, un paio d'ore più tardi, si trovò in una cella a fare compagnia ad un indiano che gli confidò di essere lì per aver sterminato la sua famiglia. Poco dopo, da un altra cella, un altro recluso lo invitò ad abbassarsi i pantaloni. Quindi Gerald, con la voce di nuovo rotta dall'emozione, mi racconta di aver cominciato a pregare, e di essere quindi caduto in una sorta di trance da cui si risvegliò - senza ricordare nulla di quel terribile frangente - quando già stava fuori.
Ma Gerald nella sua vita sostiene di averne subite molte, e ha altre cartucce da sparare. Un giorno si presentò all'entrata di un ristorantino cinese e, con gli ultimi 3 ringgit che gli restavano in tasca, chiese qualcosa da mangiare. Sapeva che le pietanze più economiche costavano 5 ringgit ma sperava, essendo il ristorante in chiusura, di ricevere qualcosa che sarebbe stato altrimenti gettato.
"In questo locale non vendiamo cibo per cani..." gli rispose il rozzo cinese.
Gerald racconta di non averci più visto dalla rabbia, di aver afferrato il coltellaccio da cucina che stava piantato sul tagliere davanti a lui e di averlo sventolato in faccia allo zoticone. In quel momento un cameriere intervenne provvidenzialmente e lo mise fuori gioco colpendolo sulla schiena con una sedia. Porta ancora riconoscenza a quell'uomo che gli impedì di commettere un crimine della cui sola eventualità si vergogna tuttora.
Tramite dei giornali che pesca nei bidoni della spazzatura si tiene al corrente sulla situazione locale e internazionale. Interessante è la sua versione del caso Anwar. L'ex vice primo ministro nel '98 era ansiosissimo di fare le scarpe a Mahatir e cercò di attirarlo in una trappola mettendogli contro membri del partito e opinione pubblica.
Secondo Gerald, Anwar, che era al tempo anche ministro delle finanze, al fine di destabilizzare il paese stava cercando di alzare il costo del denaro a livelli proibitivi per gli investitori e di fare in modo che il Fondo monetario internazionale intervenisse con dei prestiti forzando in cambio il governo ad orientarsi verso una politica più trasparente e democratica.
Anwar sperava così di creare disordine nel partito e nelle piazze, forzando Mahatir al ritiro. Il cambio al vertice sarebbe stata la rovina del paese che sarebbe stato svenduto agli americani che potevano ricattare Anwar con le prove dei suoi peccati di sodomia - gravissimi agli occhi dei musulmani - commessi durante una sua visita negli USA.
Per "fortuna del paese" anche il premier Mahatir era in possesso di prove di quello e di altri reati e, non appena fiutato il pericolo, fece venire alla luce un dossier Anwar che mise in moto l'ISA e la macchina giudiziaria.
Non male come analisi per uno che non ha nemmeno i soldi per comprarsi un giornale.
Gli chiedo dove dorme e mi accompagna in una discesa che si infila sotto la Piazza dell'Indipendenza. C'è una piccola siepe. Lui estrae dei fogli di cartone e li stende sopra al muretto formando un "materasso", poi piega una tela e ricava una specie di guanciale.
Mi confida che uno dei problemi più fastidiosi glielo creano le zanzare. Ha capito che me ne sto per andare, e quindi passa all'ultimo atto del suo spettacolo: il giro in platea col cappello in mano.
Dalla borsa estrae delle mappe della città e del paese su cui ha annotato in inglese delle utili informazioni supplementari. Per suggerirmi il limite minimo dell'offerta si affretta a farmi sapere che qualche straniero si è "incredibilmente" rifiutato di pagargli il prezzo stabilito di 10-15 ringgit, circa 3 euro. Parecchio, considerando che le mappe sono distribuite gratuitamente dal ministero del turismo e - soprattutto - che in Asia chi fa l'elemosina accetta con un sorriso un decimo di quella somma, se non meno.
Ma non importa. Le sue storie, vere o no, esagerate o rigorosamente attinenti ai fatti, mi hanno intrattenuto per un'ora o più. Gli allungo una mancia, vi aggiungo una boccetta di lozione anti-insetti che avevo nella borsa e lo saluto.
Gerald mi benedice e mi augura la buona notte.


sabato 27 settembre 2003

Kuala Lumpur - Malesia, 27 settembre 2003

Abdul Hadi Awang - il leader del governo locale dello stato di Terengganu - ha dichiarato che il 'Terengganu syariah criminal enactment' (la legge islamica) verrà ufficializzato il prossimo ottobre - prima del ritiro di Mahatir - ed entrerà in vigore immediatamente. Ho deciso di recarmi a Kuala Terengganu e di scrivere un pezzo a riguardo.
Per la giornata di oggi scelgo invece di seguire il consiglio di un cinese di Malacca che alloggia, come me, al Pudu hostel. Il suo nome è Michael, commercia in diamanti grezzi. Li compra dai venditori africani e li rivende in tutta l'Asia. Ha vissuto per 7 anni in Belgio, ad Anversa (Antwerp) - la capitale mondiale del diamante. Mi spiega come funziona il commercio. Gli operatori più affidabili sono iscritti alle borse del diamante. Lui è iscritto alla sede di Kuala Lumpur.
Di solito quando ha bisogno di un fornitore si rivolge ad aziende accreditate e spesso chiede consiglio ai suoi amici di Anversa. Le banche fanno da garanti con delle lettere di credito. Il fornitore spedisce la merce tramite un corriere specializzato (Briks) e il denaro per il pagamento resta congelato fino a che la merce non viene consegnata e accettata.
Michael mi consiglia di recarmi a Genting highlands. Di questa località so che è la sede del più grande centro divertimenti del paese e di molti casinò. Lui me lo conferma ma aggiunge che il tragitto in funivia attraverso la giungla è molto suggestivo.
Nell'autobus incontro un altro cinese con cui faccio conversazione. Quando gli dico che ho la passione della scrittura mi dice che gli piacerebbe che mi dedicassi alla stesura di un libro sul tema "amore e vitalità". Gli chiedo perché non lo fa lui.
«Non ho studiato e non riuscirei mai a scrivere un libro»
«Ma lei parla un ottimo inglese...»
«È perché ho lavorato per un ex-capitano inglese per il quale mia madre prestava servizio. L'ho seguito anche in India e a Londra»

Parliamo un po' della politica malesiana. Proprio lui - un cinese - sostiene che i cinesi hanno in un certo senso rovinato il paese con le loro pratiche di corruzione. A proposito del PAS mi dice che alle prossime elezioni potrebbe aggiudicarsi un altro stato.
«Quale?»
«Johor Bharu...» risponde lui provocando la mia sorpresa.

Poi mi confida che gli piacerebbe che Bush cogliesse l'occasione del summit dell'OIC (Organizzazione della Conferenza Islamica) a KL che si terrà in ottobre per dialogare con i paesi musulmani alla ricerca di una soluzione al problema del terrorismo. Secondo lui una profezia cinese prevede una terza guerra mondiale e questo summit sarà l'ultima opportunità per evitarla.
La vista sulla giungla e sulle montagne ricoperte da una insolita nebbiolina vale in effetti il prezzo del biglietto e il viaggio. Per non parlare della fresca temperatura...un sollievo dopo l'aria soffocante e calda della metropoli.
Continuiamo la conversazione bevendo un caffè a Genting. Comincia a parlarmi delle sue idee sull'amore, che va dato e ricevuto. E che la maggior parte della gente non sa di preciso che cosa sia... Non lo seguo più molto bene, un po' perché le sue teorie mi sembrano un po' confuse e un po' perché mi concentro su altri particolari. Ha un viso interessantissimo. Dice di avere 66 anni ma ne dimostra 10 o 15 in più. Ha pochissimi denti. Un lunghissimo incisivo gli sbarra la bocca quando ride mentre le labbra si piegano verso l'interno avvolgendo le gengive ormai spoglie. La pelle abbronzata si corruga in un disegno complesso che avvolge il viso scarno. Gli occhi sembrano scoloriti dal tempo e dagli eventi. Finalmente mi ricordo dove avevo già annusato l'odore emanato dalla sua pelle. È lo stesso profumo che hanno addosso alcuni vecchi del paese di mio nonno. Un profumo vagamente aspro che nel mio immaginario sa di semplicità, di campagna, di lunghe e lente camminate in collina. Di camicia, giacca nera e cappello di feltro indossati ad agosto. E ancora di enormi forme di pane tagliate con un coltello tascabile, di stalle e conigli, di somari ed escrementi, di campi e di frutta.
Scopro due ennesimi record della Malesia. La funivia è la più lunga e veloce del sud-est asiatico. L'hotel First World ha il banco della reception più lungo del mondo! Non me lo posso perdere e, lasciato il cinese che va al casinò con le sue teorie di metodi e capitali, seguo le insegne per l'albergo del record. È una passeggiata incredibilmente lunga attraverso ristoranti, sale giochi, parchi giochi all'aperto e al coperto, otto volanti e sale per spettacoli.
Arrivo alla 'Lobi' (questa e' la grafia del termine malese) e mi scappa da ridere: il banco sarà lungo almeno 50 metri e ci lavorano decine di persone. Per alcuni servizi è necessario ritirare il bigliettino col numero, per altri bisogna accodarsi a file lunghissime: è sabato e i malesiani arrivano a frotte al loro "centro di divertimenti". Soprattutto cinesi ma anche indiani e un bel po' di musulmani. Mi imbatto, non senza sorpresa e un filo di delusione, anche in una donna coperta - ad eccezione dei soli occhi - dal velo nero del 'purdah'. E' accompagnata dal marito - con la barba lunga e il copricapo musulmano - e dai figlioletti. Ma che ci viene a fare in un posto cosi' una famiglia religiosa islamica?

giovedì 25 settembre 2003

Kuala Lumpur - Malesia, 25 settembre 2003

Sono sul moderno e comodo treno che mi porta a Putrajaya, la nuovissima cittadella amministrativa voluta dal premier Mahatir. Il treno sfreccia attraverso il 'super corridoio multimediale' che collega la capitale malesiana al bellissimo (e costosissimo) aeroporto.
In un posto con un nome del genere ci si aspettano chissà quali prodigi della tecnologia. In realtà ad entrambi i lati della linea ferroviaria è la bellezza quasi finta della natura tropicale a dominare il paesaggio. Sotto un pesante cielo gonfio di nuvole grigio-bianche si estende un paesaggio dolcemente ondulato, ricoperto da una vegetazione di un verde molto intenso, interrotta qua e là da macchie brulle color caffellatte. Le piantagioni di palme da olio sono in quest'area soltanto una discreta presenza.
Nella zona residenziale di Putrajaya le case sono tutte color pastello: rosa, beige, noce, giallo paglierino. Estese sono le aree dedicate al verde pubblico. Mi ricorda vagamente Canberra, la capitale australiana.
Scendo al grande piazzale rotondo su cui si affacciano la moschea 'Masjid Putra' e il palazzo in cui ha sede l'ufficio del primo ministro. La moschea ha una stupenda cupola rosa con decorazioni chiare e sta come distesa sulle rive di un laghetto, sulle cui acque "poggia" romanticamente il capo. A poche decine di metri l'edificio che ospita l'ufficio di Mahatir è più grande della Masjid Putra e, con le tre cupole verdi che lo sovrastano, è un esempio perfetto del miscuglio di stile moderno e tradizione islamica che caratterizza un po' tutta l'architettura recente di Kuala Lumpur.
Faccio una passeggiata nei dintorni, il centro nevralgico di Putrajaya è un complesso di edifici moderni e sofisticati - ma sempre con qualche tocco ''moresco" -, belle strade pavimentate, piazze architettoniche, sotterranei ad aria condizionata. Il tutto "ricamato" con un arredamento urbano sofisticato e funzionale - panchine e fontanelle d'acqua potabile sono ad ogni angolo - e decorato con piante e alberi.
Il governo qui non ha certo badato a spese. «L'opera fu completata poco dopo la crisi del '97, la gente a quel tempo era molto preoccupata e in molti non gradirono le spese "folli" dell'amministrazione» mi spiega un ragazzo di Kuala Terengganu che incontro sotto la provvidenziale ombra di un albero davanti alla moschea. Mi torna alla mente la storia di Ibrahim Anwar che, anche per aver criticato spese come questa, si trova da allora in carcere.
Scopro un altro record di questo incredibile paese. Il sistema di trasporto metropolitano LRT di KL è il più lungo al mondo tra quelli automatizzati, senza pilota a bordo.

martedì 23 settembre 2003

Malacca - Malesia, 23 settembre 2003

Faccio un salto all'area coloniale. Il cimitero olandese - che contiene anche le tombe di alcuni coloni inglesi - non è molto grande. Molto più piccolo di quello, sempre olandese, a Cochin nel sud dell'India o di quello inglese a Dharamsala, sempre in India ma molto più a nord, nell'Himalaya.
La storia della vicina chiesa di San Paolo riflette le vicende coloniali della città. Fu costruita nel 1521 dal capitano portoghese Duarto Coelho che le diede il nome di "Nostra Signora della collina". Nel 1548 fu consegnata ai gesuiti che la chiamarono "Annunciazione", la ampliarono e infine la dotarono di un campanile. Quando gli olandesi si insediarono a Malacca si impossessarono della chiesa e le assegnarono il nome attuale, nonché il credo protestante. La abbandonarono nel 1753 quando terminarono la costruzione della vicina "Chiesa di Cristo".
Con l'arrivo degli inglesi l'edificio fu adibito a polveriera, perse il campanile ma acquistò in compenso un faro che ancora oggi si erge davanti alla facciata. La chiesa ospitò per nove mesi la salma di San Francesco Saverio che, proveniente da Macao, dove il missionario era morto, e in rotta verso il suo definitivo luogo di sepoltura a Goa, ha continuato fino ai nostri giorni a resistere agli effetti della decomposizione - seppur mutilata dai furti dei cacciatori di reliquie.
Francesco Saverio, "l'apostolo d'Asia", durante i suoi spostamenti in oriente soggiornò, predicò e convertì anche a Malacca. Si narra che un giorno una tempesta investì l'imbarcazione su cui stava navigando. Il crocifisso che il frate estrasse per invocare l'aiuto divino gli scivolò in mare. Più tardi, in una spiaggia, Francesco Saverio notò un granchio che teneva tra le chele il crocifisso smarrito e decise di benedire il crostaceo. Secondo la leggenda da allora i granchi di quella specie hanno il guscio marchiato da una croce.
Meno famoso è invece un altro personaggio che ha trovato sepoltura in questa chiesa: la moglie di John Van Riebeck, l'olandese che fondò la colonia che ora è Città del Capo in Sud Africa. La salma fu portata in Africa nel 1915 e qui a Malacca è stata installata una pietra in memoria.
Dei ragazzini entrano rumorosamente nella navata diroccata, e vengono attratti da un ambulante che cerca di vendere loro dei fischietti a stantuffo. Un uomo si è sistemato su un seggiolino all'interno dell'edificio. Ha una chitarra e un'armonica e comincia a cantare una vecchia canzone di Bob Dylan. I ragazzini, con la curiosità multiforme di quell'età, si voltano per ascoltarlo ma lo scaltro venditore, che non è disposto a farsi sfuggire l'occasione, li richiama con un urlo, estrae anch'egli un'armonica e riprende le note del musicista. È veramente troppo per i bambini, che non resistono alla tentazione e comprano uno strumento a testa, prima di correre strimpellando fischietti e armoniche a circondare l'uomo che sta ora suonando "Blowing in the wind".

domenica 21 settembre 2003

Malacca - Malesia, 21 settembre 2003

Sono seduto ad un tavolo di un ristorante Mama, dal nomignolo con cui vengono identificati, da queste parti, gli indiani-musulmani. I tavoli sono tutti occupati ed un signore decide quindi di accomodarsi accanto a me. È un uomo di mezza età, i suoi capelli - brizzolati con qualche tocco di bianco qua e là - si diradano sulla fronte alta e abbronzata. Il suo bel viso è una composizione ordinata in cui le linee dritte delle rughe e i volumi di carne morbida di orbite, guance e mento si sostengono e si tendono a vicenda in armonioso equilibrio funzionale. Porta dei baffetti grigi fini e curati.
Ha un pallino nero tatuato sopra il naso, tra le sopracciglia. Altri disegni più complessi sporgono da sotto la scollatura e dalle maniche avvolte della camicia di raso color granata. Il viso è quello di un cinese ma le effigi di un Buddha e di due monarchi siamesi appesi ad una lunga catena che porta al collo ne tradiscono la provenienza thailandese. Infilato al dito medio della sinistra porta un anello su cui grava una complessa e pacchiana figura metallica mentre una pietra che assomiglia ad un occhio castano fa da contrappeso sull'altra mano. Una specie di bracciale d'argento a maglie grosse e pesantemente decorate gli avvolge una caviglia, sopra al calzino di cotone che si infila in una moderna scarpa da ginnastica.
Sta aggiornando un quadernetto su cui tiene della contabilità. All'improvviso si volta verso di me e mi porge, con un inglese eccellente, una domanda strana: «Mi scusi, il monte Everest si trova in Nepal o in Tibet?».
«Senza dubbio in Nepal» gli rispondo io (in realtà l'enorme massiccio si estende attorno al confine tra Nepal e Tibet, ma la maggior parte dei turisti vi accede dal versante nepalese). Rimette il quadernetto al suo posto in un'ordinatissima ventiquattrore, ne tira fuori un altro e ci appunta qualcosa.
«Di dov'è?» gli chiedo.
«Thailandia».
«Lo sospettavo, ho notato la medaglietta di re Rama V. E pure degli ideogrammi cinesi sul suo quaderno».
«In effetti sono thai-cinese». L'uomo comincia a parlarmi del Siam, di re Chulalongkorn che abolì la schiavitù nel suo regno, della saggezza del padre, il protagonista del film "Anna and the king". Del fatto che, per preservare le tradizioni siamesi, ai cinesi veniva proibito l'uso della propria lingua ed imposta la scelta di un nome locale.

Poi comincia a parlare di zodiaco cinese. Mi spiega che io sono del segno del cane del tempio. Prima o poi quindi riceverò una chiamata spirituale e mi rivolgerò al buddismo per la ricerca della verità e dell'illuminazione.
Comincia quindi con una digressione sul buddismo, sulla rettitudine, sui mali da evitare e mentre sto scrivendo un appunto che mi ha appena dettato estrae di soppiatto dalla valigetta una cartolina raffigurante un bonzo seduto nella posizione del loto. Dopo averlo incensato per un paio di minuti mi spiega che posso avere una copia dalla cartolina e la benedizione eterna per "soli" 20 ringitt, circa 5 euro. Dopo aver incontrato il mio cortese rifiuto mi fissa per qualche secondo in silenzio da dietro un paio di occhiali scuri. Mi ricorda un venditore di enciclopedie porta a porta. Rilancia a 10 ringitt. Rifiuto proponendo una mia visita con relativa offerta al tempio del monaco presso Ubon Rachathani, nel nord-est della thailandia. Rispondendo ad una mia domanda di qualche minuto prima (inizialmente ignorata) mi indica il suo nome su un bigliettino da visita. Quindi si alza e si incammina dicendo: «Ti manca la saggezza».
«Come?» gli rispondo più per sorpresa che per curiosità.
«Ti manca la saggezza...» guarda il cielo come se vi cercasse le parole «...al 50%!».

venerdì 19 settembre 2003

Malacca - Malesia, 19 settembre 2003

Lungo la strada che porta a Malacca c'è la solita distesa di palme da olio che domina il paesaggio rurale malesiano un po' ovunque. Sarebbe una bella vista se gli alberi non fossero disposti lungo le file regolari delle piantagioni. Una studentessa di economia incontrata l'anno scorso sull'autobus per Taman Negara mi spiegava che per decenni la Malesia è stata un eccezionale produttore di gomma naturale, ma negli ultimi anni si è convertita quasi completamente all'olio di palma, sempre più richiesto un po' in tutto il mondo. Ricordo che Domenico, un cuoco friulano conosciuto tempo fa in Vietnam, mi spiegava che anche nei ristoranti italiani è ormai un prodotto molto utilizzato.
La sera passeggio tra gli edifici rossi dell'epoca coloniale. Speravo invano che a quell'ora tarda la chiesa, il palazzo del governatore, la porta di Santiago si scrollassero di dosso quell'atmosfera da museo che li avvolge durante il giorno. Di notte, con le porte chiuse, senza i bigliettai, senza i turisti alcuni posti offrono un viaggio indietro nel tempo. È il caso di Hoi An, in Vietnam, che di notte ridiventa Faifo, antico centro nevralgico dei commerci tra portogesi, cinesi, olandesi e giapponesi. Con le case dei mercanti che non sembrano i negozi di souvenirs in cui sono state convertite. E il bel ponte in legno costruito dai giapponesi che non fa da sfondo alle foto delle coppiette di turisti.
Faifo e Malacca al culmine del loro splendore erano contemporanee, anche per questo nutrivo la speranza di rivivere le emozioni di quelle passeggiate notturne. Purtroppo non accade: da un vicino bar arrivano le note stonate di un musicista da quattro soldi. Poi, improvvisamente, la piazza centrale viene invasa da un nugolo di rickshaw rumorosi e inghirlandati di fiori variopinti che portano a spasso un gruppo di cinesi dall'aria stordita.

Mi arrendo e mi incammino verso l'albergo. A metà strada mi si avvicina un'auto guidata da un cinese del posto che vuol fare conversazione. Fa molta propaganda gratuita e banale al suo paese ma mi lascia con un pensiero su cui riflettere. Gli abitanti di Singapore, a differenza dei malesiani, non possono investire i loro risparmi in terreni o case. Perciò spendono, spendono, spendono e basta...
L'albergo in cui alloggio è gestito da una famiglia di eurasiatici. «Il mio nome è Franco, sono un "portoghese locale". Parlo portoghese». L'ultima precisazione anticipa la domanda che probabilmente tutti gli rivolgerebbero. Potrebbe sembrare un malay ma alcuni tratti del volto sono effettivamente europei. Ancor più quelli di un suo amico con cui parla portoghese. «È una versione antica della lingua. Quella moderna la capisco a malapena». Mi racconta che "portoghesi" a Malacca e dintorni sono circa 2000.

martedì 16 settembre 2003

Johor Bharu - Malesia, 16 settembre 2003

Sto facendo colazione con roti canai e caffè in un ristorantino davanti alla Convent School. Autobus scolastici, taxi e auto private scaricano numerose ragazze all'entrata dell'istituto. Le studentesse cinesi e indiane indossano una uniforme celeste su una camicetta bianca, la gonna arriva al ginocchio. Quelle musulmane hanno il capo coperto da un 'tudong' bianco e il corpo fasciato da un candido camice che - dal ginocchio in giù - lascia spazio ad una lunga gonna celeste.
Mi colpisce il fatto che sia una scuola a carattere realmente misto - mi riferisco alle etnie, non ai sessi - pur con i compromessi relativi alle uniformi, che uniformi in senso stretto non sono. Assieme alla NEP era stata attuata nei primi anni '70 anche una riforma del sistema scolastico che aveva imposto il 'bahasa malaysia' come unica lingua di insegnamento nelle scuole malay, escludendo quindi l'inglese. Le scuole cinesi potevano continuare invece come prima. La riforma stabiliva inoltre un limite minimo - molto elevato - di studenti 'bumiputera' nelle università statali. Come conseguenza le famiglie della comunità cinese - ricca e urbana - mandarono i loro figli in istituti cinesi - statali per le elementari e privati per le medie e l'università. Da allora nella maggior parte dei casi i bambini dei due gruppi sono cresciuti in ambienti separati allargando così le spaccature sociali.
La Convent school è una scuola statale ed è per questo che mi stupisce il suo marcato carattere multietnico. Chow è dell'opinione che ciò è dovuto al fatto che la scuola gode di un ottima fama per quanto riguarda il livello dell'insegnamento. L'impronta cristiana e occidentale, quindi in un certo senso neutrale, ha agevolato l'integrazione. Le altre scuole in città sono essenzialmente monoetniche. Le maggiori sono tutte malay tranne un grande istituto cinese non lontano dal terminal dei traghetti e dalla spiaggia di Stulang Laut. Al di là dello stretto svettano le torri rosse e bianche della centrale termo-elettrica di Singapore.

lunedì 15 settembre 2003

Johor Bharu - Malesia, 15 settembre 2003

La Malesia è un paese che tiene i piedi in due staffe.
Sono seduto ad un tavolo di uno di quei caffè moderni - all'americana. Quelli in cui ordini alla cassa, scegliendo prodotto e formato, paghi (molto) in anticipo e ti porti al tavolo la tazza su un vassoio. Sembra di stare a Singapore - distante da qui due chilometri e due decenni. Vengo rispedito bruscamente in Malesia dal canto di un 'Muezzin' che invita i fedeli alla preghiera. Sono questi i simboli di un paese che ha predicato sia la dottrina dello 'sviluppismo' sia quella dell'etnicismo che per la maggioranza malay, impegnata a limitarare il potere economico dei cinesi, ha spesso fatto rima con islamismo.

La politica discriminatoria dei 'bumiputera' - i figli della terra - ha dato sì i frutti sperati ma ha anche giocato dei brutti scherzi al paese. Per non cadere nella rete della NEP (Nuova politica economica) - che imponeva alle grandi aziende di avere almeno un 30% di malay tra gli azionisti e altrettanti tra i dipendenti - i cinesi hanno limitato la dimensione delle loro aziende e i 'grandi affari' sono stati affidati, spesso tramite giochi di corruzione e favoritismo, a faccendieri i cui azzardi, finanziati dalle numerose banche, sono venuti al pettine della crisi del '97.
C'è comunque da dire che la Malesia è riuscita a venirne fuori prima e meglio delle vicine Thailandia e Indonesia. Lo stato ha acquisistato dalle banche i loro crediti inesigibili ed è riuscito a convincere gran parte dei debitori a restituirli. I numerosissimi istituti di credito esistenti prima della crisi sono stati ridotti - attraverso decise operazioni di fusione - in un più ristretto numero di conglomerati. Alcuni - ma non tutti - dei protagonisti delle attività più sporche sono stati allontanati dal sistema.

sabato 13 settembre 2003

Johor Bharu - Malesia, 13 settembre 2003

Ieri Chow con la sua moto - la Harley locale - mi ha accompagnato alla ricerca di una copia della rivista Aliran che non ero riuscito a trovare il giorno precedente in alcune delle maggiori librerie del centro. Proviamo a Chinatown - un quartiere di periferia - ma niente da fare: sembra non ne conoscano nemmeno l'esistenza. Il fatto che in un paese dove la stampa è fortemente controllata dal governo ci sia una rivista indipendente di cui non si riesce a trovare nemmeno una copia - in una città di un milione di abitanti - e della cui esistenza i negozianti non sembrano nemmeno essere a conoscenza mi incuriosisce ancor di più circa i suoi contenuti.
Dopo pranzo ci rimettiamo in sella e ci spostiamo verso il vecchio quartiere del centro. È questa un'affascinante griglia di stradine a ridosso del mare sulle quali si affacciano variopinte casette coloniali.
Proviamo un paio di librerie in cui la nostra richiesta incontra la solita reazione confusa. Portiamo dei vecchi giornali ad un gruppetto di simpatiche e carine amiche indonesiane di Charles che ci offrono un paio di caffè. Poi il mio centauro mi lascia davanti all'ufficio centrale delle poste. Dopo una puntata veloce al parco del Grand Palace torno alla città vecchia e faccio un tentativo in un negozio di libri usati: il tentativo fallisce. Mi avvio quindi verso il centro moderno della città e lungo il cammino, all'altezza del coloratissimo tempio Hindu, mi imbatto in una piccola edicola circondata da negozi di fiori e e articoli religiosi in cui finalmente trovo una copia dell'Aliran: è vecchia di tre mesi ma - per quanto riguarda i temi nazionali - risulterà infinitamente più utile di qualsiasi quotidiano fresco di giornata. La panoramica sul quadro politico malesiano è soddisfacente. Molto interessante è un servizio sulla 'New politics'. La crisi finanziaria che ha investito il sud est asiatico nel '97 e la nascita del movimento 'Reformasi' in seguito all'incarcerazione, in forza del famigerato ISA, del vice primo ministro Ibrahim Anwar, reo di aver attaccato il premier Mahatir sui temi della corruzione, del favoritismo e delle spese enormi per la realizzazione di inutili mega-progetti, promossero l'entrata in scena nel '98 di una nuova coalizione - BA, coalizione alternativa. La BA si rivelò alle elezioni del '99 un sogqetto in grado di opporsi efficacemente - per la prima volta nella storia del paese - allo strapotere dell'UMNO e del suo leader Mahatir. Questi erano stati negli ultimi decenni i fautori dello "sviluppismo", una politica mirata alla crescita economica basata quasi esclusivamente sugli investimenti di capitale straniero sotto forma di stabilimenti di assemblaggio per prodotti di esportazione. Una strategia di questo tipo aveva bisogno di una grande stabilità politica che l'UMNO assicurò attraverso un forte dirigismo politico e una serie di pratiche antidemocratiche - controllo della stampa, corruzione e favoritismo, soppressione di movimenti e individui "non graditi" ricorrendo anche, se ritenuto opportuno, all'Internal Security Act.

Sono in un ristorantino in cui ho ordinato chicken rice. Il signore che lo prepara indossa un guanto in plastica usato che tocca ripetutamente con l'altra mano. Con la mano scoperta maneggia anche la carne e la verdura. Non capisco perché indossi il guanto.

giovedì 11 settembre 2003

Johor Bharu - Malesia, 11 settembre 2003

Oggi si celebra il secondo anniversario del tragico attacco alle torri gemelle di New York. Più i mesi passano e più risulta chiaro che quel giorno ha cambiato la storia. Ma la nobile speranza di Tiziano Terzani che una tragedia di quelle dimensioni potesse diventare l'opportunita' per un nuovo approccio alla politica internazionale sembra essere stata dolorosamente delusa.
Per quanto riguarda la ricomparsa del virus della SARS a Singapore, le analisi hanno confermato la presenza del coronavirus nel sangue del giovane medico ma, non essendosi manifestati i tipici sintomi - febbre alta e tosse secca - questo non può essere considerato un caso SARS secondo i parametri fissati dalla OMS. Siamo quindi di fronte a quello che può essere definito un portatore sano. Non mi è chiara la strategia che si vuole adottare.
L'archiviazione del recente caso come portatore sano è bastata a gettare acqua sul fuoco e a rassicurare l'opinione pubblica. Un numero relativamente limitato di casi bastava invece, fino a qualche settimana fa, ad alimentare il panico generale e a mettere in ginocchio l'economia di un considerevole numero di paesi - in gran parte paesi in via di sviluppo - anche dopo che notizie incoraggianti erano arrivate da stati in cui l'epidemia era stata prima arginata e poi debellata - primo tra tutti il Vietnam dove gran merito andava ad un coraggioso medico italiano.
Sto leggendo una copia dell'Economist dello scorso Aprile. C'è un'interessante inchiesta sulla Malesia. Gi articoli offrono una panoramica sui temi più delicati della politica, dell'economia e della società malesiane. Dalle figure del premier Mahatir e del suo vice - nonché prossimo successore - Badawi a quella di Nik Aziz, leader del PAS, il partito fondamentalista islamico che minaccia il predominio dell'UMNO, a cui ha già strappato i governi degli stati Terengganu e Kelantan. Il PAS si batte per l'applicazione della "Sharia", la legge islamica, e dello "Hudud", la relativa lista delle pene che comprende il taglio della mano per i ladri, la lapidazione per l'adulterio e le 100 frustate per rapporti sessuali tra persone non sposate.
C'e' un articolo che tratta delle applicazioni arbitrarie dell'Internal Securiti Act, spesso ai danni di scomodi oppositori come Ibrahim Anwar, l'ex vice di Mahatir, che osò accusare quest'ultimo di corruzione, di nepotismo e di sperperare denaro con gli inutili mega progetti che hanno dotato Kuala Lumpur - la capitale di un paese in via di sviluppo - delle torri Petronas, le più alte del mondo, di un modernissimo aeroporto e del futuristico "corridoio multimediale" che lo collega alla città.
Infine viene affrontato il tema delle difficoltà economiche di un paese che vede gran parte degli investimenti stranieri, su cui si fondava la grande crescita degli anni '80 e '90, prendere la via della Cina.
Il Malaysiakini web site è citato dall'Economist come uno dei pochi esempi di stampa indipendente.

mercoledì 10 settembre 2003

Johor Bharu - Malesia, 10 settembre 2003

I quotidiani malesiani in lingua inglese non mi forniscono assolutamente una visione imparziale della situazione del paese. Il New Straits Times è leggibile solo nelle sezioni esteri (quando non entrano in gioco interessi nazionali), sport e costume.
Un amico malesiano mi conferma che i quotidiani sono controllati, più o meno direttamente, dal partito di governo: l'UMNO. Secondo lui l'unico giornale malesiano indipendente è il periodico Aliran.
Non c'e' stato nessun test nucleare e nessun lancio di missili da parte della Corea del Nord nella giornata di ieri, anniversario della fondazione della repubblica stalinista.
Ieri è stata confermata la notizia di un nuovo caso di SARS a Singapore. Spero che non scatti il panico generale.

martedì 9 settembre 2003

Johor Bharu - Malesia, 9 settembre 2003

Steve ieri è tornato a Singapore da dove procederà per l'Indonesia.
Io sono partito stamane e sono arrivato a Johor Baru. C'ero già passato molte volte ma mai mi ci ero fermato. Credo che possa meritare una sosta. Come per dimostrarlo ho subito pranzato in un ottimo ed economico ristorante indiano.

Alla Footloose G.H. ho incontrato Heather, una scrittrice neozelandese di mezza età con la quale ho avuto una piacevole conversazione.

sabato 6 settembre 2003

Mersing - Malesia, 6 settembre 2003

Da Singapore sono partito, al fianco di Steve, alla volta di Mersing, una piccola città sulla costa orientale della Malesia, nello stato di Johor Bharu.
Gran parte dei turisti stranieri arriva a Mersing per imbarcarsi su uno dei traghetti che portano all'isola di Tioman. Io ci sono venuto perché il visto di Singapore scadeva oggi, perché non volevo andare troppo lontano e perché Steve c'era già stato e ne parla bene. I turisti si imbarcano non appena arrivati in città o, al più tardi, il giorno seguente. Io conto di trascorrere qui qualche notte e sull'isola potrei non andarci affatto. Non ho ancora deciso se allontanarmi definitivamente da Singapore e dalla sua società distorta sulla comprensione della quale ho già investito un bel po' di tempo.

Durante le conversazioni con Steve o quelle che assieme abbiamo con qualcun altro le sue teorie mi appaiono sempre più chiare e sensate. Il motivo per cui concentra la sua attenzione sui bambini e sui giovani studenti ha a che fare non solo con la solidarietà e la simpatia che prova nei confronti di questi soggetti deboli e spesso vittime della frustrazione, della rabbia, dell'incoscenza, dell'incompetenza e dell'insensibilità di genitori e insegnanti. Ha soprattutto a che fare con la soluzione che propone alla maggiorparte dei problemi che affliggono la società moderna. "Se decine di corpi arrivano a valle in balia del fiume non ha senso continuare soltanto a tirarli fuori: bisogna anche concentrarsi sulle cause del problema a monte".
L'interpretazione del concetto di "giustizia" come mera punizione per chi commette un crimine non riuscirà mai ad offrirci, come unica misura, una società migliore, più sicura, più giusta. Occorre intervenire sul processo educativo dei più giovani, ai quali vengono spesso provocate ferite psicologiche, morali ed emozionali difficili da rimarginare e che spesso producono individui disadattati, depressi e, nel peggiore dei casi, con istinti autodistruttivi o criminali. Punire i bambini senza aiutarli - in modo costruttivo e quindi realmente educativo - a comprendere e a porre rimedio ai propri errori ne è un tipico esempio. Altrettanto dannosa è la tendenza di alcuni adulti a forzare sui bambini la convinzione che alcune loro emozioni, desideri, reazioni, impulsi o comportamenti naturali siano da considerarsi oggettivamente negativi, quindi socialmente inaccettabili e in buona sostanza invalidandone - è proprio questo il termine utilizzato da Steve - gli istinti.
Mi trova in questo perfettamente d'accordo: la punizione come unica interpretazione del concetto di giustizia, nell'educazione dei giovani così come nella teoria Bushana della sicurezza internazionale - "we'll bring them to justice" = li puniremo - non è la via verso un mondo migliore.

(Steve Hein cura un paio di siti sui temi dell'Intelligenza emozionale e dei problemi dei minori: http://eqi.org/ e http://stevehein.com/)

mercoledì 3 settembre 2003

Singapore, 3 settembre 2003

Ieri un'amica Malay mi ha portato a spasso per la citta' in auto. Abbiamo cenato a katong, una stretta striscia di case molto vecchie in cui tradizionalmente vivevano i Peranakan - i mezzosangue - i discendenti dei primi immigrati cinesi che, essendo tutti maschi, si sposavano con donne malay. Col passare degli anni sentendosi esclusi da entrambe le comunità da cui discendevano, diventarono molto fedeli ai dominatori britannici. Questo li favorì nelle attività commerciali con cui molti di essi si arricchirono.
Abbiamo mangiato Laksa, una zuppa di curry e latte di cocco con dei molluschi e verdura. Più tardi abbiamo incontrato un paio di sue amiche, una delle quali era impegnatissima a stendere una lista della spesa da consegnare ad uno spasimante che le ha promesso regali senza limiti di budget. L'episodio la dice lunga sull'ingenuità e la venalità dei singaporiani.

Sono nella cattedrale di S. Andrea, dedicata al santo patrono della Scozia. Dall'esterno sembra una bella chiesa coloniale simile ad altre che ho visto in Asia. L'interno porta invece i tratti dell'ideale di città sul quale Singapore si è andata modellando negli ultimi anni: arredamento moderno, aria condizionata e schermi sospesi sui quali Dio sa cosa verrà proiettato ogni domenica. Persino la scelta dei colori per l'intonaco ricorda il design di alcuni dei negozi di abbigliamento che abbondano nei centri commerciali della città. A Singapore non è un problema mischiare il sacro ed il profano.
Faccio un salto all'istituto di cultura italiana, un piccolo ufficio al settimo piano di un grattacielo che ospita varie ambasciate e, al piano terra, l'immancabile centro commerciale. Sono pronto a scommettere che la signora con cui parlo non è italiana (e nemmeno asiatica), credo che il suo accento sia del nord Europa. La cosa mi lascia perplesso. La signora è comunque gentile e mi promette di aiutarmi nella ricerca di un editore (o "editoriale" come lo chiama lei) per i miei pezzi.

Per cena vado a "little India", un quartiere a maggioranza Tamil e mangio un buon "tali". Gli indiani cominciarono ad arrivare qui all'inizio del 19° secolo. La maggior parte proveniva dal Tamil Nadu, uno stato del sud, ed era impegnata nei lavori più umili. Altri si inserirono nell'organizzazione amministrativa, in quella militare e nella polizia. All'inizio si trasferirono prevalentemente gli uomini, le donne arrivarono solo in un secondo tempo.
Ripensavo alla sera di ieri, alle ragazze malay e all'episodio della lista dei regali. Ricordo bene come quelle stesse ragazze solo tre mesi fa in Thailandia si scandalizzavano davanti al comportamento delle "ladies" thailandesi che "agganciano" gli stranieri al bar o in discoteca in cambio di una manciata di bath o di qualche regalino. Qual'è la differenza tra i loro comportamenti? Chi si mette in vendita e chi invece no? Qual'è la definizione di prostituzione? Chi ha meno scusanti per essere caduta nella trappola del consumismo, dell'apparenza, della venalità? L'ex mondina delle province povere di I-Saan attratta dalle "luci colorate della vita metropolitana" o l'istruita insegnante di una scuola privata della ricca e avanzata Singapore che presenta la lista della spesa ad uno spasimante?
Il culmine è stato toccato quando la ragazza, cercando probabilmente di apparire meno materialista, ha pensato di inserire nella lista dei desideri: "l'uomo dei miei sogni". Le era incredibilmente sfuggito il fatto che "l'uomo dei suoi sogni" era esattamente ciò che il suo genio della lampada cercava (o sperava) di essere.

lunedì 1 settembre 2003

Singapore, 1 settembre 2003

Ho fatto un salto al Raffles place, l'area su cui il "fondatore" della colonia aveva deciso di costruire il centro finanziario e commerciale della città. Fu edificato a partire dal 1822 su terra "rubata" al Singapore river e porta il nome attuale dal 1858, in memoria del suo ideatore.
All'interno della sottostante stazione della metropolitana sono appesi alle pareti foto e dipinti che ritraggono la piazza così com'era agli inizi del secolo scorso. I palazzi e le strade assomigliano a quelli di una vecchia città europea. Bellissima.
Negli ultimi decenni gli edifici delle case commerciali, delle banche e dei negozi sono stati abbattuti - spiega orgogliosamente un'indicazione turistica - e al loro posto sono stati eretti alti grattacieli. Della vecchia piazza non resta ormai che il nome, quello di un uomo che in queste recenti realizzazioni riconoscerebbe poco o nulla del suo progetto, pure ambizioso.

domenica 31 agosto 2003

Singapore, 31 agosto 2003

Mi trovo all'orto botanico di Singapore, all'interno del "ginger garden". Di tutti i posti in città è probabilmente quello a cui l'ossessiva cura per i dettagli e la sofisticazione dei singaporiani meglio si adattano. È insomma l'unico luogo in cui il controllo quasi totale dell'uomo sulla natura sembra convincentemente appropriato. L'uomo a Singapore si è imposto un numero di regole troppo elevato. Le regole vengono severamente fatte rispettare e i cittadini si dimostrano estremamente disciplinati e ubbidienti. Nessuno getta una carta a terra, nessuno sputa per strada (e questo in una città a predominanza cinese è un dato sorprendente), pochi temerari si azzardano ad attraversare la strada al di fuori delle strisce pedonali.
Alle volte messaggi diversi sembrano creare confusione attorno agli obiettivi prioritari delle politiche dello stato. Può succedere ad esempio di trovarsi in un bagno pubblico e di imbattersi in un messaggio che colpevolizza chi non utilizza lo sciacquone accanto ad un altro che ricorda l'importanza di limitare l'utilizzo d'acqua onde evitarne sprechi dannosi. Singapore è infatti uno stato che da un lato si impegna per mantenere elevatissimi standard di pulizia e dall'altro deve far fronte al problema delle risorse idriche per le quali dipende totalmente dalla vicina Malesia, con la quale ha recentemente ingaggiato una guerra sul prezzo.

A Steve è capitato di assistere ad un'esercitazione antincendio: un'incaricato impartiva ordini con un megafono invitando gli inquilini di un intero condominio, piano dopo piano, a fare rapporto presso un'area prefissata attendendo ulteriori istruzioni. Gli inquilini, quando chiamati, uscivano diligentemente dai loro appartamenti e aspettavano pazientemente in piedi sulle aree prestabilite. Il mio simpatico amico si chiedeva come una tale procedura potesse rivelarsi efficace in una situazione reale. Ruben si è potuto godere una scena ancor più divertente: una lattina rotolava lungo un marciapiedi sotto lo sguardo attento degli increduli passanti che se avessero avuto una macchina fotografica avrebbero, secondo lui, immortalato "l'eccezionale evento".
Anche qui, come altrove, sono le bande di giovani "ribelli alla moda" che offrono alcuni degli spettacoli più pietosi. Mi trovo all'interno di una stazione dell'efficientissima metropolitana quando sulle scale mobili incrocio un gruppo di giovani vestiti come dei "naziskin". Lo spirito di sacrificio e l'abnegazione con cui indossano stivaletti anfibi e pesanti giubbotti "bomber" in una città equatoriale sono encomiabili. L'atteggiamento e i sorrisi che sfoggiano, comunque, ricordano più i paninari di San Babila che i neo-nazisti di Rostok.

giovedì 28 agosto 2003

Diario - Singapore

Ieri sera ho fatto una passeggiata. Da Bugis/Parco verso Nord, fino al Raffles Hospital dove poche settimane fa e' fallita l'operazione tentata da un'equipe internazionale di medici per separare due sorelle siamesi iraniane unite alla testa. Non so bene perche' ma mi aspettavo di trovarvi un segno a ricordo di quell'esperienza ricca di speranza, ingenuita', rassegnazione e tristezza che per giorni aveva catturato l'attenzione del mondo. Una lapide, un mazzo di fiori: non c'era niente, se non mi fosse rimasto impresso in mente il nome dell'ospedale non ci avrei nemmeno fatto caso.
La citta' sembra sempre piu' artificiale, irreale, quasi finta. Particolarmente di notte. Lasciando fare all'immaginazione potrei credere di essermi rimpicciolito, vittima di un incantesimo o protagonista di una piece hollywoodiana, e di stare all'interno di un modellino in plastica. Tutto ha la stessa consistenza fasulla.
Passano alcune auto, dei taxi e l'illusione del modellino lascia posto ad un'altra sensazione. Sembra che fino a ieri l'intera citta' fosse in costruzione e che sia appena stata inaugurata e aperta all'uso. Tutto, ma proprio tutto brilla di nuovo. Gli edifici moderni cosi' come quelli coloniali ammantati dai colori di illuminazioni studiate ad arte.
L'uomo a Singapore ha costruito molto ma, almeno in parte, ha avuto rispetto di se' stesso. I grattacieli, non esageratamente alti, rompono lo spazio senza pero' soffocarlo.
Strani esperimenti architettonici catturano l'attenzione: due palazzi le cui pareti formano degli angoli molto acuti, se osservati da punti di vista privilegiati, sembrano figure in due dimensioni: lame senza spessore che si elevano, impossibilmente stabili, per decine di metri. Una torre a righe chiare e scure che si va stringendo verso l'alto ricorda le tetre costruzioni di Gotham City, la citta' gotico-futuristica delle avventure di Batman.
I prati sono perfettamente falciati e le siepi, minuziosamente potate, si interrompono a intervalli regolari per lasciare spazio a giovani alberi e luccicanti lampioni. Ovunque il manto stradale sembra appena rifatto. Il bianco e il giallo della segnaletica orizzontale brilla di vernice nuova alla luce discreta ma onnipresente di lampioni e insegne.
Passeggio anche di giorno e la citta' mostra di soffrire di ulteriori mali della modernita'. Il caldo tropicale fa sudare ma ben peggio si sta nelle aree climatizzate dei centri commerciali. Dopo alcuni minuti un padano come me, abituato a cercare al coperto il riparo dall'umidita' e dal freddo delle rigide giornate invernali, si ritrova paradossalmente a cercare all'esterno un po' di calore per sciogliere i muscoli intorpiditi. Nelle food junctions, versione ad aria condizionata dei caotici mercati asiatici, scopro di non essere il solo ad evitare i tavoli esposti al getto micidiale dei bocchettoni d'aria. In un posto defilato mi godo, si fa per dire, un costoso succo d'ananas.

Oggi Steve e' "scappato" da Singapore: prima di tornare trascorrera' qualche giorno a Mersing, una cittadina della costa malese, nella vicina provincia di Johor Baru. Prima della sua partenza abbiamo chiacchierato al tavolo di un ristorantino cinese. Ha continuato con l'esposizione delle sue teorie. Tramite internet e' entrato in contatto con numerosi adolescenti, la maggior parte dei quali si dimostra depressa, frustrata e infelice. Steve punta il dito contro genitori e strutture scolastiche colpevoli, oltre che per l'uso delle pene corporali (l'uso della bacchetta e' legale e incoraggiato in molti stati americani), di trasmettere valori sbagliati, di non ascoltare, di umiliare e di non dare affetto e amore ai ragazzi.

mercoledì 27 agosto 2003

Diario 23-27 agosto - Singapore

È il primo giorno dell'incontro a 6 sulla crisi nucleare coreana che si tiene a Pechino.
Sono a Singapore. Ho viaggiato per circa un mese con Luca e Lorenzo M. Da Bangkok a Koh Samui, da lì ad Hat Yai e quindi a Penang, in Malesia. Ci siamo dunque imbarcati su un aliscafo per Medan, la maggiore città dell'isola indonesiana di Sumatra. Quindi abbiamo visitato il lago Toba, Bukit Lawang, Jakarta, Yogyakarta e Bali. Questo viaggio non ci ha entusiasmato come, ad esempio, quello dello scorso anno in Laos. Alcuni dei posti che abbiamo visitato sono, esteticamente parlando, molto belli ma forse ci aspettavamo un'esperienza più emozionante, meno "comoda", un'industria del turismo meno sviluppata.
Non appena L. e L. partono io torno a Jakarta e questa si rivelerà la tappa più interessante del viaggio nel paese. La città è ancora sotto shock per il recente attentato all'hotel Marriot. L'industria del turismo ovviamente è uno dei primi settori a risentirne. La passeggiata per le strade coloniali e lungo il canale - sporchissimo - di Batavia mi riconcilia col paese. Dopo qualche giorno volo a Batam e da lì prendo un traghetto per Singapore.
È la terza volta che arrivo nella città stato: la prima volta fu via terra, dal ponte che la collega alla Malesia, la seconda in aereo e ora via mare. È la solita Singapore: artificiale. Mi offre una delle sue facce più effimere, quella dell'isola di Sentosa dove un vecchio forte inglese è stato trasformato in un'attrazione Disneyana, le spiagge sono di sabbia importata e lo spettacolo dei giochi d'acqua è introdotto dalle "magiche" idiozie di una voce hollywoodiana. Contavo di restarci poco ma l'incontro con alcuni personaggi interessanti mi ha trattenuto in città già per tre giorni.
Il primo è Steve, un americano che ha rinnegato la sua patria e da qualche anno si divide tra Australia e Canada. Ha lavorato fino ai 35 anni nel settore dell'informatica, ha messo da parte un po' di soldi, ha comprato un paio di case e poi ha "sentito" la sua chiamata "spirituale", un po' come San Francesco o Siddharta, a differenza dei quali ha però visto bene di non spogliarsi di tutti i suoi averi. Ha lasciato il lavoro, ha dato le case in affitto e ha cominciato a dedicarsi ad attività meno utilitaristiche.
Dopo aver vuotato il sacco dell'antiamericanismo passa al suo argomento preferito: l'intelligenza emozionale. Le emozioni, i sentimenti considerati come un ramo dell'intelligenza, al pari di quello logico, musicale, ecc. Un argomento interessante. Alcuni studiosi, il più famoso dei quali è un certo Goleman, hanno cercato di applicare i principi dell'intelligenza emozionale al mondo degli affari, ad esempio cercando di analizzare le relazioni tra le emozioni degli individui e le tecniche di leadership. Steve è convinto che gli studi in quest'ambito debbano avere obiettivi più ambiziosi e meno venali. Crede fermamente che lo sviluppo di questa materia possa migliorare il rapporto tra individuo e società ed è per questo che sta cercando il modo di introdurla nelle scuole. A Singapore è entrato in contatto con un "consulente della formazione" (una pofessione di cui non avevo mai sentito parlare) e gli sta esponendo le sue idee.
Malgrado tutte le contraddizioni, Steve è un personaggio interessante che ispira simpatia, con ottime intenzioni e alcune buone idee.
Ogni tanto sembra in preda ad un'ossessione. Cerca di interpretare un po' tutto nella sua ottica votata al miglioramento sociale. Un giorno ha incontrato un ragazzino incaricato dalla sua scuola di controllare che i suoi compagni all'uscita dall'istituto attraversassero la strada correttamente. Steve - il quale ama avvicinare gli sconosciuti e sorprenderli con qualche domanda delle sue - gli ha chiesto cosa dovesse fare in caso riscontrasse qualche infrazione.
«Li invito a seguire le indicazioni stradali».
«E in caso si rifiutassero di farlo?»
«Segnalo l'accaduto a scuola»
«E nel caso i disobbedienti non fossero studenti della tua scuola?»
«Ah...no, io mi posso occupare soltanto dei miei compagni»
E questo a Steve proprio non va giù. Il servizio è ristretto ad un gruppo di persone. Il ragazzo non viene educato ad agire per il bene della comunità intera ma a limitare l'ambito dell'azione al suo gruppo di appartenenza. Se qualcun'altro rimane vittima di un incidente non sono in fondo fatti suoi: questo è il cinico messaggio...
Il secondo incontro è con Ruben, un uruguaiano-israeliano che vive nel mio hotel.
Dopo qualche minuto di conversazione Ruben butta lì, come se niente fosse, una notizia bomba. Mentre si trovava in Cina, a febbraio, si è ammalato di Sars!
«Cosa? Come? La Sars? E che hai fatto? Ti hanno messo in quarantena?»
Lui sorride divertito alla mia reazione e comincia a spiegarmi con calma. Ha contratto il virus mentre viaggiava in una delle province occidentali. Con tutta probabilità mentre si trovava in treno. Sapeva si trattava di una specie di polmonite ma ai tempi la malattia non aveva ancora un nome e ancora non si parlava di un'epidemia. Oltretutto la stampa cinese non affrontava l'argomento. Ritornato ad est del paese, mentre si trovava a Guandong (la provincia in cui scoppiò l'epidemia), gli è capitato di imbattersi per le strade delle città in numerose persone colpite dal virus e ha intuito che si trattava di qualcosa di più serio di qualche caso isolato di polmonite.
Arrivato ad Hong Kong ha finalmente potuto avere accesso ai media occidentali. Dopo aver appreso che H.K. era una zona altamente a rischio ha deciso di recarsi in Thailandia. Prima di imbarcarsi per Bangkok ha ingoiato delle aspirine per abbassare la febbre e mezza bottiglia di sciroppo per calmare la tosse. Portava gli occhiali da sole per coprire l'emorragia causata dai forti colpi di tosse. È rimasto a Pattaya a curarsi - da solo, in "segreto" - fino a completa guarigione.
Mi sono chiesto più volte - seriamente - se può essersi inventato tutto ma sono sempre giunto alla conclusione che il racconto è verosimile, regge. Inoltre il protagonista mi sembra una persona affidabile e credibile.
In seguito ho avuto con Ruben una conversazione di oltre 12 ore. Per la maggior parte abbiamo parlato della situazione israelo-palestinese. Ruben mi ha tracciato un ottimo profilo storico, dalla metà del 19° secolo ai giorni nostri e ha risposto al bombardamento delle mie domande. Ero emozionato e soddisfatto per aver finalmente trovato - dopo due anni di infruttuose ricerche - una fonte di informazioni accurata e relativamente obiettiva su un argomento così complesso, cruciale ed interessante. Mi sono lasciato completamente andare con il flusso delle domande. Alla fine, a notte inoltrata, eravamo esausti. Ruben in particolare.
Con la metropolitana ho percorso un lungo tratto fino ad una stazione in estrema periferia, nel nord-ovest dell'isola. Lì ho cambiato e sono salito sulla linea LRT, un incrocio tra un treno ed un autobus. È un vagone che viaggia, per mezzo di ruote di gomma, su una corsia sopraelevata, alimentato da una linea elettrica. Non c'è un pilota, il mezzo è comandato a distanza. Anche in periferia la situazione non cambia. La città resta asettica. Edifici tutti uguali si susseguono lungo il percorso di questo "treninobus". I giardini sembrano tutti uguali e qualche alberello qua e là. Ogni tanto spunta qualche parchetto. Abbondano, come sempre, i centri commerciali.
Cinesi, malay e indiani si differenziano solo per le caratteristiche fisiche o per gli abiti. Per il resto regna l'uniformità assoluta: gli adulti escono dall'ufficio, vanno al centro commerciale e quindi al ristorante. I ragazzi escono da scuola, vanno al centro commerciale e poi al fast food. Fa un certo effetto incontrare tanti indiani riservati e cinesi che non sputano a terra. Tutto appare 'politically correct'. Quando il treno passa molto vicino ad un condominio i vetri del mezzo da quel lato si tingono magicamente di un bianco opaco. La privacy degli inquilini è così salvaguardata. Torno in città, scendo alla stazione di Orchard Rd e sono costretto a pagare un caro supplemento per aver superato i limiti di tempo concessi per una corsa. In un sottopassaggio la mia attenzione viene attratta da quattro tizi attorno ad un tavolino che cercano di vendere un giornale sbraitando qualcosa a proposito del governo.
Sono i membri del partito democratico, lo sparuto gruppo eternamente all'opposizione. Accusano il governo di essere "legalmente corrotto". Sostengono che gli stipendi dei membri del governo qui sono di due o tre volte superiori a quelli dei loro colleghi in USA e UK. E l'economia è in crisi da 6 anni. Il tasso di disoccupazione aumenta. Gli stipendi invece no. Cerco di capire cosa ne pensano della libertà politica e della situazione della stampa. Mi viene spiegato che alle scorse elezioni il PAP - il partito di governo - ha ottenuto il 75% dei voti ma essi sono sicuri che ci sono stati dei brogli.
I più importanti organi d'informazione sono controllati dal governo e i democratici non potrebbero per legge vendere il loro giornale. La legge inoltre impone loro un tetto massimo per le loro sovvenzioni di 5000 dollari di Singapore (circa 2500 euro). Il governo tollera le loro attività e li tratta un po' come degli innocui monelli fino a che non diventano una minaccia seria. Il loro leader è stato denunciato con un pretesto e praticamente spogliato di gran parte dei suoi averi.

domenica 20 aprile 2003

Rajasthan: l'illusione di una favola - Dharamsala, India

Svegliarsi la mattina su un sedile di un autobus ed osservare, oltre il finestrino, il paesaggio quasi surreale del Rajasthan meridionale e' come non svegliarsi affatto. Si ha l'impressione di trovarsi in un sogno gia' iniziato di cui pero' non si serba alcuna memoria. La luce del giorno che e' appena nato viene riverberata da tutti gli elementi del paesaggio desertico che scorre al di la' del finestrino. La sensazione e' quella di un chiarore quasi insopportabile. Tutto splende di una luce che non e' pero' quella calda che ci si aspetterebbe. E' piuttosto come quella riflessa dalle nevi sulle vette himalayane del nord, a centinaia di chilometri da qui. A rassicurarci che ci troviamo al posto giusto le testimonianze del deserto sono li' a pochi metri oltre il ciglio della strada: i primi cammelli, la sabbia e qualche arbusto qua e la'. Eppure anch'esse sono pronte a fondersi nel bianco gelido assieme alle pareti delle case o ai segni onnipresenti dell'industria del marmo: le cave, le fabbriche e, accatastate sui loro cortili, le lastre della pietra gia' lavorata.
E' una fresca mattina di Febbraio e l'autobus poco piu' che ordinario che qui chiamano "deluxe" scorre veloce, troppo veloce sulla strada stretta e tortuosa che porta ad Udaipur. Entrato in citta' il mezzo si ferma nella prima periferia, sporca, povera e inquinata come quella di ogni altro centro indiano, e fa scendere una simpatica coppia di professori del Sikkim, un piccolo stato nel nord-est del paese. Gli occhi a mandorla, gli zigomi alti e sporgenti, diversi nell'aspetto dagli altri passeggeri, sembrano anche loro degli stranieri in visita.
E' una storia particolare quella del Sikkim. Piccolo regno himalayano incastrato tra Nepal, Tibet cinese, Buthan e Bengala occidentale fu annesso all'India sulla base del risultato di un referendum tenuto nel 1975. Il plebiscito fu indetto dal sovrano di allora, preoccupato per le turbolente agitazioni del movimento per la democrazia appoggiate tra l'altro dal governo indiano. In passato questo regno era stato sotto il controllo dei tibetani prima e degli inglesi poi. Durante l'occupazione britannica il Tibet, che riteneva per ragioni storiche di avere diritto al controllo sull'area, arrivo' ad invadere il Sikkim, subendo quasi subito la controffensiva inglese. Strano precedente questo per una nazione, quella tibetana, che oggi dalla sede del suo governo in esilio a Dharamsala combatte la battaglia per la liberta' dall'occupazione cinese, supportata dalla solidarieta' di migliaia di stranieri affascinati dal carisma della figura del Dalai Lama, la guida spirituale di questo popolo.
La religione predominante nel Sikkim e' il buddhismo. Le due etnie principali sono quella tibetana e quella nepalese. La lingua di quest'ultima e' quella piu' diffusa. Di indiano in questo stato non c'e' molto. "Anche questo cibo ci e' estraneo" scherza il professore davanti a dal e chapati, che da queste parti sono quasi due simboli nazionali. Ma questo non sorprende poi tanto in un paese come l'India in cui sei religioni contano almeno qualche milione di fedeli e in cui sono presenti 18 lingue ufficiali oltre a piu' di un migliaio di dialetti. Un paese in cui non e' un'esperienza rara ascoltare un gruppo di persone che con disinvoltura conversano in inglese pur non essendo degli stranieri.
L'arrivo ad Udaipur mi riserva una piacevole sorpresa. Il guidatore di rickshaw a cui mi rivolgo per farmi accompagnare al tempio Jagdish mi propone una tariffa di molto inferiore alle migliori aspettative ventilate dalla guida che mi porto appresso. Animato dalle precedenti irritanti esperienze di Calcutta, Varanasi e Nuova Delhi mi ero preparato una risposta indignata che pero' sono costretto a strozzare in gola non senza provare qualche senso di colpa per l'ingiusto pregiudizio. In questo paese si e' purtroppo facilmente indotti a sospettare e dubitare di chiunque. Offre sollievo scoprire che ovviamente la maggioranza della popolazione e' gentile, corretta e disposta ad aiutare l'ospite. Ma al contempo fa anche rabbia scoprire che il nostro cuore si lascia indurire cosi' facilmente dal comportamento dei numerosi personaggi disonesti e spregiudicati con cui il visitatore straniero ha spesso a che fare.
Udaipur e' una citta' incantata. Gli stretti vicoli del centro, i saliscendi, i templi, le haveli (le antiche residenze decorate di ricchi mercanti), il lago Pikhola e i palazzi sontuosi danno l'impressione a chi e' appena arrivato di aver effettuato uno strano viaggio che dalla realta' lo ha portato nello scenario di una favola d'altri tempi. Il Lake Palace, su di un'isola nel lago, lo Shiv Niwas Hotel e il Monsoon Palace, sul cucuzzolo di un monte oltre la riva opposta del Pikhola, sono stati il teatro di numerose scene di Octopussy, un film della saga 007. La pellicola viene ora riproposta ogni sera con tenace monotonia nei ristoranti della citta'.
Alcuni edifici nel complesso del City Palace sono sfarzosi al limite del pacchiano. Mosaici, vetri e mattonelle colorate decorano esterni e interni delle ricche sale adibite a museo. Altri due edifici ospitano altrettanti hotel di lusso. Non si riesce a muovere un passo senza dover comprare un nuovo biglietto d'ingresso. La lista delle tariffe e' complicatissima, sembra essere stata compilata da un enigmista o da un burocrate del ministero delle finanze. Il giro in barca sul lago costa 150 rupie ma per attraversare il viale che dalla biglietteria porta al molo bisogna munirsi pure del biglietto d'ingresso all'area ristretta. Quest'ultimo non da' diritto all'entrata al museo per la quale e' necessario comprare un ulteriore tagliando. A meno che non si acceda al museo dalla porta settentrionale bisogna poi pagare l'esosa "tariffa per visitatori". L'entrata delle macchine fotografiche costa come un rullino, quella delle telecamere quattro volte tanto. Una guida costa 70 rupie ma se volete che le spiegazioni siano in una lingua diversa dall'hindi dovete pagare un supplemento di 25 rupie. E cosi' via per numerose altre voci. E' solo un esempio di come in questo paese in cui la vita di tutti i giorni sembra seguire il suo corso senza obbedire ad alcuna regola (e di questo molti indiani tendono a vantarsi) alcune aree della societa' sono invece impigliate in una burocrazia e in una serie di norme che creano ancor piu' confusione, una delle poche cose di cui qui non c'e' sicuramente bisogno.
Il giro in barca permette di osservare da vicino l'elegante esterno del Lake Palace e di visitare il palazzo di Jagmandir che sovrasta l'altro isolotto che fronteggia la citta'. Ma soprattutto offre l'occasione di ammirare lo splendido tramonto da una posizione privilegiata. A quest'ora della sera la magia di Udaipur entra in scena con abiti diversi. Col calar del sole cambiano i colori dei riflessi sulle vetrate, sulle mattonelle e sulle facciate dei palazzi. Alcune abitazioni si mimetizzano, altre sbucano come dal nulla per imporsi sul nuovo sfondo. Ogni elemento trova il suo infedele doppione riflesso sullo specchio d'acqua.
Piu' tardi chiedo ad un turista neozelandese che si e' goduto il costoso buffet al Lake Palace com'e' il palazzo al suo interno. "Bello, ma non tanto quanto ti aspetteresti dopo averlo visto da fuori". Meglio il bar dello Shiw Niwas Hotel in cui per entrare bisogna ingannare la formalissima sorveglianza con qualche innocua bugia. Si dice che i proprietari di questi palazzi, i discendenti degli antichi signori di queste citta', da quando alle loro famiglie sono venute a mancare le entrate provenienti dalle tasse imposte alla popolazione locale, non solo non sono stati piu' in grado di mantenere questi costosi edifici ma nemmeno la vita oziosa e dissoluta che, assieme ai loro familiari, si dice conducano nei luoghi piu' in e costosi del mondo.
Il giorno finisce accompagnato dal suono martellante dei battipanni impugnati dai dhobi - i lavandai - che, per quattro lire, percuotono incessantemente il bucato sui gath, le scalinate che scendono alle acque del lago.

Pushkar, sei ore di autobus a nord-ovest di Udaipur, e' una delle numerose citta' sacre per gli hindu. Decine di Sadhus (individui alla ricerca spirituale dell'illuminazione), con la barba e i capelli incolti, passeggiano per la citta' avvolti nelle loro tradizionali vesti arancioni. Il consumo di alcol, della carne e persino delle uova e' proibito. E' vietato scendere le scale dei gath e avvicinarsi alle acque del lago che da il nome alla citta' senza essersi prima tolti le scarpe. Niente fotografie o riprese nelle vicinanze delle acque sacre.
Nessun divieto invece riguardo il consumo di charas (l'hashish indiano). I Bang Lassi, yoghurt liquidi "insaporiti" con un pizzico di charas, vengono serviti ai tavolini dei bar improvvisati lungo la via principale. Al gath orientale, ottimo punto per osservare un suggestivo tramonto, nessun divieto per chi, dopo essersi zelantemente tolto le scarpe, cerca di vendere patacche o raggirare le decine di turisti assiepati sulle scalinate. Nessuno proibisce ad un saltimbanco locale in equilibrio precario su una strana biciclettina di esibirsi nelle sue evoluzioni, alcune delle quali masochistiche e alquanto disgustose. Si passa la fiamma di una candela sulla pelle, si cosparge il corpo con la cera bollente e infrange delle lampade al neon con il petto provocandosi sanguinose ferite. Non contento termina il suo spettacolo masticando e inghiottendo i frammenti di vetro del tubo utilizzato nel numero precedente. "Che s'ha da fa' pe' campa'"...viene da pensare. Donne indiane insolitamente loquaci e aperte camminano con le loro borraccette di henna - il pigmento con il quale, per qualche rupia, dipingono le mani dei passanti con dei disegni propiziatori. Una volta assicurata l'illusione del sacro, in questa citta' il profano e' libero di prendere il sopravvento.
Pushkar e' troppo piccola per sopportare l'enorme flusso di "hippy della domenica" che vi arrivano ogni giorno. Ha l'aria di una citta' stravolta, dal volto sfigurato. Quale fosse la sua faccia originale, di quando era semplicemente un piccolo centro sacro, io non lo so, lo posso solo immaginare. Forse non lo ricordano nemmeno i vecchi, dall'aria sconfitta, che trascorrono le giornate seduti sul ciglio della strada, tra spazzatura e sterco di vacca, con la mano tesa per chiedere l'elemosina.

Ho visto abbastanza, decido di proseguire. La mia prossima meta e' Jaisalmer, costruita attorno ad un enorme forte, nel mezzo del deserto del Thar, non distante dal confine con "l'odiato" Pakistan.
L'autobus si ferma per una breve sosta a Pokaran, pochi chilometri ad est di Jaisalmer. In quest'area nel 1998 il governo indiano fece eseguire dei test con cinque ordigni nucleari. La scelta della zona di confine come teatro delle esplosioni non fu casuale. Pochi mesi dopo le autorita' pakistane, accettando la provocazione, decisero di testare le loro atomiche. L'escalation della crisi ha portato alcuni mesi fa alcuni rappresentanti dei due governi ad ammettere il rischio di un conflitto nucleare - facendo rabbrividire l'opinione pubblica internazionale. Solo l'intervento diplomatico degli Stati Uniti aveva convinto le due parti ad abbassare i toni. In un articolo d'opinione - pubblicato da un noto quotidiano indiano in lingua inglese - l'autore si chiedeva come la piu' grande potenza mondiale potesse essere in grado, a soli pochi mesi di distanza, di affrontare la questione sub-continentale con tanta abilita' e quella irachena con tale inflessibile ottusita'.
La questione indo-pakistana affonda le proprie radici nel terreno minato del processo d'indipendenza dal dominio britannico, al termine del quale i due stati furono ufficialmente creati. Correvano i tempi delle "battaglie non violente" di Gandhi e dei suoi seguaci. Piu' l'ipotesi dell'indipendenza sembrava realizzabile, piu' la frattura tra la fazione hinduista e quella musulmana si allargava. Al momento della partenza degli inglesi, contro le resistenze del "Mahatma", due stati furono creati: l'India, nell'area a maggioranza hindu, e il Pakistan, in quella in cui l'Islam era la religione predominante. Per tragica ironia quest'ultima soffriva di una soluzione di continuita' e il Pakistan risulto' composto da due blocchi - occidentale e orientale - separati da migliaia di chilometri di territorio indiano. Quest'assurda "frattura nella frattura" porto' alla creazione, venticinque anni piu' tardi, del Bangladesh, sulle ceneri - o meglio sulle pianure allagate - di quello che era stato il blocco orientale dello stato musulmano.
Subito dopo l'ottenimento dell'indipendenza la tragedia intuita da Gandhi non tardo' a manifestarsi in una disumana esplosione di disperazione, miseria e violenza. Interminabili colonne umane cominciarono a snodarsi lungo le strade che attraversavano i confini. Famiglie intere con bambini, anziani e i pochi oggetti che riuscivano a trasportare lasciavano le case, i parenti, gli amici e la loro storia alle spalle per raggiungere la terra assegnata al loro credo. Innescata da un miscuglio di disperazione, diffidenza, panico e odio scoppio' la bomba della violenza che, alimentata dalla propaganda dei fanatici, si diffuse a macchia d'olio tra le carovane e nelle citta'. In nome della propria fede si cominciarono a commettere i crimini piu' assurdi e terribili. Senza alcun freno etico o perlomeno umano succedeva cosi' che un padre hindu a cui era stato ammazzato il figlio scegliesse a caso uno o piu' bambini di famiglia musulmana e li sventrasse senza pieta' a colpi di machete. E viceversa. La gente moriva a migliaia. In gran parte innocenti, donne e bambini. Il macello, i massacri metropolitani cessarono ancora una volta anche per merito di Gandhi. E questo fu l'ultimo atto della sua eroica vita, prima di essere assassinato da un gruppo di integralisti hindu.
La tensione, l'odio, la diffidenza e la propaganda pero' non svanirono mai. E non e' solo una questione fra i due governi. La maggior parte degli indiani considera i pakistani como loro nemici, senza averne nella grande maggioranza dei casi mai incontrato uno. Mi e' capitato di parlare di questo argomento con il capo di una pattuglia di poliziotti a Varanasi, dei passeggeri in treno, gente comune al ristorante, nei negozi e per la strada. Ascoltavo sempre la stessa cantilena. "I musulmani, i pakistani fomentano il terrorismo, cercano lo scontro, sono mossi dall'odio". E ancora: "Il nostro paese deve difendersi, la comunita' internazionale deve aiutarci a combattere il terrorismo e il Pakistan". E' proprio questo uno degli aspetti piu' controversi della vicenda. Ripetutamente infatti le autorita' indiane hanno cercato di cavalcare l'onda della lotta al terrorismo con l'intento di coinvolgere le potenze occidentali nella questione delle terre contese del Kashmir. E gli Stati Uniti si guardano bene dall'assecondare le richieste indiane, preoccupati come sono di mantenere la preziosa alleanza del Pakistan nella loro crociata al terrorismo.
'Chello Pakistan!' significa: 'Ma vai in Pakistan!'. E' questa l'espressione con cui gli indiani si mandano scherzosamente a quel paese. Loro ridono, io chiedo perche'. "Nessuno vorrebbe andare in Pakistan, non capisci?" mi risponde un giovane che aveva appena sfottuto con quell'espressione un vecchio mendicante. Io non capisco. "No, probabilmente mi sfugge l'umorismo indiano" rispondo in tono leggermente provocatorio. Il giovane non comprende a cosa io mi riferisca, non gli passa nemmeno per la testa che qualcuno possa effetivamente voler andare in Pakistan. Continua a ridacchiare cercando consensi. Non si capacita del fatto che qualcuno non colga l'evidente ironia del "chello Pakistan!" e nemmeno immagina che io quell'espressione la disprezzi. E ancor meno che la consideri la punta dell'iceberg dell'odio ingiustificato, di una propaganda subdola ed estremamente pericolosa.
Ma dove e' andata a finire la spiritualita' dell'India? Una delle facce di una cultura millenaria, di una filosofia che parte da presupposti diversi da quelli occidentali. L'alternativa, l'altra via, la possibilita' di salvezza. Quella spiritualita' che tanti giovani europei, americani, australiani, israeliani, giapponesi e coreani sono venuti e continuano a venire a cercare. E' chiusa all'interno degli Ashram? Delle comunita', delle sette? Nei centri di yoga o di meditazione vipassana? Nelle pratiche Ayurvediche? Segregata, senza contatti con l'esterno? E' appannaggio dei soli guru e dei loro seguaci? Perche' non se ne vedono i segni nella societa' civile, per le strade? Quelle strade in cui la mancanza di risorse primarie per la maggioranza della popolazione ha liberato il campo per l'odio, l'egoismo e la violenza.
Dovunque vado l'India mi sbatte in faccia i suoi problemi e i suoi peccati. A brutto muso, senza tanti veli. L'odio verso i nemici esterni e interni non e' l'unica piaga che affligge il paese. Sporcizia, poverta', inquinamento, "maleducazione civica", e un becero materialismo saltano prepotentemente agli occhi di ogni osservatore.
La spazzatura, a tonnellate, sgorga da ogni angolo, scende verso i fiumi e i laghi. Dalle scarpate ferroviarie e dai burroni di montagna. Dai palmeti nelle spiagge verso il mare. La noti dappertutto, tranne che nei cestini dei rifiuti. E la ragione e' semplice: di cestini non ce ne sono, o ce ne sono pochissimi. Il cittadino "responsabile" puo' camminare per chilometri con un sacchetto di plastica o una carta sporca in mano, prima di arrendersi e buttarla in un cumulo che forse qualcuno spazzera'. La pratica comune e' un'altra. I rifiuti vengono candidamente gettati dai finestrini dei treni, degli autobus e delle auto. Lasciati cadere in mare da qualsiasi imbarcazione. Buttati dalla finestra della cucina, magari sulla testa di qualche malcapitato. I passanti se ne disfano sovrappensiero insozzando marciapiedi e prati.
La situazione raccapricciante delle 'slums', le pessime condizioni igieniche di questi quartieri le cui case sono costruite con vecchi sacchi di riso e fogli di nylon ridotti a brandelli, la vedi scorrere al di la' del finestrino del treno che esce o entra nelle stazioni di Delhi, Calcutta o Bombay.
Le orde di bambini e vecchi con le mani e i piedi mutilati, sporchi, vestiti con stracci maleodoranti, con le chiome che sembrano cespugli, ti assalgono ad ogni angolo di qualsiasi citta'. E tutti imparano, chi prima chi dopo, chi in un modo chi in un altro, a ignorarli. A fare finta che non ci siano o a minimizzarne il dramma della situazione. Diventano come delle mosche sporche e fastidiose. Ci sono, non ci si puo' far niente. E poco importa se le mutilazioni sono frutto di incidenti e malattie o se sono state tremendamente inflitte ad arte per impietosire, per sciogliere il cuore del generoso passante. I moncherini sono li', davanti a te, la carne annerita dal sudicio o da chissa' quale strumento o infezione. Le vacche non vanno mangiate perche' sono sacre agli hindu. I maiali perche' sono immondi per i musulmani. Questi derelitti invece non li difende nessuna tradizione. Li puoi pure prendere a calcioni se danno fastidio alla clientela del tuo locale.
"E' la sovrappopolazione" ti dicono quelli che stanno bene. "Se ci fosse meta' della popolazione questo sarebbe un grande paese". Uno prende atto dell'ammissione del fatto che un gran paese quindi l'India non lo e'. E su questo, nonostante tutto, non sono completamente daccordo. Ma qui parlano di sovrappopolazione come se fosse una calamita' naturale, un fendente improvviso calato dal cielo che in un solo attimo ha fatto piu' che triplicare il numero di abitanti. Poco piu' di trecento milioni negli ultimi decenni della dominazione coloniale, includendo anche gli attuali Pakistan e Bangladesh. Oltre il miliardo ora. Di preciso chi lo sa? Non credo che qualche zelante funzionario dell'istituto nazionale di statistica sia andato a censire la popolazione delle 'slums'. Me lo vedrei proprio, vestito di tutto punto, con le cartelle in mano, su strade infangate, tra bambini affamati che piangono, vacche sudice, cani rognosi, di catapecchia in catapecchia, di porta in porta (che poi sono dei semplici sacchi di riso), chiedere: "Signora, in quanti vivete in questo angusto tugurio? Quindici? Ah, no...quattordici, capisco, il piu' piccolo non ce l'ha fatta, se n'e' andato ieri notte...".
"Non credo che ve ne siate accorti solo ora di essere in sovrannumero" chiesi una sera ad un signore durante uno dei miei interminabili viaggi in treno "forse lo stato sarebbe dovuto intervenire in passato".
"Questo e' un paese democratico" rispose lui con piglio orgoglioso "qui le politiche di controllo delle nascite come quelle della Cina non si possono attuare. Qualcuno ci ha provato ed ha miseramente fallito". Si riferiva probabilmente al disastroso e impopolare programma di sterilizzazione forzata promosso da Sanjay, figlio di Indira Gandhi e fratello di Rajiv.
"Ma in un paese democratico si possono utilizzare gli strumenti della sensibilizzazione, dell'educazione, si puo' insegnare alla gente che un figlio in piu' non significa necessariamente un maggior reddito per la famiglia. Si puo' insegnare alla gente ad usare i metodi di contraccezione. Cosa ha fatto il governo indiano in merito? E, se ha fatto qualcosa, quando ha cominciato?". Sguardi perplessi, risposte vaghe e un po' stizzite. La sovrappopolazione intesa come calamita' naturale e' una spiegazione che probabilmente fa comodo a molti.

Il traffico, l'inquinamento e l'assenza di educazione stradale, in particolare la mancanza di rispetto per i pedoni, fanno apparire al confronto Napoli, Roma o Milano delle citta' modello in stile scandinavo. In molte citta' indiane l'aria e' indubbiamente irrespirabile. Il traffico e' spesso paralizzato e l'unica soluzione al problema che viene in mente all'automobilista locale e' quella di infierire sul clacson della propria vettura. Le rilevazioni statistiche di una nota guida turistica hanno rivelato che il clacson di ogni veicolo viene in media utilizzato dalle 10 alle 20 volte per chilometro! Attraversare la strada nelle metropoli indiane puo' essere spesso un'impresa impossibile. Anche se il traffico e' bloccato gli automobilisti tendono a disporre i loro mezzi in modo da non lasciare spazio sufficiente nemmeno per il passaggio di una persona a piedi. Se il traffico poi non e' bloccato la situazione non migliora di molto. Pochissimi automobilisti tendono a fermarsi nel caso la carreggiata sia impegnata da un pedone. La maggior parte di essi si aspettera' che l'importuno si tolga di mezzo prima dell'arrivo del loro veicolo. Degli 80.000 morti annuali per incidenti stradali, il 10% sono pedoni e ciclisti. Gli autisti degli autobus, poi, sono spesso pagati in base al numero di passegeri che utilizzano il mezzo e multati per ogni minuto di ritardo accumulato a fine corsa. Nel caso di corse notturne a lunga percorrenza sembra che l'uso di anfetamine tra i conducenti sia una pratica in continua diffusione. Si possono facilmente immaginare le tragiche conseguenze di questo folle mix di regole assurde e comportamenti irresponsabili.
La cosa che forse piu' ferisce, pero', e' lo scoprire come il materialismo e l'avidita' abbiano fatto passi da gigante in India. Chi non ha niente sembra essere lasciato al suo destino. I pochi che hanno in abbondanza vivono imbambolati nella favola occidentale. Basta osservare quello che la pubblicita' e le serie televisive cercano di propinare alle classi piu' abbienti per rendersi conto di quali e quanti falsi miti siano stati importati dall'occidente. Se la societa' indiana fosse quella mostrata dalla TV, essa girerebbe attorno a telefonini, campi da golf, profumi, cosmetici, vestiti costosi e cioccolatini. Basta uscire dalla propria stanza d'albergo e fare quattro passi per rendersi conto che la realta' e' ben diversa. Colpa nostra? Beh, per buona parte forse si'. Ma se e' vero che l'occidente e' uno zelante docente in materialismo, e pur vero che l'India puo' essere considerata un allievo modello.
Cosa si puo' dire poi del resto della popolazione, chi non muore di fame e non e' nemmeno ricco sfondato? E' una domanda che resta facilmente senza risposta ma se l'osservatore dovesse valutare con gli occhi del turista il giudizio sarebbe davvero scoraggiante. Il visitatore straniero e' visto troppo spesso come una mazzetta di dollari con le gambe e le braccia ma stranamente senza testa. Truffe, raggiri, rapine e persino atti di violenza sono all'ordine del giorno, dell'ora e del minuto. Non c'e' turista straniero in India che non sia costretto a tenere gli occhi aperti tutto il tempo e che non sia stato piu' o meno consapevolmente "fregato" (nel migliore dei casi) numerose volte. Ne ho la conferma proprio nel tragitto verso Jaisalmer. Devo cambiare autobus a Jodhpur. Il mezzo e' gia' entrato in citta', io sto chiacchierando con Giuseppe, un pugliese che abita a Milano. L'autobus si ferma. Alcune persone si avvicinano ai finestrini e ci invitano ad uscire. Ci informano che siamo arrivati al capolinea. Noi non siamo convinti. Non ci sembra di essere in una stazione degli autobus e molti dei passeggeri indiani non si alzano dai loro posti. Perplessi decidiamo di restare a bordo. A quel punto pero' si fa avanti il controllore che ci conferma la notizia: siamo arrivati a Jodhpur, e' l'ora di scendere. L'autorita' del controllore ci ha quasi convinto, stiamo per prendere i bagagli e uscire. Per scrupolo chiediamo informazioni ad un passeggero che, a bassa voce, senza farsi notare, ci fa sapere che la stazione degli autobus e' a qualche chilometro di distanza e ci consiglia di restare nel mezzo. Scopriamo il retroscena: gli individui che ci invitavano a scendere sono autisti di autorickshaw in cerca di accaparrarsi una corsa e il controllore guadagna una "percentuale" per ogni "vittima" consegnata nelle mani dei "carnefici". Mi accorgo solo dopo averlo fatto di aver mandato a quel paese con un'espressione da osteria uno dei truffatori che candidamente mi sorrideva e salutava mentre l'autobus ripartiva.

Arrivare in una citta' come Jaisalmer e' un'esperienza che ti riappacifica con questo pur sempre gran paese.
Le guide turistiche e gli opuscoli descrivono Jaisalmer come una citta' da "Arabian nights", da "Mille e una notte". Non si puo' che essere d'accordo. Il mastodontico forte, al cui interno vivono ancora migliaia di abitanti, sovrasta tutto il resto. Al suo interno templi, palazzi, case e negozi sono tutti di un colore. Lo stesso della sabbia del deserto e del manto dei cammelli. Alla luce del tramonto tutto sembra dorato, da cui il soprannome della citta': "The golden city". Camminare lungo il labirinto di strettissime viuzze e' un piacere che ha un sapore misto di antico e di irreale. Da un punto di osservazione sopra le mura si scorge chiaramente, a qualche centinaio di metri di distanza, il limite netto della citta'. Oltre tale limite il nulla, anzi il deserto, che nulla proprio non e'.
Per rendersene conto basta trascorrervi una notte. Stare seduti in completa solitudine sulla sommita' di una duna che sovrasta le altre durante l'ora che precede il tramonto. I pensieri scelgono autonomamente il loro percorso incoraggiati dall'atmosfera di pace e tranquillita' che regna in questo posto, in questo momento. Questa falsa prospettiva regala l'illusione di dominare il deserto. Niente di piu' falso. La percezione sarebbe ben diversa senza la rassicurante presenza dei cammelli e delle guide. Le nostre "navi del deserto", finalmente libere dal pesante fardello di selle e bagagli, pascolano in compagnia delle femmine, inadatte al trasporto di uomini e merci a causa della loro naturale irrequietezza e percio' utilizzate solamente per scopi riproduttivi. I cammellieri, sul focolare che hanno acceso, preparano la cena. Gente del deserto, nata qui e mai stata altrove.
"Ho cominciato a fare il cammelliere a 8 anni, da allora non ho fatto altro" racconta uno dei due, l'unico che parla un po' di inglese. Ora di anni ne ha 20 ma il suo volto, con la pelle annerita e seccata dal sole, e' quello di un quarantenne.

In citta', come in tutta l'India, e' scoppiata una nuova febbre. L'argomento delle conversazioni e' uno solo. Non l'imminente guerra in Iraq che, non fosse altro per la grande presenza musulmana nel paese, dovrebbe generare interesse e apprensione. E' bensi' quello dei mondiali di cricket che sono appena iniziati in Sud Africa e Kenya. Questa disciplina un po' antiquata, eredita' coloniale dell'impero britannico, e' qui considerata sport nazionale. "Per noi e' come una fede, una religione" mi dice un giovane il cui sogno e' quello di emigrare in Europa. In effetti e' forse piu' di una religione. Mette infatti daccordo fedeli di ogni credo, membri di caste diverse, centralisti e indipendentisti, poveri e ricchi. Tutti si ritrovano ipnotizzati davanti agli schermi onnipresenti che trasmettono le partite della nazionale. Chiunque si cimenta nel batting: cercare di ribattere la palla lanciata dall'avversario usando un martellone poco maneggevole. Almeno sul cricket, in India, non ci sono spaccature.

Ho avuto fortuna. A Jaisalmer in questi giorni si tiene il festival del deserto. Gare di cammelli, musiche tradizionali, competizioni per i baffi piu' belli, per l'arrotolamento del turbante, per Miss e Mister deserto ed altre esotiche attivita' compongono il programma. Allo "stadio" il vincitore della gara dei baffi esibisce orgoglioso i sui mustacchi: ogni estremita' e' lunga piu' di mezzo metro, e' curatissima, di un brillante nero corvino e viene normalmente tenuta arrotolata.
E' quindi l'ora delle competizioni dei turbanti: quella per indiani e quella per stranieri. Durante la seconda accade qualcosa che rompe l'atmosfera di seriosa formalita' che regna sul festival. Un tizio pelato sale sul palco esaltatissimo e dopo pochi secondi si e' gia' capito che non e' assolutamente interessato alla natura della competizione. Lo riconosco, fa parte di un gruppo di artisti italiani che ho visto al forte qualche giorno prima: i "Giullari senza frontiere". Il giovane improvvisa un numero irresistibile. Dopo il segnale d'inizio del serissimo giudice i partecipanti si impegnano alacremente per arrotolarsi in testa la striscia di stoffa che hanno a disposizione. Il clown, con mosse professionali degne del miglior Charlot, ci si impiglia dal collo ai piedi, sembra non potersene piu' liberare. Per un paio di minuti continua ad inventarsi delle trovate esilaranti.
All'inizio il pubblico e' spiazzato, poi lentamente capisce. Le prime risate sono quelle dei bambini a cui si aggiungono poco dopo i genitori e gli altri spettatori. Quando l'artista per liberarsi un braccio finge di strozzarsi o di spremersi le pudenda le gente e' piegata su se stessa dalle risate, si regge lo stomaco, molti hanno le lacrime agli occhi. Gli altri concorrenti non se ne accorgono o non capiscono e continuano imperterriti ad arrotolare i loro turbanti. Al fischio finale il clown afferra con entrambe le mani la matassa informe e se la poggia sulla testa. Quindi fa scivolare abilmente i pantaloni a terra e, fermo in mutande con le mani in testa a reggere il turbante, si rivolge al pubblico con un'espressione sorpresa e imbarazzata alla Stallio e Ollio. Poi per tirarsi su i calzoni lascia cadere il turbante. Decide quindi di reggerli entrambi. Ora che la situazione e' sotto il suo controllo sfoggia un sorriso soddisfatto e annuisce ai suoi vicini. Ormai anche lo speaker e' stato catturato, si e' lasciato andare e commenta le goffe gesta del bravissimo comico. Il pubblico si e' ormai dimenticato della competizione e continua a sbellicarsi dalle risate. Nessuno segue la premiazione che avviene proprio mentre il pagliaccio porge un capo della sua striscia di stoffa ad un concorrente, si preme l'altra sulla fronte e comincia a girare su se stesso per arrotolarla. Conclude facendosi allacciare i pantaloni dalla vincitrice, sfoggiando mosse e sguardi maliziosi. Esce quindi esultando e salutando tra l'ovazione del pubblico.
Un componente del gruppo mi spiega che i "Giullari senza frontiere" viaggiano prevalentemente in paesi in via di sviluppo e si esibiscono in citta' o in piccoli villaggi per la gioia di grandi e piccini. Non hanno scopi di lucro. Se le autorita' locali decidono di aiutarli con qualche sovvenzione ovviamente accettano. Altrimenti non fa niente. Lo spettacolo si fa comunque! E' una bella iniziativa quella di questo gruppo italiano di volontari che viaggia, anche in Asia, per far ridere la gente. Che svolgano bene il loro compito e' dimostrato dalla reazione degli indiani ai loro spettacoli.
Molte delle ONG e dei loro volontari che operano in questo continente lavorano seriamente e con competenza. I risultati raggiunti sono incontestabili. Alcune situazioni in cui mi sono imbattuto in Laos, tanto per fare un esempio, mi hanno pero' lasciato perplesso. A Luam Namta, una citta' del nord, mi capito' di osservare una volontaria giapponese che saliva su una delle bellissime e bianchissime Jeep di una ONG, assieme a due amiche, evidentemente due turiste, sicuramente non delle volontarie. Chiacchieravano e scherzavano. Le udii chiedere all'autista di accompagnarle in un villaggio. Davano l'impressione di andare a trascorrere un'allegra giornata in compagnia. A Vientiane, la capitale del Laos, sedevo ad un tavolo di un buon ristorante francese. Ad un tratto un folto gruppo di persone entro' e si venne a sedere a pochi metri da me. "Spiando" la loro conversazione capii subito che si trattava di volontari di una o piu' ONG. C'erano dei francesi, degli inglesi e delle belle ragazze laotiane. Erano tutti vestiti con abiti cari e alla moda e chiacchierarono per tutta la serata affrontando argomenti vari. Mai pero' li udii soffermarsi su problemi o avvenimenti legati alla loro attivita' nel paese, se non per raccontare qualche divertente aneddoto. Alla fine della loro costosa cena si avviarono verso un altro locale.
Scene dello stesso tipo se ne vedono spesso a Vientiane, a Phnom Phen e nelle altre localita' del sud est asiatico in cui la presenza delle organizzazioni internazionali e' massiccia. Si puo' sicuramente obiettare che in tutto cio' non vi sia niente di male. Una ragazza porta le amiche in un villaggio, a visitare la scuola in cui insegna. Un posto molto pulito. Dei ragazzi occidentali, a migliaia di chilometri da casa, dopo una giornata di lavoro, si ritrovano per una serata assieme e vogliono parlare di qualche argomento che non sia inerente la loro attivita' quotidiana. Qualcuno di loro vive li' gia' da molti mesi e si e' innamorato di una bella ragazza del posto. Niente di male, no? Gia', niente di male. Ma non e' a causa di qualche maliziosa deduzione che fui e resto perplesso. E' per la forte sensazione che provo ogni volta che sono testimone di episodi del genere. Mi sembra che ad alcune persone di quello che fanno in quei paesi non importi poi molto. Come se fosse una copertura per un piacevole soggiorno in una bella localita' esotica. Ecco, questa impressione i "Giullari senza frontiere" non me l'hanno data. Hanno l'aria di chi ama la professione che ha scelto. La loro missione e' semplice ed efficace. E soprattutto non sembrano nascondere ipocritamente il loro desiderio di godersi anche tutte le altre soddisfazioni che un viaggio in India, Brasile o Palestina puo' regalare.

Lascio Jaisalmer con un autobus per Jodhpur dove mi trattengo solo per qualche ora. Giusto il tempo per dare un'occhiata al forte, al quartiere blu, dal colore con cui gli occupanti hanno dipinto alcune delle case, e l'enorme cappa di smog che copre la citta', paurosamente visibile da un'altura nei pressi della torre dell'orologio.
Salgo quindi su un treno notturno per Nuova Delhi e, tra venditori di chai, samosa, riso, e catene con lucchetto per assicurare i bagagli, mi lascio alle spalle il Rajasthan, una terra che, come il resto dell'India, si dice che o l'ami o l'odi. Quando lo chiederanno a me non avro' dubbi, rispondero' che l'odio e l'amo.